di Lina Novara [*]
Nel Museo regionale di Trapani “Agostino Pepoli” è conservato un «Crocifisso con corona a punte del secolo XI-XII, mancante delle mani» – come viene indicato nell’Inventario del Museo al n. 4501 – che per anni è stato custodito nei depositi e recentemente esposto alla fruizione dei visitatori. Si tratta di un piccolo manufatto – misura cm. 14 di altezza massima ed ha una apertura delle braccia di cm. 7,5 – realizzato in bronzo, secondo fusione a stampo e a cera persa.
Di esso non si hanno dati storici e documentari ma è comunque riconoscibile come uno dei rari esempi di piccolo Cristo coronato medievale ed è classificabile come manufatto romanico del XII secolo. Con certezza si sa soltanto che proviene dalla Collezione Hernandez e si può ipotizzare che ne facesse parte per acquisto dal mercato antiquario [1].
La raccolta fu iniziata ad Erice da Francesco Hernandez (Erice 1737-1828), conte di Carrera, giurista, «antiquario», studioso di archeologia ed erudito: veniva denominata «Museo Hernandez» ed era considerata, soprattutto per la parte archeologica, una delle più importanti non solo della Sicilia ma anche d’Italia. Alla morte del conte, la collezione, già mutila per furti familiari, passò al figlio Alberto che la trasferì a Trapani e, dopo il 1850, la donò a sua volta al figlio Francesco del quale il Museo Pepoli conserva il ritratto eseguito nel 1871, a Trapani, dal milanese Carlo Prayer (1828-fine sec. XIX), uno dei fondatori della «Scuola Grigia» di Genova [2].
Francesco jr. «con immenso amore e solerzia, non curando spese e fatiche – come lui stesso scrive – l’ha totalmente arricchito da formare la compiacenza e l’ammirazione di tanti eruditi viaggiatori esteri i quali vi hanno fissato la loro attenzione» [3]: la frase è contenuta in una lettera del 18 gennaio 1887, indirizzata ad un anonimo preside, forse Astorre Pellegrini, preside del Liceo Classico di Trapani, che pubblicherà in seguito alcune delle epigrafi.
Sicuramente furono l’amore per la collezione e la preoccupazione che la mancanza di figli provocasse la dispersione della raccolta, oltre che il ricordo di spiacevoli vicende ereditarie, ad indurre Francesco jr. a trattarne la vendita all’allora Civico Museo Pepoli; fu poi il nipote Orazio, figlio del fratello Giuseppe, che nel 1821 vendette i pezzi per la somma di £. 40.000. La data d’acquisto, riportata per tutti i pezzi nell’Inventario del Museo Pepoli è il 2 dicembre 1921. L’assenza di registri e di catalogazione dell’originaria collezione non consente di stabilire quali pezzi siano stati acquistati dal conte senior e quali dallo junior: risulta pertanto impossibile risalire alla provenienza di alcune opere.
Il carattere eclettico della raccolta giunta al Museo Pepoli e comprendente – oltre ai pezzi archeologici – dipinti, sculture, oggetti d’arte decorativa e applicata, manufatti di vario genere e «curiosità», non facilita una indagine in tal senso.
Quasi certamente Francesco jr. allargò i confini della collezione del nonno che era legatissimo alla sua Erice e a tutto quello che ne riguardava la storia e le origini: acquistò reperti provenienti dalle zone archeologiche di Marsala, Mozia e Selinunte ma anche oggetti d’arte provenienti dal mercato antiquario e dall’artigianato locale. Per Francesco jr., amante della cultura e dell’arte, la collezione fu occasione di studio, di ricerca e di «sapere»: indagava infatti sui suoi pezzi, si informava, chiedeva dati e notizie, scriveva a conoscenti, intenditori ed anche a studiosi ed esperti suoi contemporanei.
Per acquisire notizie su questo Crocefisso scrisse all’archeologo Raffaele Garrucci, padre gesuita, autore, fra l’altro della Storia dell’arte cristiana nei primi otto secoli della chiesa, in sei volumi. Garrucci gli rispose da Roma in data 26 febbraio 1884, congratulandosi con lui per il possesso di uno dei pochi Crocifissi con corona imperiale e fornendogli anche dati relativi alla cronologia del pezzo. Ecco cosa scrive l’archeologo:
«Ill.mo Sig. Conte
Mi congratulo con Lei del Crocifisso che mi descrive il quale è della classe di quei pochi coronati con corona imperiale. Non è poi di molta remota antichità: ciò che può dirsi è che non appartiene ai primi secoli ed è di certo posteriore all’ottavo. È nondimeno difficile assegnargli il tempo preciso, perché dopo il mille, specialmente nei secoli XI, XII e XIII si sono fatti i crocifissi … coi piedi comunemente separati e non sovrapposti»[4].
