Ho sillabato l’iniziazione alla lettura cimentandomi sulle pagine del libro Cuore. Era un’edizione Garzanti del 1957, con copertina rigida in tela color carta da zucchero, titolo in rosso, come lo schizzo impresso in oro di un ragazzo in corsa. Nell’antiporta era stampata la firma autografa del figlio dello scrittore, Ugo, ad attestare che si trattava di un testo originale e non di una copia contraffatta. All’interno erano poche ed elementari illustrazioni in bianco e nero.
Credo avessi otto o nove anni e forse era un regalo per la Prima comunione. Non era il mio primo incontro con la scrittura ma era la mia prima esperienza di lettura di un libro, non di un brano o di una fiaba ma di una storia compiuta, di un’opera letteraria, e per giunta di un classico dell’infanzia.
Un testo illustre e popolare, la cui fortuna aveva attraversato latitudini e generazioni (uno dei dieci libri italiani più tradotti al mondo) ed era arrivato tra le mie mani con tutto il peso simbolico dell’ammaestramento morale e civile che esplicitamente e senza infingimenti l’autore rivendicava fin dalle prime pagine. Ne avevo timida e incerta consapevolezza e tuttavia ne sono rimasto a lungo segnato per una naturale ed emotiva partecipazione a quanto leggevo, per una irriflessa adesione a quella tavola dei valori che lo scrittore scolpiva nelle pieghe del romanzo di formazione non solo individuale ma nazionale.
Dentro il mondo abitato da Garrone, Derossi, Nobis e Franti, dentro le vicende di quella scuola della giovane Italia postunitaria descritta nel diario del personaggio narrante (Enrico), non avvertivo ancora il greve stridore della retorica, l’anacronismo di quel patriottismo che chiedeva eroi e sacrifici, l’ipocrisia di quel sentimentalismo e di quel paternalismo che dissimulavano l’egemonia politica e culturale della borghesia sabauda. Non coglievo – non potevo cogliere – le inferenze e le speculazioni intorno al modello di società a cui quella pedagogia si offriva per l’elaborazione di un prontuario per il buon cittadino. La verità è che la scuola di quegli anni Cinquanta del secondo dopoguerra, e ancora dopo, non era molto diversa da quella raccontata nelle pagine di Cuore, forse addirittura meno laica e sicuramente più democristiana eppure ancora sostanzialmente deamicisiana, nell’osservanza al culto dei buoni sentimenti e dell’autorità delle istituzioni etiche e civili. Il maestro delle mie elementari somigliava per certi aspetti a Perboni, per rigore intellettuale e disciplina morale. L’Italia che continuava a leggere e a promuovere il libro si poneva in fondo lo stesso obiettivo di “rifare gli italiani”, di plasmare una nuova coscienza nazionale dopo la tragica disfatta della guerra e l’avvento carico di speranze della democrazia.
Non potevo capire fino in fondo quel che, solo superata l’adolescenza, avrei cominciato a intravedere a seguito di nuove esperienze di vita e di letture. Avrei piano piano scoperto le contraddizioni di quella idilliaca narrazione, gli ingenui schematismi degli apologhi, i risvolti di quel catechismo aconfessionale un po’ militare, un po’ paternale, di quel catalogo rigoroso nei doveri e reticente nei diritti, fino a guardare a quel mondo e a quei modelli come a quel
«gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani».
Quando Umberto Eco scrisse L’elogio di Franti aiutandomi ironicamente a rovesciare i miti e a decostruire i teoremi del conformismo – un tempo borghese e poi piccolo borghese –, avevo già imparato a conoscere un po’ della grande letteratura che esisteva oltre I Promessi Sposi del liceo, a rileggere la storia italiana al di là del manuale, a riflettere sulla scuola che Tullio De Mauro prima e la Lettera ad una professoressa dopo avevano radicalmente agitato e squassato. Sepolto Garrone e riscattato Franti, Cuore diventò presto un ricordo infantile imbarazzante, un’ombra di pudore da rimuovere, una eredità ingombrante da cancellare. A differenza del coevo Pinocchio di Collodi che sembrò interpretare con un linguaggio meno ingessato e un contenuto più indisciplinato i caratteri più durevoli dell’identità nazionale, restando moderna e seducente la verità della sua pedagogia, l’Italia perbenista di De Amicis, pur resistendo entro un’immagine di maniera, perdette progressivamente realtà e credibilità, in corrispondenza della scomparsa o dello sbiadimento dei valori e dei princìpi a cui quella società borghese di fine Ottocento si ispirava. La fiaba, che racconta e amabilmente condanna le trasgressioni e le intemperanze del burattino, si guadagnò nel tempo attenzioni, suggestioni e simpatie non effimere vincendo alla fine sul diario, apologetico e didascalico, sulla rappresentazione di quella società riprodotta nel microcosmo della terza elementare di Enrico, «incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese», per usare ancora le parole di Eco.
