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Il culto delle pietre in Calabria. Elementi di una arcaica tradizione rituale

Elefante di pietra, in contrada Campana Cosenza (ph. Ferruccio Cornicello)

Elefante di pietra, in contrada Campana, Cosenza (ph. Ferruccio Cornicello)

di Francesco La Rocca

Introduzione

La sacralizzazione delle pietre è un fenomeno che risale a tempi antichissimi e che trova riscontro a partire dalla preistoria: pressoché in ogni cultura e in ogni epoca è possibile rintracciare reperti litici (manufatti o meno) utilizzati come oggetti di sacrificio, elementi di riti magici, idoli religiosi o strumenti di divinazione (Edsman in Eliade, 1997: 513-517; Frazer, 2018: passim). Quanto si propone di seguito è il tentativo di ricostruire il senso di alcune pratiche magico-religiose proprie della tradizione meridionale e legate al potere curativo e protettivo delle pietre, con particolare riferimento alla cultura rituale calabrese. All’interno di quest’ultima ritengo sia possibile rintracciare elementi della greek folk religion (Detienne in Romano, 1982: 671; Nilsson, 1961: passim) e, nello specifico, manifestazioni cultuali di matrice orfico-pitagorica, che ho già dimostrato nel numero 61 con l’articolo La tradizione orfico-pitagorica nelle credenze e nelle usanze popolari calabresi condividere profonde assonanze con la cultura calabrese odierna (La Rocca 2023: 424-435).

Tutti i culti riferiti alle pietre vedono nell’elemento naturale il segno di una realtà spirituale più profonda, di una forza sacra per la quale l’oggetto funge da medium (Eliade, 1976: 222 ss.). Anche per la spiritualità greca, dunque, la pietra diventa uno strumento in grado di mettere in contatto la persona con la divinità che rappresenta. È in tal modo che si viene a sviluppare tutta una serie di pratiche taumaturgiche che arricchiscono la tradizione mistica mediata da quei sacerdoti erranti che intorno al V secolo a.C. sono conosciuti tra i Greci con i nomi di goeti (ciarlatani), agurtai (accattoni), katartai (purificatori) e, più in generale, magoi (maghi) (Montano, 1993: passim; Lanata, 1967: passim).

Questa tradizione riscontra una certa fortuna nel tempo (Macrì, 2016: 102-119) e trova, probabilmente, il suo culmine in un poemetto dal titolo Lithikà, un vero e proprio manuale incentrato sulle proprietà curative di ventinove pietre sacre e, anche se gli studi più recenti tendono a ricollocarlo intorno al IV secolo d.C. (Zito, 2012: 134-166), è chiara l’intenzione dell’autore di far riferimento ad una tradizione precedente, quella orfico-pitagorica per l’appunto. Lo studioso, difatti, attribuisce la paternità dell’opera al cantore Orfeo e cita nel testo il mitico Euforbo, eroe greco iniziato all’arte oracolare da un indovino che gli dona come amuleto una pietra di ofite, dotata del potere di allontanare i serpenti (Federico in Ghidini, Marino e Visconti: 367-396; D’Anna, 2010: 177; Zito, 2012: 146). Ma proprio Euforbo è annoverato tra i nomi delle reincarnazioni del samio Pitagora, ricordato per i suoi prodigiosi poteri in grado di esorcizzare malattie e pestilenze tramite l’utilizzo di formule ed amuleti (Kern, 2010: fr. XXXIV [3]) tra i quali, probabilmente, le stesse pietre sacre che compaiono più volte nelle storie a lui riferite come si vedrà più avanti.

L’importanza del culto litico tra i Greci trova testimonianze tanto nella mitologia della religione pubblica quanto nelle manifestazioni più marginali della vita spirituale, a partire dalla pietra del parto utilizzata dalle donne ateniesi per ottenere parti propizi (Eliade,1997: cap.6) e proseguendo con la pietra utilizzata da Rea per ingannare Crono e detronizzarlo (Graves, 2014: cap.7). In generale, si può dire che il ruolo delle pietre abbia influenzato la cultura greca sotto più punti di vista, riempiendone i templi, i miti e le pratiche degli sciamani, sopravvivendo nell’immaginario delle colonie oltremare, che nel tempo hanno mantenuto la funzione magico-religiosa attribuita all’elemento litico, definendo un aspetto fondamentale della tradizione rituale dell’Italia meridionale.