L’archeologo, da studioso di arte paleocristiana, nella lettera intende quindi sottolineare che l’opera è da riferire all’epoca medievale soffermandosi sul fatto che, in quel periodo i piedi non si presentavano uniti da un solo chiodo ma separati e con due chiodi; è questo un espediente che si riscontra in molte opere pittoriche come ad esempio le croci dipinte.
Esaminandolo ora dal punto di vista iconografico si evince che si tratta di un Christus Triumphans con gli occhi aperti e il capo cinto da corona regale, tipologia tipica dell’Alto Medioevo e diffusa soprattutto in Germania dall’età ottoniana fino alla fine del XII secolo: il Cristo trionfante è un tema iconografico legato alla crocifissione e mostra Gesù in croce vivo, con la figura intera dritta, in posa statica, gli occhi ben aperti e con l’espressione impassibile e non sofferente. Spesso è anche assente la ferita sul costato e il corpo è definito sulla scorta di sommarie indicazioni anatomiche. Il Christus triumphans mirava a rappresentare la divinità incarnata che non soffre sulla croce ma è «trionfante» sulla morte e quindi che non muore: è l’immagine del Dio fattosi uomo che vince sulla morte e che trasmette al tempo stesso serenità e forza!
A partire dai primi decenni del XIII secolo farà la comparsa, soprattutto nelle croci dipinte, il Christus patiens, raffigurato già defunto, con gli occhi chiusi, un altro soggetto iconografico che gradualmente soppianterà quella del Christus triumphans, che comunque sarà ancora presente, seppur non dominante, nelle produzioni della seconda metà del secolo XIII e, ancor più raramente, nella prima metà del XIV.
Sul capo del Crocifisso del Museo Pepoli è applicata una corona, anch’essa in bronzo, che simbolicamente allude a Cristo re che regna dalla croce: sia pure nella mutilazione, in quanto mancante della croce centrale, ha la configurazione delle corone medievali francesi del XII-XIII secolo, con guglie prospicienti. Le raffigurazioni di Cristo con corona regale, elemento assente nel tema della crocefissione di area bizantina, si diffondono nei secoli XI e XII, soprattutto attraverso opere di piccolo formato quali bronzetti con carattere devozionale [5].
Questa tipologia di crocefissi veniva in genere applicata a croci gemmate o smaltate, in particolare in quelle che venivano eseguite a Limoges nel XII secolo, le cosiddette croci limosine, oppure posta su croci realizzate in materiali di alta qualità come oro o argento, ma anche su messali o scrigni eucaristici. Nelle fabbriche di Limoges dell’Alto Medioevo, come pure in Germania nella Renania, Cristo re, sveglio e trionfante, di solito veniva realizzato in rame dorato, con tunica o con solo perizoma, con la caratteristica dello smalto che ne ricopriva le vesti, impreziosendolo: ne sono esempi quello conservato nel Museo Cluny – Museo Nazionale del Medioevo, di Parigi; il Crocifisso (1125-50) realizzato in Westfalia, in Germania, o quello di Mosa (ca. 1150) in Renania.
Anche in Italia si conservano alcuni esemplari limosini tra cui il Cristo senza croce del Museo Cristiano Vaticano, il Crocefisso del Museo del Bargello a Firenze, i due della Pinacoteca del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, un altro dell’Accademia Carrara di Bergamo, che è molto simile ad un esemplare esposto nel Museo Diocesano di Bressanone [6].
Il Crocifisso del Museo Pepoli è un Cristo in atteggiamento «trionfante», ed è pervenuto al Museo montato su una croce di legno che sicuramente non era quella originale. La figura è cava, modellata con tratti essenziali ma efficaci, e sembra appartenere a una produzione seriale: la superficie bronzea evidenzia, purtroppo, diffusi danneggiamenti subiti nel tempo. Il volto, con i capelli a ciocche segnate da linee ondulate, che scendono sulle spalle secondo tratti tipicamente romanici, è lievemente inclinato a destra e posto quasi frontalmente rispetto allo spettatore; il torso nudo è dritto, marcato dai segni delle costole con un addome prominente. Da sotto l’ombelico parte il lungo perizonium, dal bordo superiore orizzontale, poi segnato da pieghe, più corte sul davanti rispetto al retro che lasciano le ginocchia esposte alla vista; le gambe, avvicinate e sovrapposte, sono robuste e i piedi, divaricati, sono posti su un suppedaneo molto piatto e poco apparente che presenta un foro funzionale al fissaggio alla croce: sui piedi sono appena visibili le minuscole capocchie (a rilievo) dei due chiodi.