Anche Natalia Ginzburg aveva per il perfido Franti una certa simpatia: «La sua malvagità mi affascinava, e spiavo dietro di lui peccati che non riuscivo a immaginare, ma che mi figuravo anche più sinistri e più foschi di quelli che venivano enumerati» (Ginzburg 1973: 135). Falso e libresco sembrava alla scrittrice quel mondo «dove tutto appariva al suo posto: il cielo pieno di eroi e di martiri; le carceri piene di malfattori; i soldati coperti di sangue sui campi di battaglia; i genitori e i maestri laboriosamente intenti a soccorrere i poveri e a educare i bambini» (ivi: 137).
Ma i libri – come lo stesso Eco ci ha insegnato – sono “opere aperte”, vivono nel rapporto con i lettori, migrano nello spazio e nel tempo, possono perdere significati e assumerne altri, possono restare chiusi e muti per alcuni e perennemente aperti e preziosi per altri. Possono esaurire la loro funzione in determinati momenti storici e riconquistarla dentro altri contesti e altre occasioni. La mobilità dei testi sta, come è noto, in corrispondenza alla mobilità dell’esistenza umana, alla relatività dello spirito del tempo. Se è vero però quanto ha scritto Italo Calvino (1991: 13) ovvero che «i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale», Cuore non ha cessato di dire quel che ha da dire e De Amicis, negletto e rarefatto pur nello stigma mieloso dell’aggettivo ‘deamicisiano’, non è mai davvero uscito di scena e oggi è tornato sorprendentemente a parlarci, a interrogarci, a riproporre il senso della grande impresa educativa alla civiltà dei costumi che sosteneva la sua opera immane. Lo fa attraverso le pagine di un altro libro firmato da Marcello Fois, L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore, edito da Einaudi pochi mesi fa, un pamphlet che irrompe nel dibattito culturale del nostro Paese non per restaurare il monumento letterario ma per rivisitarlo e rileggerlo dentro la storia degli italiani del Novecento fin nella cronaca dei nostri giorni.
A tentare di tracciare e disegnare il profilo dell’«itala gente da le molte vite» Leopardi prima di Carducci aveva già nel 1824 individuato nell’assenza dello spirito pubblico una delle tare endemiche del popolo che si accingeva a farsi nazione, così che nel Discorso sopra lo stato presente degl’italiani annotava: «Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qualche egli si sia» (Leopardi 2011: 40). Per capire e definire il contributo di De Amicis alla difficile costruzione di questo sentimento di appartenenza alla collettività nazionale, ancora così debole e incerto all’indomani dell’unità politica, per riconoscerne genesi, ascendenze e influenze, Fois muove da Manzoni, da quei Promessi Sposi che immettevano per la prima volta in letteratura le vite di uomini e donne di ceti diversi, le questioni dei diritti, dell’eguaglianza delle leggi, dell’amministrazione della giustizia, temi ineludibili nel contesto di una società civile.
Al centro della lezione deamicisiana c’è il paradigma educativo, c’è la scuola, il primato del maestro, l’autorità statale e la grammatica del dover essere, la pedagogia della cittadinanza affidata al processo di alfabetizzazione e all’arte faticosa della convivenza nella coesione solidale delle differenze. Manzoniana è l’ispirazione ma l’aula che si fa metafora della nazione in fieri è l’indubbia e straordinaria invenzione narrativa di De Amicis, il “cuore” della sua utopia etica e civile. «Come nello spazio classe – scrive Fois – De Amicis aveva visto il contenitore della nazione in vitro che stava sperimentando, nel corpo del maestro, nel fiato dell’insegnante, ci vede il contenuto. (…) La classe è l’Italia fisica, gli alunni sono gli italiani, il maestro è l’italianità». Il ritratto – anzi l’autoritratto – che affiora è quello di un Paese frammentato e fortemente differenziato al suo interno che tuttavia si riconosce o ambisce a riconoscersi in una scuola pubblica, statale, laica e uguale per tutti. Una scuola che ha il compito maieutico di promuovere quella coscienza nazionale che sull’eredità delle idealità risorgimentali sia a fondamento del nuovo Stato unitario. Un modello d’insegnamento che a fronte degli egocentrismi, dei particolarismi e dei corporativismi di ceto o di casta faccia prevalere il senso solidale di una patria condivisa, di un destino comune.