Apollo Agyieus rappresentato nella sua forma litica su una moneta di Ambracia. Da A manual of Greek archaeology, di Maxime Collignon e John Henry Wrigh:102

Apollo Agyieus rappresentato nella sua forma litica su una moneta di Ambracia (A manual of Greek archaeology, di Maxime Collignon e John Henry Wrigh: 102)

Dèi di pietra e spiriti dell’aria

La celebrazione della terra costituiva il nucleo originario della religiosità greca la quale, nelle sue forme primordiali, trovava espressione nel culto delle caverne e della Grande Madre, attestati fin dai tempi della civiltà Minoica (Kerenyi, 2010: passim)[1]. Sappiamo da alcune testimonianze, come quella offerta da Pausania, che in questa fase embrionale la divinità era rappresentata per lo più da semplici idoli di pietra non lavorata, gli argoi lithoi (Eliade, 1997: 222 ss.), ricavati proprio all’interno delle grotte (Kerenyi, 2010: 36). Questi idoli prendevano i nomi di dèi e dee destinati a dominare per secoli il pensiero magico-religioso dei Greci, quali Dioniso, Demetra ed Ermes. Quest’ultimo, in particolare, rimase profondamente legato alla dimensione litica del culto, come rivela il nome stesso del dio, il quale deriverebbe da herma – pietra –, parola con la quale si indicavano altresì gli altari a lui dedicati, vale a dire dei semplici cumuli di sassi che, nelle fasi più avanzate del culto, potevano essere sormontati da colonnine coronate da un simbolo itifallico (il sesso maschile in erezione).

Le funzioni delle erme non sono accertate con chiarezza e, anzi, sembrano svolgere ruoli diversi nel mondo greco, anche se, generalmente, sono considerate simboli di buon auspicio e luoghi di protezione per i viaggiatori. Gli altari venivano eretti nelle sperdute strade di campagna, negli incroci e potevano essere posti davanti le soglie delle case (Edsman in Eliade, 1997: 514-515), per cui è possibile ipotizzare una funzione simile a quella dell’odierna segnaletica stradale: quando un viaggiatore attraversava luoghi impervi lasciava dietro di sé una pietra, alla quale si aggiungevano quelle dei viaggiatori seguenti, quasi a testimoniare il passaggio dell’uomo lungo i sentieri più scoraggianti (Nilsson,1961: 8-9). Quando le erme iniziarono ad essere sormontate da colonnine itifalliche (o da pietre di più grandi dimensioni) diventò esplicita l’ulteriore funzione di tumuli funerari alla maniera del tipo frigio (Kerenyi, 1950: 112) e, quindi, di vere e proprie lapidi, da cui probabilmente l’idea di un Ermes psicopompo che, oltre a vegliare sulla vita dei viandanti, ne prendeva in carico le sorti anche dopo la morte (Nilsson, 1961: 8). Si spiega così una serie di pratiche rituali legate al culto delle erme come luogo di contatto tra la vita e la morte, di cui ci offre una testimonianza sarcastica il poeta Teofrasto nella sua descrizione dell’adepto superstizioso iniziato ai misteri orfici che, trovandosi dinnanzi le erme nei trivi, non poteva sorpassarle senza prima averle onorate con un’offerta di olio e con le giuste preghiere, pena la persecuzione dello spirito che albergava in quei luoghi (Teofrasto, Caratteri: XVI 15).

Erma arcadica dalle fattezze estremamente semplici rispetto ai modelli più elaborati delle epoche successive. Fonte: M.P. Nilsson, Greek folk-religion, p.143

Erma arcadica dalle fattezze estremamente semplici rispetto ai modelli più elaborati delle epoche successive (M.P. Nilsson, Greek folk-religion, 1961: 143)

Quanto descritto fino ad ora trova corrispondenze nelle tradizioni e nelle credenze che ruotano attorno al fenomeno degli spiritati nel Sud Italia e che, in Calabria, prendono il nome di spirdàti – spiritati. Sono individui perseguitati dagli spiriti dei defunti, capaci talvolta di soggiogare i vivi mediante possessione e, nello specifico, la tradizione di Serra San Bruno offre gli esempi più celebri [2]. Si tratta di un’usanza unica per via della risonanza geografica del fenomeno, della trasfigurazione del Santo di riferimento come esorcista di spiriti e per la durevolezza storica attestata dalle fonti, che vanno dal XVI secolo fino agli anni ‘90. Si riteneva che, girovagando per le campagne e i luoghi sperduti, fosse necessario recare con sé i giusti amuleti per evitare di cadere vittima degli spiriti di coloro che erano morti in quei luoghi e che continuavano ad infestarli fluttuando nell’aria circostante. Quando ci si voleva fermare a riposare su una pietra, poi, era necessario schermarsi preventivamente da possibili anime inquiete invocando i nomi della Sacra Famiglia per non rimanere allubbiati – istoliditi – (Lombardi Satriani, 1997: 49), in maniera simile al superstizioso orfico di cui poc’anzi.