Gli occhi grandi e spalancati non lasciano trasparire alcuna emozione e, nel complesso, Cristo sembra privo di manifestazione emotiva. La sensazione che si ha è di impassibilità e imperturbabilità, in sintonia con l’iconografia del Cristo «trionfante» che, in seguito ai contatti avvenuti con la cultura bizantina nell’arte occidentale, nel XIII secolo lascerà il posto alla piena manifestazione dei sentimenti attraverso la rappresentazione del Christus patiens.
La sproporzione del capo rispetto al resto del corpo e la rigidità formale denotano inoltre un certo indirizzo, per così dire, «espressionista», assieme ad una tendenza anticlassica, da parte dell’ignoto scultore che lo eseguì tenendo probabilmente presenti alcuni esempi di scultura romanica dell’XI e XII secolo nei quali domina un forte senso di arcaicità e semplicità.
Modello antesignano di riferimento per questa tipologia di crocefissi romanici sembrano essere quelli di stampo ottoniano che si ispirano al celebre Crocifisso di Colonia, commissionato dall’arcivescovo Gero nei primi anni della seconda metà del X secolo, o il Crocifisso d’altare della cattedrale di Essen, donato dalla badessa Matilde, figlia di Ottone il Grande, e da suo fratello Ottone (983 ca.). Il confronto con più antichi e aulici modelli ottoniani ci porta inoltre, in ambito italiano, al gigantesco Cristo in lamina d’argento (fine X secolo), voluto dal vescovo Leone per la cattedrale di Vercelli, o alla Crocifissione (1170-1180 ca.), posta sull’altare maggiore di San Pietro di Bologna, un gruppo scultoreo policromo in legno cedro, pregevole esempio di scultura romanica composto dalle figure della Madonna, di San Giovanni e di Cristo Crocifisso che, nella posizione triumphans, domina dalla croce rivolgendosi, con tanto di corona in testa, al fedele con regale superiorità.
Definire con precisione l’ambito di produzione del nostro Crocefisso, allo stato attuale delle ricerche, non è semplice: questo tipo di produzione «in piccolo» trova riscontro in opere sparse in Francia, in Germania ma anche in Italia, soprattutto in Lombardia e in Trentino. Malgrado però le l’affinità iconografiche, vi sono differenze di stile tra le varie produzioni come, ad esempio, tra i manufatti smaltati francesi e quelli tedeschi che, a differenza di quelli di Limoges, denotano minore ricerca di movimento e di pathos.
Le piccole croci romaniche italiane in bronzo, destinate ad uso liturgico o devozionale, riflettono le varie fasi dell’arte sacra di quel periodo e si rivelano diverse dalle croci limosine oltre che nelle incisioni e nel rilievo, per la minore raffinatezza e per l’assenza di smalto nelle nicchie degli occhi e nelle cannellature del perizoma: presentano inoltre Cristo più vivo, con maggior dignità e con il volto sereno e composto, non atteggiato come nei manufatti di Limoges, e soprattutto ben saldato al suppedaneo.
La forma tozza del viso con tratti essenziali del nostro Crocifisso, lo sguardo astratto e lontano, il ritmo delle pieghe segnato da linee divisorie e anche l’iconografia della rappresentazione sembrerebbero orientati verso la scultura romanica dell’Italia settentrionale: ricordiamo, come più aulici esempi, la decorazione scultorea del Sant’Ambrogio a Milano, del San Michele a Pavia o del Duomo di Trento; i capitelli del San Zeno a Verona; i rilievi di Maestro Wiligelmo nella cattedrale di Modena.
La mancanza della croce originaria limita la certezza della classificazione: a noi, purtroppo, è giunta, chi sa attraverso quali vicende, la sola figura di Cristo con le braccia distese in senso orizzontale, che, tuttavia e a buon diritto, sembra rientrare nella categoria di quei piccoli oggetti per il culto o per uso devozionale, prodotti soprattutto nelle zone settentrionali della nostra penisola nel periodo romanico.
