I titoli dei libri a volte sono oscuri, ermetici, enigmatici. Altre volte sono esplicativi ed efficacemente riassuntivi. Il testo di Angelo Villa L’origine negata. La soggettività e il Corano condensa nel titolo la molteplicità di tematiche che il saggio articola. Tre questioni, in particolare, si affacciano in tutta la loro complessità: quella dell’origine del Testo Sacro della religione islamica, quella della soggettività e quella del nesso fra le prime due. Un quarto elemento, tuttavia è rintracciabile nella filigrana del testo, leggendolo, per così dire, in controluce: è un tema sottile, che resta sullo sfondo ma che, una volta individuato, mostra la sua portata e il suo valore.
Il libro si caratterizza, infatti, per la sua adesione a una tradizione intellettuale che sin dagli albori ha tracciato il solco dialettico della psicoanalisi da Freud in poi e che vede nel processo di storicizzazione sia la possibilità di comprensione dell’oggetto di ricerca (in questo caso il Corano) sia quella della costruzione dell’identità personale. In un’accezione psicoanalitica, storicizzazione e soggettivazione possono essere assunti come sinonimi; la psicoanalisi stessa ha ragione di esistere in campo sociale, tanto quanto nella clinica e nella cura del disagio individuale, proprio laddove si affaccia una difficoltà o una crisi che tocca il piano della soggettivazione.
In un momento storico, il nostro, caratterizzato da profonde trasformazioni e dalle inevitabili crisi che i momenti di passaggio portano con sé, la riflessione sull’alterità con la quale, ad esempio, i flussi migratori ci mettono a confronto, rappresenta un passaggio fondamentale. Due sono, a mio avviso, le ragioni di questa necessità stringente. La prima riguarda la necessaria ridefinizione di valori comuni intorno ai quali fondare le basi per la costruzione del legame sociale nel futuro; la seconda, strettamente legata alla prima, riguarda il grande (e tragico) successo che, nel nostro tempo, riscuotono i movimenti religiosi settari e estremisticamente orientati. Rispetto a queste due problematiche la posizione dell’Occidente sembra risentire, secondo molti autori, di un deficit di lettura del fenomeno religioso, deficit che può essere rintracciato proprio nel processo di secolarizzazione che ha formato la cultura occidentale post-illuminista.
Pensare, o ripensare alla fede, al sentimento religioso come autenticamente, sinceramente e profondamente fondante l’identità delle persone sembra essere divenuto un compito impossibile per il pensiero occidentale. Eppure la cecità dell’Occidente su questo punto non è un fenomeno senza conseguenze né sul piano dell’orientamento sociopolitico né, tantomeno, sulla vita reale delle persone: per quanto il dibattito politico abbia visto (e tuttora sperimenti) incandescenze legate all’incontro fra culture diverse, l’assenza di una seria riflessione intorno a questo problema la fa da padrone. Nonostante la cronaca quotidiana pulluli di evidenze tragiche che toccano il singolo tanto quanto il collettivo, nonostante la politica veda un progressivo incremento di richieste di diritti particolari che si basano sull’appartenenza religiosa, sessuale, alimentare di gruppi minoritari, nonostante sia palese la crisi del concetto stesso di principio universale (la questione femminile, in questo campo non è certo ultima per importanza) l’Occidente sembra cullarsi nell’illusione che l’umano cammini su un sentiero universalmente illuminato dai lumi della ragione, che affetti e pulsioni siano stati definitivamente bonificati e che il sentimento religioso tocchi unicamente e soavemente la vita spirituale del singolo soggetto.