Se la possessione avesse avuto luogo, sarebbe stato necessario un vero e proprio rito di esorcismo per liberare l’ossesso: bisognava recarsi presso l’eremo di San Bruno, una grotta nella quale si trova la statua del Santo, recuperare del terriccio dai piedi della stessa e inghiottirlo al fine di espellere lo spirito. Qualora il rito non avesse restituito gli effetti desiderati si poteva ricorrere al laghetto vicino, dedicato anch’esso al Santo, nel quale i sacerdoti popolari e le commari immergevano i posseduti in maniera simile alle abluzioni praticate dagli sciamani greci, aiutati nel rito da un coro di spettatori che intimava allo spirito di abbandonare la vittima al suono di “Fora, fora, fora!” – fuori, fuori, fuori! – (Ceravolo, 2017: 114).

La scena rappresenta un’offerta votiva presso un’erma al cospetto di Artemide. Fonte: M.P. Nilsson, Greek folk-religion: 143.

La scena rappresenta un’offerta votiva presso un’erma al cospetto di Artemide (M. P. Nilsson, Greek folk-religion, 1961: 143)

In generale gli esorcismi venivano praticati nel periodo della Pentecoste, durante la processione del Santo, e il rito aveva inizio verso mezzogiorno con l’uscita delle reliquie dalla Certosa. Si tratta di elementi temporali che rafforzano la corrispondenza tra il fenomeno degli spirdàti e le Antesterie greche, ovvero le feste dedicate allo Zeus Ctonio della misteriosofia orfica, Dioniso. In quei giorni di festa il dio si sovrapponeva alla figura di Ermes Ctonio, il quale aveva il compito di condurre le anime dei defunti nel mondo dei vivi (Kerenyi, 2010: 283) tramite l’apertura dei pìthoi, grandi recipienti d’argilla in cui si conservava il vino nuovo, utilizzati anche come involucro per l’inumazione dei defunti (Nilsson, 1961: 9), fornendo così un punto d’accesso al mondo dei vivi. In particolare, il mezzogiorno era per i Greci il momento esatto in cui gli spiriti affollavano l’aria ed invadevano le strade sotto la guida di demoni asserviti allo Zeus Infero – come Pan, figlio di Ermes – che avrebbero rapito chiunque avesse incrociato il loro cammino (Hillman, 2015: cap. IV). A ciò corrispondevano le credenze sulla controra meridionale, vale a dire il momento della giornata che va dal mezzogiorno fino alle prime ore del pomeriggio e durante il quale si pensava gli spiriti invadessero le strade sotto forma di turva, cioè un vento turbinoso mosso dalle anime dei peccatori (Ceravolo, 2017:115; Lombardi Satriani in Boggio, 1981: 191-192). Le Antesterie, proprio come gli esorcismi della Certosa, si concludevano alfine con un’invocazione da parte del popolo che al grido di “Fuori Kéres!” – ovvero gli spiriti maligni che invadevano l’aria – invitava Ermes-Dioniso a ricondurre le anime nell’al di là, liberando i vivi della loro presenza (Kerenyi, 2010: 281).    

Nonostante Ermes rivestisse un ruolo di fondamentale importanza tra i culti litici del pantheon greco, è possibile rintracciare altri dèi rappresentati da pietre, sia scolpite sia grezze, che offrono spunti di paragone con la tradizione calabrese: si tratta di Apollo Agyieus –della strada – (Edsman in Eliade, 1997: 514-515) e Zeus Kataibates  –folgoratore – (Nilsson, 1961: 67), due nomi che figurano in riferimento a monoliti finalizzati alla protezione della famiglia e dell’ambiente domestico. Apollo Agyieus è descritto come una colonna sacra assottigliata ad una delle due estremità e, dunque, dalla forma piramidale, posta per strada davanti le porte di accesso alle dimore per celebrare il potere del Sole che con i suoi raggi rischiara i sentieri purificandoli dagli spiriti. Queste colonne venivano unte con olio e ornate con nastri come si usava fare con gli altari e, data la particolare forma, si può supporre dovessero svolgere altresì la funzione di veri e propri parafulmini, convogliando su di sé le folgori sacre di Zeus dalla forza potenzialmente distruttrice per le strutture civili. La particolare forma di colonna puntuta ricorda, tra l’altro, la ntinna calabrese (Accattatis, 1895: 512), vale a dire una trave di faggio che, come spiega il nome stesso, simulava una antenna, considerata un prezioso regalo da scambiarsi nel periodo natalizio come augurio di protezione e prosperità (Dorsa, 1884: 34-35; La Rocca, 2022: 32-33).