Come scriveva il noto storico dell’arte Pietro Toesca, la scultura romanica italiana affiancava alle opere in marmo «l’arte del gettare in bronzo [...] e […] produceva piccoli oggetti per il culto o per uso ordinario. Croci di bronzo, d’altare o da processione – stazionali od astili – ancora frequenti fra di noi soprattutto nelle pievi rurali […] rispecchiano le diverse fasi della plastica»[7].
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
[*] Questo testo nasce dalla presentazione del Crocifisso, da me effettuata presso il Museo Regionale di Trapani Agostino Pepoli, il 3 ottobre 2021, in occasione della XVIII edizione della «Giornata Nazionale degli Amici dei Musei», indetta dalla FIDAM (Federazione Italiana degli Amici dei Musei), che ha avuto per tema Capolavori dietro le quinte con lo scopo di valorizzare i tesori d’arte riposti nei depositi dei musei italiani. L’opera, per anni custodita nei depositi del Museo Pepoli, è stata esposta grazie alla disponibilità del Direttore dello stesso Museo, Roberto Garufi, e rimarrà in esposizione permanente in una sala, all’interno di una vetrina.
Note
[1] Per la collezione Hernandez si vedano: L. Novara, La collezione Hernandez: da Erice al Museo Pepoli, in Miscellanea Pepoli. Ricerche sulla cultura artistica a Trapani e nel suo territorio, a cura di V. Abbate, Trapani 1997: 229-254. Eadem, La collezione Hernandez, in Museo Pepoli cento anni di storia, Trapani 2018: 65-70.
[2] Carlo Prayer (Milano 1828-?), pronipote del pittore omonimo, fu allievo dell’Accademia di Brera e nel 1848 combattè durante le Cinque Giornate di Milano. Dopo un soggiorno in Messico, documentato da un gruppo di vedute presentate alla Promotrice di Genova del 1855, entrò in contatto con l’ambiente del paesaggismo ligure e in seguito frequentò il gruppo della Scuola Grigia. Fu abile disegnatore ed incisore: eseguì, fra l’altro, il ritratto (1855) del famoso attore Gustavo Modena, oggi presso la Civica Galleria d’Arte di Milano.
[3] Lettera autografa in Corrispondenza e Carte relative al Regio Ispettorato di scavi e monumenti della provincia di Trapani (1880-1888), ordinate dal conte Francesco Hernandez, Museo regionale di Trapani Agostino Pepoli, Archivio Hernandez, fasc. 14C5.
[4] Ibidem.
[5] Per i crocefissi bronzei si vedano: P. Bloch, Staufische Bronzen: die Bronzekruzifixe, in Die Zeit der Staufer. Geschichte, Kunst, Kultur, catalogo della mostra (Stoccarda, 26 marzo-5 giugno 1977), a cura di R. Haussherr, vol. V, Vorträge und Forschun gen, Stuttgart 1979: 291-330; P. Bloch, Romanische Bronzekruzifixe, Berlin 1992.
[6] Cfr.: F. Cervini, Di alcuni crocifissi ‘trionfali’ del secolo XII nell’Italia settentrionale, in Arte medievale, vol. VII, 1, 2008: 9-32; A.O. Quintavalle, Oreficeria del Medio Evo nella Pinacoteca del Museo nazionale di Napoli, in Bollettino d’arte del Ministero della pubblica istruzione: notizie dei musei, delle gallerie e dei monumenti d’Italia, Anno 25, ser. 3, n. 3 (sett. 1931): 131-141.
[7] P. Toesca, Storia dell’Arte Italiana, Torino 1927: 1109.
_____________________________________________________________
Lina Novara, laureata in Lettere Classiche, già docente di Storia dell’Arte, si è sempre dedicata all’attività di studio e di ricerca sul patrimonio artistico e culturale siciliano, impegnandosi nell’opera di divulgazione, promozione e salvaguardia. È autrice di volumi, saggi e articoli riguardanti la Storia dell’arte e il collezionismo in Sicilia; ha curato il coordinamento scientifico di pubblicazioni e mostre ed è intervenuta con relazioni e comunicazioni in numerosi seminari e convegni. Ha collaborato con la Provincia Regionale di Trapani, come esperto esterno, per la stesura di testi e la promozione delle risorse culturali e turistiche del territorio. Dal 2009 presiede l’Associazione Amici del Museo Pepoli della quale è socio fondatore.
________________________________________________________