Nel suo testo Musulmani di tutto il mondo, unitevi! La sinistra di fronte all’Islam Jean Birnbaum avanza una critica rivolta principalmente agli orientamenti politici della sinistra progressista, evidenziandone l’incapacità di lettura del peso che il sentimento religioso riveste nella vita quotidiana delle persone, nel loro modo di intendere la vita, i legami, nonché nella costruzione del loro “modo di pensare”. Sebbene Birnbaum rifletta soprattutto, come detto, sulle posizioni della sinistra e faccia particolarmente riferimento alle derive fanatiche e terroristiche che la fede può prendere, la sua sottolineatura costante è riferita, in modo più generale, all’incapacità dell’Occidente secolarizzato di collocarsi nella prospettiva dell’altro, ovvero di coloro per i quali la religione rappresenta il nocciolo intorno al quale si è andata costruendo l’identità e che riguarda milioni di persone al mondo, musulmane e non. Le conseguenze di questa mancata lettura non possono non ricadere sul tessuto sociale: se da un lato esse toccano, in senso stretto, la direzione delle scelte politiche da mettere in campo per trovare nuovi (e finora inediti) orientamenti che consentano di delineare un sistema di valori condiviso, d’altro canto non possono non interrogare la ricerca psicoanalitica, che trova la sua ragione di esistere proprio laddove qualcosa (un testo) o qualcuno, chiama in causa la soggettività.
Da questo punto di vista il testo di Villa rompe un silenzio che, quantomeno nel nostro Paese, riguarda in modo particolare il movimento psicoanalitico, ma che in linea generale, tocca, a mio avviso, la produzione intellettuale italiana, con rare eccezioni. Infatti sebbene l’opera di interrogazione nei confronti del rapporto fra soggettività e Corano non sia affatto estranea al movimento psicoanalitico internazionale, (che vanta, in tal senso, un’ampia produzione letteraria) L’origine negata. La soggettività e il Corano rappresenta, ad oggi, il primo e unico esempio, nel nostro Paese, che vada in questa direzione di ricerca e di analisi.
Il processo cardine intorno al quale ruotano le riflessioni contenute nel testo di Villa è, dunque, quello della costruzione della soggettività: come detto, se la psicoanalisi ha una ragione di esistere, questa si ritrova proprio nella possibilità, per il soggetto, di collocarsi in quel tanto di libertà che è concessa alla condizione umana. Tuttavia, in un’ottica psicoanalitica, il soggetto non è un dato di partenza bensì una costruzione che, per certi versi, non cessa mai di compiersi: essa è, infatti un processo più che una premessa poiché, potremmo dire, l’inizio della vita di un individuo propende più dal lato dell’Altro che da quello del soggetto.
Il soggetto umano nasce all’interno di una rete di rappresentazioni sociali proprie e specifiche di una certa epoca storica, o di una data cultura, oltre che in un sistema di valori che esula e talvolta è in contraddizione con quello famigliare ma che nondimeno pone il soggetto di fronte alla necessità di “fare i conti” con il mondo che lo circonda. L’intreccio fra questi due livelli di rappresentazione è ciò che fa dire al padre della psicoanalisi che
«La contrapposizione tra psicologia individuale e quella sociale e collettiva si rivela, quando la si consideri più attentamente, ben meno profonda di quanto non appaia a prima vista […]. Nella vita dell’individuo l’altro rappresenta sempre un modello, un amico ed un nemico, e sin dall’inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, psicologia sociale»[1].
La specificità della dottrina psicoanalitica, al di là della bontà o della drammaticità della situazione di partenza della vita di un soggetto, fonda il suo impianto pratico/teorico su quello che viene definito, appunto, come “processo” di soggettivazione. A differenza di quanto accade in natura, infatti, la crescita di un individuo non va da sé, non si realizza secondo un programma biologicamente predisposto, non è garantita né prevedibile nei suoi esiti. Nella costruzione della soggettività è implicato un sistema di rappresentazioni simboliche che si configurano, necessariamente, come dato di partenza sul quale il soggetto in divenire costruirà la propria identità: la rete di rappresentazioni, relazioni, storie famigliari della generazione e delle generazioni precedenti introducono ogni nuovo nato all’interno di un più ampio sistema già costituito che traccia, anche e soprattutto a livello inconscio, una prima via sulla quale il bambino inizierà a percorrere la propria vita. Rispetto a questi dati di partenza all’individuo spetta il compito di trovare la propria, singolare, collocazione e questa non può che realizzarsi attraverso un’operazione di interrogazione rivolta ai suoi altri. Non a caso ne L’origine negata questo processo di costruzione soggettiva viene definita dall’autore come «…il rovescio di un’operazione di pensiero; lungi dall’essere una pura e semplice constatazione si delinea invece come un esercizio di interpretazione. […] In altri termini, la soggettività è, in quanto tale, un’interpretazione del singolo, l’atto con cui quel che accade, dentro e fuori di lui, viene recuperato a un senso, e dunque viene sottratto all’accadere […]».