Ermes Psicopompo guida le anime con il suo bastone. Decorazione su vaso. Fonte: M.P. Nilsson, Greek folk-religion, p.143.

Ermes Psicopompo guida le anime con il suo bastone. Decorazione su vaso  (M. P. Nilsson, Greek folk-religion, 1961: 143)

Lo Zeus Kataibates svolgeva una funzione simile a quella dell’Apollo Agyieus, difatti è descritto all’interno degli “Inni Orfici” come il sovrano del fuoco e delle tempeste dotato del terribile potere delle saette, ma che poteva essere adeguatamente placato con le giuste libagioni sacre (Ricciardelli, 2000: 59-61). A questo dio, quindi, erano dedicati altari domestici rappresentati da grossi blocchi di pietra sui quali si incideva solitamente l’appellativo di Kataibates e dove si compivano offerte di cibo per guadagnarsi la protezione dai fulmini e dalle tempeste (Nilsson, 1961: 67).

Anche in Calabria si attribuiva fino al XIX secolo un ruolo di fondamentale importanza alle pietre come elemento di protezione della sfera domestica e, tra i riti che coinvolgevano l’elemento litico, uno dei più articolati era quello della pietra del Capodanno (Dorsa, 1884: 136). In occasione del 31 dicembre vi era la consuetudine di far visita nelle case di parenti ed amici recando con sé una grande pietra e, con questa, si iniziava a percuotere il pavimento della dimora intonando versi che prendono il nome di strina, cioè un canto benaugurale volto a scongiurare malie e spiriti nefasti tutt’ora accompagnato con strumenti musicali in molti paesi della Calabria:

Bona sira e bon’annu,

Fammi la strina, che è capudannu.

Quantu pisa su riverennu

Tant’oru vu’ avire st’annu.

Buonasera e buon anno,

Fammi la strina, che è Capodanno.

Quanto pesa questo reverendo

Tanto oro ti rechi quest’anno.

Il gesto di scheggiare il pavimento doveva avere, probabilmente, due funzioni: oltre ad un accompagnamento ritmico del canto, la frizione tra le pietre generava inevitabilmente delle scintille, rievocando il primordiale atto dell’accensione del fuoco, elemento di cui Apollo Agyieus, dio del Sole, e Zeus Kataibates, dio dei fulmini, erano i signori indiscussi nel mondo greco. Le scintille, quindi, erano un’invocazione simpatetica del potere del focolare domestico, che tramite l’influsso purificatore delle fiamme aveva il compito di tenere lontani spiriti e influenze negative.

Altre pietre particolari, poi, venivano impiegate come amuleti utili a scongiurare il maltempo e, quando una tempesta si approssimava all’orizzonte, i calabresi erano convinti di poterne deviare il percorso esponendo dalle finestre e dai balconi delle case sassi dotati di poteri magici. Si trattava di oggetti rinvenuti in aperta campagna, marchiati per qualche motivo da simboli misteriosi detti lettere (Dorsa, 1884: 129), quasi a sottolineare l’esistenza di un alfabeto occulto in grado di conferire potere agli amuleti e che ricorda la pratica greca di incidere l’epiteto del dio sulla pietra. In alternativa, il popolo poteva ricorrere all’utilizzo delle celebri pietre del fulmine, materiale intriso di profondi poteri magici dal quale era possibile ricavare amuleti formidabili contro le sventure.

Pietra del fulmine. Ascia bifacciale a profilo ovoide e ritocco invadente che copre tutta la superficie. Uno dei due lati corti, distinto dal resto del margine, presenta un taglio convesso non ritoccato. Polo museale dell’Umbria (MANU), Perugia (PG). Catalogo generale dei Beni Culturali.

Pietra del fulmine. Ascia bifacciale a profilo ovoide e ritocco invadente che copre tutta la superficie. Uno dei due lati corti, distinto dal resto del margine, presenta un taglio convesso non ritoccato. Polo museale dell’Umbria (MANU), Perugia

Pietra del fulmine

La pietra del fulmine, o pietra de lu truonu – pietra del tuono –in calabrese (Dorsa, 1884: 129, 147-148; Accattatis, 1895: 45), è forse la testimonianza più arcaica, nonché la più longeva che si possa reperire in materia di credenze attorno agli amuleti litici, dal momento che i ritrovamenti più antichi risalgono addirittura alla preistoria dell’uomo e si protraggono attraverso i secoli. L’origine di questa particolare roccia era oggetto di numerose superstizioni a sfondo magico-religioso e, generalmente, si pensava ad aeroliti schiantati sulla terra, o a pietre precipitate assieme ad un fulmine del quale costituivano l’estremità. Qualunque fosse la spiegazione, ci si figurava questi reperti come oggetti provenienti dal cielo e, quindi, da una zona sacra e fertile per eccellenza, l’etere, dominio degli dèi e degli spiriti (Eliade, 1997: 222 ss.).

Nonostante le fantasiose teorie che avvolgevano in un’aura di mistero la storia della pietra del fulmine, i principali ritrovamenti presentano amuleti ricavati dalla semplice selce, una delle prime pietre ad essere state lavorate dall’uomo per realizzare oggetti da taglio o accendere il fuoco tramite frizione. È probabile, dunque, che la funzione fondamentale alla sopravvivenza dell’uomo svolta dalla selce in tempi preistorici si sia perpetrata nel corso dei secoli, fino a mutare la pietra in un materiale dai poteri mistici, giustificati tramite la sua provenienza dallo spazio aereo. A testimonianza degli antichi culti che coinvolgevano la pietra del fulmine, anche in Calabria la stessa pietra per allontanare il maltempo doveva essere dotata di un foro al suo interno, proprio come quelle impiegate nei riti devoti alla Grande Madre e che trovavano l’esempio più celebre nell’ omphalos – ombelico – del tempio di Delfi in cui, ancora una volta, il dio Apollo era rappresentato da un monolite di pietra – che a questo punto si può pensare forato – che lo poneva in relazione con il dio degli spiriti Dioniso e al quale ci si rivolgeva con la stessa funzione di protezione dalle intemperie (Eliade 1997: 22 ss.; Graves, 2914: cap.7, par.8).

Data la natura estremamente antica degli amuleti ricavati dalla pietra del tuono, è facile immaginare che dissodando il terreno per operazioni legate all’agricoltura o scavando nelle caverne per trarne stalle per il gregge venissero alla luce spontaneamente questi ritrovamenti considerati dalla popolazione come artefatti prodigiosi [3]. Tuttavia, non riuscendo a realizzare l’idea di stringere tra le mani un artefatto lavorato in tempi antichissimi era più facile pensare che una delle proprietà stesse della pietra fosse quella di sprofondare nel suolo per la lunghezza di sette palmi – quasi due metri – una volta a contatto con il terreno (Dorsa, 1884:148).

Il riferimento al numero sette non era affatto casuale e, anzi, rimanda ad una certa conoscenza della numerologia sacra della Scuola Pitagorica che, come ho già discusso nel numero 61, ha segnato profondamente alcune credenze della tradizione meridionale. Il sette, ci informa Giamblico nella sua “Summa Pitagorica”, è il numero cruciale per la guarigione dalle malattie e per il compimento dei parti e, pertanto, era anche chiamato con il nome di “fortuna” e telesforos – colui che conduce a termine –, appellativo quest’ultimo destinato a diventare un vero e proprio dio della medicina a partire dal II secolo a.C..

Le qualità taumaturgiche del numero sette deriverebbero dal fatto che tanto l’ordine celeste degli astri quanto quello terreno degli elementi sarebbero strutturati sul suo principio: sette sono le sfere celesti governate dai demoni e sette risulta dalla somma dei quattro elementi e il loro triplice vincolo (Giamblico in Romano, 2012: 911-933). È probabile, dunque, che collocando la pietra del fulmine sotto sette palmi di terreno le si volessero attribuire per rimando le stesse qualità mediche e scaramantiche del numero magico. Il riferimento alla filosofia pitagorica, tra l’altro, trova appoggio in un importante antecedente testimoniato da Porfirio, cioè l’iniziazione di Pitagora ai misteri degli Idei Dattili. Sappiamo, difatti, che il filosofo samio venne iniziato in una grotta del monte Ida, a Creta, ai misteri dello “Zagreus Notturno” – Dioniso in una delle sue forme più arcaiche – e che per l’occasione i sacerdoti lo purificarono proprio tramite l’utilizzo di una keraùnia lìthos, una “pietra di tuono” (Porfirio, Vita di Pitagora: fr.17; Kerenyi, 2010: 99; D’Anna, 2010: 158) che, come si è detto poc’anzi, conservava al suo interno il mistero del fuoco e, quindi, un enorme potere purificatore.