In estrema sintesi potremmo sostenere che la soggettività si costruisce unicamente a partire dal momento in cui il soggetto in divenire si interroga a proposito del proprio altro, ripensandone i valori, i precetti, gli insegnamenti, gli atti e da questa interrogazione costruisce, soggettivamente, una trama di senso della propria esistenza. La religione rappresenta, da questo punto di vista, uno degli “altri”, non certamente l’unico, ma nemmeno il più insignificante, rispetto ai quali l’individuo deve potersi rapportare dialetticamente per accedere alla soggettività.
Dal testo di Villa emerge come il Corano, contrariamente ai testi sacri delle altre due religioni monoteiste, intrattenga con la tematica della costruzione della soggettività un rapporto particolare, che tuttavia è stato poco analizzato nel corso dei secoli. Uno dei principali motivi di questa scarsa interrogazione riguarda certamente la concezione, all’interno della religione musulmana, della sacralità del “Libro” in quanto testo “increato”, disceso direttamente dal cielo e scritto in lingua (e su questo punto torneremo più avanti) araba. Villa, invece, ne L’origine negata compie un’operazione che sarebbe riduttivo definire come meramente esegetica: l’autore, infatti, oltre a riprendere storicamente alcuni passaggi cruciali della vita del Profeta e ad offrire in conclusione del testo alcuni elementi di riflessione derivanti dal trattamento di pazienti di religione musulmana, si dedica a rintracciare puntualmente i passaggi della costruzione del Corano, evidenziandone la sua origine di testo polifonico, non uno, non esistente da sempre e immutato.
Da qui, dunque, il titolo: un’origine negata che nega questa polifonia e che trova le sue fondamenta in un campo politico difficilmente districabile da quello religioso, e che si è solidamente compattata nel tempo a tutela del “Libro” e di un’identità. Ma c’è di più, l’autore rintraccia alcuni elementi del testo coranico che si pongono in stretta relazione con la concezione psicoanalitica dell’inconscio, elementi che, sostanzialmente, possiamo attribuire al ruolo che la lingua gioca sia nella trasmissione del messaggio religioso, sia, e ancor prima, nel Corano in quanto testo. L’elemento linguistico, come vedremo più avanti, colloca, infatti, il Corano in una sorta di paradosso: da un lato, in quanto testo, esso offre tutte le basi per una grande libertà interpretativa da parte del soggetto; dall’altro, in quanto testo “sacro”, e dunque non interpretabile, non passibile di letture differenti, diviene invece il maggiore ostacolo alla possibilità di soggettivazione. Il punto cardine intorno a cui ruota questa problematica si ritrova sostanzialmente nella questione della bellezza, e dunque della sacralità della lingua araba.
Il tema della bellezza della lingua araba rappresenta, a mio avviso, il punto centrale dal quale partire per tracciare il filo rosso di un discorso sul rapporto fra Corano e processo di soggettivazione per come la psicoanalisi lo delinea. Nel testo di Villa questo nesso appare evidente.
Il legame fra linguaggio e processo di soggettivazione, infatti, è un tema implicito nel lavoro analitico e questo non solo perché la cura psicoanalitica utilizza come unico strumento la parola (essa fu definita da una delle prime pazienti di Freud una “talking cure”) ma anche e soprattutto perché l’accesso del bambino al linguaggio, la comprensione e l’utilizzo del codice linguistico del contesto nel quale si è trovato a nascere, rappresenta un primo passaggio attraverso il quale l’infante dà segno di accettare le regole socialmente definite e condivise dai suoi altri.