Lo stesso amuleto si chiamava in Calabria gacciulla di lu truonu (Dorsa, 1884: 147; Accattatis, 1895: 45) – accetta del tuono –, e si ricavava lavorando la pietra de lu truonu, di ben più grandi dimensioni, conferendole una forma che ricordasse quella delle asce preistoriche, dopodiché la si appendeva al collo dei bambini come amuleto utile a scongiurare la sfortuna e le influenze negative. Tuttavia, affinché la gaccia – ascia – funzionasse era importante che la parte tagliente, di colore grigio chiumminu – piombo – , fosse attraversata da una venatura bianca che rimandasse, per l’appunto, alla forma del tuono. Questo particolare strumento venne poi ribattezzato con il nome di ugna della gran bestia – unghia della grande bestia –, cioè diventando nell’immaginario collettivo simile alle unghie del piede caprino del demonio. Ciò è da ricondursi, evidentemente, ai tentativi della fede cristiana di allontanare pratiche pagane altrimenti diffuse da secoli tra la popolazione locale, demonizzandole e rendendole motivo di terrore e sconforto.

Amuleto di corallo rosso, bottega sarda del XIX secolo. Come si può vedere l’oggetto capovolto ricorda la forma di un fulmine e non è da escludersi che l’associazione visiva possa aver giocato un ruolo fondamentale nell’associazione di poteri magici al corallo.

Amuleto di corallo rosso, bottega sarda del XIX secolo. L’oggetto capovolto ricorda la forma di un fulmine

Amuleti e talismani

La gacciulla non era l’unico amuleto impiegato dai calabresi e, anzi, si collocava all’interno di un ampio repertorio di talismani di utilizzo quotidiano in tutto il meridione d’Italia. Ad esempio, molti altri ricalcavano il motivo primitivo della pietra forata, come nel caso delle pietre della Madonna di Positano (Lombardi Satriani, 1997: 201), mentre altri ancora conoscevano un maggiore livello di lavorazione. Questi artefatti venivano realizzati impiegando differenti tipologie di minerali dal momento che ad ognuno di essi erano attribuiti poteri e funzioni specifici, suddivisi in base alle qualità materiali della pietra, come il colore o la presenza di segni particolari che ne rivelassero la natura divina (per approfondire Gaster in Eliade, 1994: 16-19; Macrì, 2’16:: passim). Uno dei materiali prediletti, nonché tra i più antichi impiegati nella storia dell’esoterismo, era senz’altro il corallo rosso, considerato dai più alla stregua di una pietra marina. In Calabria, così come in altre regioni, gli amuleti ricavati dalla sua lavorazione assumevano principalmente due forme: quella del corniciello  –cornetto – e quella del cosiddetto otto e nove (Dorsa, 1884: 125).

Il motivo del corno, probabilmente, è antico tanto quanto quello dell’ascia e gli esempi più noti ci giungono dalla civiltà Minoica, nella quale l’animale cornuto per eccellenza, il toro, era considerato l’incarnazione del dio ctonio Dioniso. Nacque lì tutta una mitologia attorno al concepimento e alla morte del “dio cornuto”, successivamente recuperata dall’orfismo e dai suoi misteri, nella quale il toro svolgeva il ruolo di rappresentante in terra del dio. L’animale era venerato e sacrificato nelle occasioni di festa, durante le quali i partecipanti brindavano con i loro rhyta, boccali foggiati a forma di corno impiegati nelle occasioni sacre (Kerenyi, 2010: 70-71). Le corna del toro, dunque, erano considerate un attributo divino e i rhyta, ricalcandone la forma, fungevano da accessori cerimoniali che avevano lo scopo di benedire chiunque li utilizzasse per abbeverarsi. In Calabria le corna dei buoi venivano impiegate con fini rituali simili (Dorsa, 1884: 127; Lombardi Satriani, 1997: 203) e in ogni casa si conservava un angolo detto cornàra (Marzano, 2020: 89), ovvero destinato ad ospitare un paio di corna che benedicessero la dimora. L’iconografia delle corna ritorna, inoltre, anche nell’otto e nove, un amuleto a forma di mano con pollice, medio e anulare abbassati, così da richiamare il simbolo magico in questione e il cui nome ricalca i famosi numeri di una formula impiegata per allontanare il malocchio che recita: 

Ottu e nove fora malocchiu

Chiummu alli peri

Petri alli ricchi.

Otto e nove via il malocchio

Piombo ai piedi

Pietre alle orecchie.

I due numeri rivelano ancora una volta l’influenza esercitata nell’immaginario popolare dalla numerologia sacra dei Pitagorici e il loro caso è già stato da me discusso nel numero 61 (La Rocca 2013.: 430): basti dire che l’otto e il nove erano ritenuti capaci di dominare gli spiriti del malaugurio, allontanando le forze nocive che venivano scagliate tramite lo sguardo nefasto del maluocchio –malocchio –. Il corallo, tra l’altro, compare all’interno del Lithikà orfico e, oltre ad attribuirgli il potere di autogenerare il fuoco (Zito, 2012: nota 46), è chiamato con il nome di gorgonios – di Gorgone – dal momento che si pensava nascere come un vegetale sul volto della Gorgone (Macrì, 2016: 104), il cui sguardo era dotato di poteri pietrificanti per l’appunto. L’associazione alla Gorgone ha sicuramente contribuito a rendere il corallo una pietra in grado di schermare dagli sguardi invidiosi e, proprio per questo, in Calabria gli amuleti in corallo venivano generalmente appesi al collo di bambini e neonati, assieme a tutta un’altra serie di amuleti scaramantici che avevano il compito di salvaguardarli dall’invidia.

Altri esempi ancora si possono fare, come nel caso della pietra di latte, ritenuta dai calabresi strumento capace di stimolare la produzione di latte nei seni di una donna partoriente (Lombardi Satriani, 1997: 103) e simile alla galattite descritta nel Lithikà, che oltre a favorire la produzione di latte è anche in grado di addolcire la benevolenza degli spiriti – i Beati – (Zito, 2012: 161); o ancora è possibile citare la Sirena (Lombardi Satriani, 1997: 203), amuleto in argento che richiamava nel nome e nella forma i demoni che, secondo la cosmologia pitagorica, presiedevano all’ordine del kosmos con il loro canto guidando le anime dei defunti. Insomma, gli amuleti adoperati dalla popolazione e le credenze relative all’elemento litico nella tradizione rituale calabrese sono innumerevoli, per cui mi sono limitato a selezionare i casi più noti e pertinenti agli scopi della mia trattazione.

Donna spirdata immortalata durante il rito di esorcismo presso Serra San Bruno. Fonte: E. De Martino, Sud e Magia, p. 181

Donna spirdata immortalata durante il rito di esorcismo presso Serra San Bruno (E. De Martino, Sud e Magia, 1966: 181)

Conclusioni

Con questo contributo ho cercato di mettere in relazione gli elementi di un’intricata matassa di saperi e pratiche magico-religiosi riferiti al culto delle pietre e ai loro usi in Calabria, con il fine di analizzarli in un’ottica comparativa per riportare alla luce il filo conduttore che sembra accomunarli e che è sostanziato dal retroscena magnogreco di provenienza. Ho quindi messo in relazione usanze mai accostate tra loro nella speranza di ritrovare le ipotetiche origini di un sistema di credenze che, oggi, appare al termine del percorso come un vero e proprio sistema religioso, dotato di criteri fondati su credenze ben più antiche. Questo è il culto delle pietre in Calabria, che attinge a piene mani da elementi del culto pubblico magnogreco, ma nel quale è possibile rintracciare altresì evidenti influenze della misteriosofia orfico-pitagorica che, con la sua storia, ha indubbiamente influito sull’identità culturale della regione.

Il ricordo del rapporto originario dell’uomo con la terra e con l’elemento litico è sopravvissuto nel corso dei secoli, arrivando fino a noi in forme sbiadite ma ancora leggibili, come nel caso delle pietre del fulmine o dei culti delle Madonne delle Grotta di Praia (CS) e di Bombile (RC) o, ancora, di Santa Lea a Cassano (CS), venerata all’interno di una cavità naturale per scongiurare la siccità (Falbo in Bruzzano, 1899: 3-5). Tanto per i calabresi quanto per i popoli più antichi, dunque, la pietra si configurava come un segno: la testimonianza del divino nella natura. La pietra è il primo materiale ad esser stato lavorato dall’uomo, ad aver fornito strumenti utili alla sua sopravvivenza e, pertanto, anche uno dei primi elementi ad esser diventato oggetto di venerazione (per approfondire Cusumano, 2019: passim).