Questo tipo di linguaggio, finalizzato alla comunicazione e alla costruzione di senso, non è tuttavia l’unico né il primo incontro con il linguaggio che il bambino sperimenta. Secondo lo psicoanalista francese Jacques Lacan, infatti, esiste un altro tipo di linguaggio, più primitivo rispetto a quello comunicativo-simbolico, rispetto al quale il bambino non occupa una posizione attiva, non del tutto quantomeno. Lacan nomina questo tipo di linguaggio attraverso l’invenzione del neologismo “lalingua”:
«Lalingua serve a tutt’altre cose che alla comunicazione. Ce l’ha mostrato l’esperienza dell’inconscio in quanto esso è fatto di lalingua che come sapete io scrivo in una parola sola, per designare ciò che per ciascuno è affar suo, lalingua chiamata, e non a caso, materna. […] Quel che si sa fare con lalingua supera di gran lunga ciò di cui si può rendere conto a titolo di linguaggio […] essa comporta effetti che sono affetti […] È per questo che l’inconscio […] non può che strutturarsi come un linguaggio, un linguaggio sempre ipotetico rispetto a ciò che lo sostiene, vale a dire lalingua»[2].
Lalingua, dunque, precede il linguaggio e si colloca nel tempo antico dell’uomo, quello in cui, potremmo dire, è il suono, più che il senso, ad evocare, più che comunicare o spiegare il mistero della vita e in cui le parole della madre, o di un suo sostituto nella cura del bambino, sono intrise di una consistenza “corporea”. In questo primo tempo dell’esistenza non è affatto garantito che lalangue produca effetti di beatitudine celeste; il tono della voce e i gesti che l’accompagnano, i suoni piuttosto che i rumori trasmetteranno affetti diversi, non tutti buoni, non tutti rassicuranti ma certamente tutti in grado di scriversi in un luogo remoto della psiche del bambino. È su questo substrato carnale della lingua che il soggetto andrà a costituirsi come tale e lo farà pagando il prezzo di una necessaria rinuncia a una parte del godimento che lalangue offre in favore dell’accesso alla funzione comunicativa del linguaggio, e, dunque all’incontro con l’altro.
Nel caso della lingua araba, così come nella struttura stessa del Corano ritroviamo – e L’origine negata mostra precisamente questo legame – una produzione linguistica che si accosta più a un tipo di linguaggio dei sensi, (quello, appunto, di lalingua) piuttosto che a un uso della parola di tipo comunicativo-concettuale. Tra la definizione lacaniana di lalangue e alcuni aspetti della lingua araba come la sua bellezza e musicalità, e l’effetto che essa produce in chi l’ascolta, si possono infatti rintracciare alcuni elementi comuni.
Chérif Choubachy, in La sciabola e la virgola scrive: «Una ferma convinzione ha sempre regnato nello spirito arabo: quella delle virtù ammaliatrici del linguaggio. Ricordiamo l’hadith del Profeta: ‘Il fascino della lingua è ammaliante’»[3]. Ma, ancora, l’insegnamento stesso del testo coranico, come appare ad esempio nei ricordi di Fanny Colonna, si dirige direttamente al corpo, più che all’intelletto del credente. «Ho visto, in questo mistero del kuttab, come si insegnava ai bambini a pensare. E vivevo, nel mio corpo, quello che era il kuttab: la postura della seduta con le gambe incrociate, il ruolo della parola, della recitazione, l’ondeggiamento dei corpi, l’amore per la calligrafia delle lettere sulle tavole ricoperte di argilla»[4].