La pietra è stata per secoli un simbolo di fertilità, di durevolezza, di spiritualità, di origine, come raccontato, ad esempio, anche dal mito greco di Deucalione, nel quale la nascita dell’uomo è ricondotta al potere di pochi ciottoli prelevati dal grembo della Grande Madre e mutati in esseri umani (Kerenyi, 1963: 190-191). Ma, soprattutto, la pietra conservava in sé il segreto del fuoco e della purificazione, che agli occhi dei sapienti e dei mistici doveva esser preservato ad ogni costo, motivo per il quale c’è chi ha ipotizzato che la misteriosa scomparsa di Ippaso tra i ranghi della Scuola Pitagorica sia da attribuire all’atto empio del discepolo di aver rivelato pubblicamente i misteri della pirite, la pietra del fuoco (Silvestre in Ghidini, Marino e Visconti: 421).

Numerose sono le testimonianze di come il culto potesse assumere forme simili tra popoli in tempi e luoghi diversi: l’omphalos di Delfi, la pietra nera di Cibele, la Ka’ba della Mecca o il Jovem Lapidem romano, una pietra intestata a Giove sulla quale i romani stringevano patti e giuramenti a sfondo politico, proprio come nel rito di comparaggio affiliazione – calabrese. Durante il rito le due parti stipulavano un patto o un’alleanza stringendo una pietra tra le mani la quale, subito dopo, veniva scagliata nell’aperta campagna (Dorsa, 1884: 137). Il legame dei “compari di pietra” assumeva in tal modo una valenza magica e il loro patto poteva essere sciolto solo nel caso in cui qualcuno avesse ritrovato il sasso originale. Per tal motivo la dispersione dell’amuleto diventava un tassello fondamentale del rito, anche per assicurarsi che nessuna delle due parti potesse recuperare l’oggetto e sciogliere il patto all’insaputa del compare.

In virtù del mistero che da sempre avvolge questo elemento, la pietra ha continuato ad esercitare una innegabile forza attrattiva nella fantasia popolare, alimentandone racconti e pratiche. Scavare a fondo nel passato per recuperare il senso originario di queste credenze è un passo fondamentale per contribuire a ricostruire parte dell’identità del territorio che, purtroppo, è sempre più vicina all’oblio.

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Il complesso articolarsi delle prime forme cultuali che si affacciano nel bacino dell’Egeo riecheggia una tematica che, generalmente, le accomuna, vale a dire la celebrazione della vita in contrapposizione al mistero della morte. Difatti si tratta, nella maggior parte dei casi, di culti ctoni, ovvero legati a doppio filo all’idea di un’esistenza ultraterrena al di là della morte che, in qualche modo, continua a riverberare nel mondo dei viventi. Per tal motivo le caverne, gli antri e le spelonche annidate tra i monti divengono i santuari naturali in cui la voce del mondo sotterraneo si lascia cogliere con maggiore chiarezza, veri e propri punti d’accesso in grado di trasportare gli uomini da una dimensione all’altra e, in tal senso, sono celebri i miti relativi alla catabasi del cantore Orfeo e ai riti di nekyia – necromanzia – praticati da Pitagora e altri mistici nelle grotte per evocare le potenze sotterranee (Coscia in Maiuri, 2017: 127-172).
[2] La questione catturò l’interesse dell’antropologo De Martino, il quale dedicò un articolo ai casi che si manifestavano attorno alla Certosa delle Serre dal titolo “Purificazione di giugno”, ristampato successivamente in “Furore, simbolo, valore” (De Martino, 2002: 148-153), ma solo negli ultimi anni sono stati proposti contributi in grado di analizzare affondo la questione, soprattutto grazie al lavoro di Tonino Ceravolo (Ceravolo, 2017: passim; Ceravolo in Teti, 2003: 99-106).
[3] Lombardi Satriani parla di episodi simili in riferimento ad un altro amuleto, il “dente di pesce”, il quale poteva essere rinvenuto dai contadini durante la coltivazione della terra (Lombardi Satriani, 1997: 201). 
Riferimenti bibliografici
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Francesco La Rocca, dottore in Scienze Filosofiche, ha conseguito la laurea magistrale, con il massimo dei voti, presso l’Università della Calabria con una tesi sperimentale dal titolo “Filosofia, misticismo, folklore: avventure del pitagorismo”. Di recente, ha pubblicato Il Natale in Calabria tra XIX e XX secolo per Edizioni Erranti di Cosenza. Dal 2019 svolge attività culturale e di studio nel campo dell’arte e della ricerca socio-educativa, partecipando anche alle attività dell’associazione Emergenti Visioni – Centro Studi di Sociologia Teatrale impegnata, da anni, nell’utilizzo di tecniche drammatiche per l’indagine e l’intervento sociale. Come operatore teatrale, ha partecipato a diversi progetti. È impegnato, altresì, in un’intensa attività di valorizzazione del patrimonio storico-culturale calabrese e ha realizzato alcuni  prodotti audiovisivi.

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