Questi elementi ammalianti della lingua araba, così come la struttura stessa del Corano, che Villa ci ricorda essere lontana da una vera e propria continuità narrativa, rinviano alla struttura testuale dell’inconscio in psicoanalisi. Nell’inconscio, come ben dimostrano le produzioni oniriche, troviamo la coesistenza di elementi contraddittori, l’assenza di temporalità, immagini evocative: un patrimonio di parole e immagini più affine al linguaggio poetico che non a quello letterario. Il sintomo nevrotico stesso, in quanto proveniente da un discorso che si svolge in una scena altra rispetto alla coscienza dell’individuo (quella, appunto, dell’inconscio) si manifesta al soggetto come un enigma. Durante la cura, l’intero processo analitico, si può sostanzialmente definire come un’opera paziente di interpretazione soggettiva di un messaggio che proviene dall’inconscio: messaggio il cui senso è dato solamente a posteriori, come esito di una presa di posizione soggettiva dell’analizzante rispetto al proprio stesso dire.
Proprio in questo punto troviamo il paradosso che tocca il rapporto fra Corano e soggettivazione: un testo eminentemente poetico, ricco di misteri, suggestioni, evocazioni e dunque particolarmente favorevole, similmente a quanto accade con l’opera d’arte, a sollecitare interrogativi nel soggetto, anziché prendere la strada che lo conduce ad essere un veicolo per la costruzione di una posizione soggettiva del credente, è stato ingabbiato, proprio a causa della bellezza, e della sacralità della lingua araba, a rappresentare quanto di più lontano possa esistere dalla possibilità di soggettivazione: un altro non interrogabile. Un vero peccato, potremmo dire, ma anche una vera perdita in termini di civiltà, di umanità, di libertà. Un danno al quale, tuttavia, è possibile porre rimedio attraverso un risveglio dell’intelletto, la ripresa di un discorso, che oggi sembra essere così sopito, intorno all’importanza di un tempo dedicato al faticoso ma necessario ripensamento di verità date per assodate. In fondo, come scrive George Steiner:
«[…] Come dice la sagacia più rudimentale non sappiamo né da dove veniamo, né dove andiamo. Siamo gli ospiti, non i creatori o i padroni, della nostra vita. Eppure il suggerimento indistinto di una libertà smarrita o da riconquistare – l’Arcadia dietro di noi, l’Utopia davanti a noi – bussa alla soglia più remota della psiche umana. Questo pulsare fantomatico sta al cuore delle nostre mitologie e concezioni politiche. Siamo creature frustrate e consolate a un tempo dal richiamo di una libertà appena fuori della nostra portata. C’è un campo in cui questa esperienza di libertà si dispiega. C’è una sfera della condizione umana in cui essere significa essere liberi-È la sfera del nostro incontro con la musica, con l’arte e la letteratura»[5].
Perché non pensare dunque al testo coranico come ad uno di questi incontri? Il testo di Angelo Villa rappresenta, da questo punto di vista, uno strumento importante per la ripresa di queste tematiche: tutti coloro che, credenti o meno che siano, guardano al soggetto come un bene prezioso nel quale si cela il mistero della parola che cerca di farsi voce, dovrebbero leggerlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
[1] S. Freud , Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1989: 261
[2] J. Lacan (1972-1973), Il Seminario. Libro XX. Ancora, a cura di Contri G.B., Einaudi, Torino 1974:132-133.
[3] C. Choubachy, La sciabola e la virgola. La lingua del Corano è all’origine del male arabo?,O/O Edizioni, Milano 2004: 66
[4] J. Birnbaum, Musulmani di tutto il mondo, unitevi! La sinistra di fronte all’islam, LEG Edizioni, Gorizia, 2018:68.
5] G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, 1989: 149
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Monica Felisetti, psicologa di formazione psicoanalitica. Oltre all’attività clinica nel suo studio privato collabora alla realizzazione di progetti culturali nelle scuole. È stata direttrice di comunità per donne e minori in disagio e ha collaborato con l’equipe del progetto “Crossing” finalizzato alla promozione della cittadinanza attiva di adolescenti migranti di prima e seconda generazione nella città di Lecco. Ha al suo attivo la pubblicazione di alcuni articoli su riviste di settore sui temi del disagio contemporaneo. Nel 2016 ha pubblicato per Tralerighe Matrioska, il suo primo romanzo.
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