Il socialismo umanitario o “socialpatriottismo” – come lo definì Gramsci che apprezzò in De Amicis la sua estraneità alla politica coloniale e nazionalista – ignorava gli esiti delle inchieste parlamentari sulla condizione delle popolazioni meridionali ma traduceva di fatto la questione sociale in questione civile, ponendo in primo piano la necessità di notificare un’alleanza tra il nuovo Stato e le future generazioni di cittadini attraverso un patto di fiducia e di integrazione tra scuola e famiglia, tra istruzione ed educazione, tra autorità morale e parità formale. Nella scuola pubblica, nel carisma intangibile del maestro, nella potenza simbolica dell’alfabeto da diffondere si coagulava l’ottimistico progetto di ricomposizione delle disparità, di rafforzamento e riordinamento delle istituzioni al servizio degli interessi generali della collettività nazionale. Non c’è Dio nell’impianto pedagogico sotteso ai racconti del Cuore, c’è piuttosto una sorta di religione civile, la fede nella patria e nella famiglia ma in funzione intimamente laica e civica.
Un progetto maturato negli anni in cui andare a scuola significava cominciare a diventare “popolo”, un’utopia, però, che restò nobile testimonianza di fatto emarginata nelle pagine della letteratura e non divenne, né allora né dopo, coerente politica culturale né concreto programma ministeriale, «sostanzialmente rifiutato dall’Italia liberale e fascista e imbalsamato nelle paccottiglie dei ricordi, sia pure d’onore, dell’Italia repubblicana», come ha acutamente annotato Giovanni Genovesi (2009:12).
Quanto questa scuola e questo modello educativo, il cui rigore era palesemente esemplato sul sistema culturale militare, siano oggi lontani e dissonanti rispetto alla concezione e alla organizzazione della vita e della società contemporanea, Marcello Fois lo dimostra sottolineandone vieppiù la forza morale, la spinta utopica, la lezione civile che può ancora sprigionarsi dal testo di De Amicis. «La scuola di Cuore è proprio l’opposto del mondo reale, lì il bambino piemontese deve abbracciare e dare il benvenuto al migrante calabrese; lì il bambino ricco ha come compagno di banco il bambino povero, che lo voglia o meno; lì si agisce perché la comunità proceda univoca nonostante le disparità che si presentano fuori dalla classe. (…) De Amicis aveva in mente una scuola che modificasse, che forgiasse, la realtà, ma ci siamo trovati davanti a una società che ha modificato, e forgiato la scuola».
A pensarci bene, chi vuole riappropriarsi della centralità del ruolo della scuola nel contesto di una comunità oggi segnata e lacerata da drammatiche e crescenti diseguaglianze, dalla rottura del patto di garanzia con le famiglie, dal declino della eminente funzione di promozione e ascesa sociale oltre che culturale, dal primato di certo esasperato tecnicismo, può forse ritrovare nell’ottocentesco vademecum del Cuore un monito all’osservanza collettiva della regola in quanto limite all’arbitrio e alla prepotenza, un’esortazione alla disciplina della convivenza tra diversi per censo e per cultura, al recupero del principio costituzionale per cui l’istruzione è una istituzione e non soltanto un servizio, un prezioso presidio dell’unità nazionale non un simulacro di astratte ritualità né un’agenzia piegata alle torsioni del mercato e alle ragioni del Pil. Un formidabile strumento pubblico di formazione e di educazione all’idea di comunità, al principio dell’accoglienza e al valore della solidarietà.
De Amicis, che incarna nelle figure del maestro e del padre (indistinguibili e inscindibili nella vita e nella rappresentazione letteraria) l’etica dell’autorità e della responsabilità, finisce con l’essere quanto mai vivo e attuale nel tempo impoverito e incattivito dalla profonda crisi di questi ruoli e di questi valori. Fois richiama le parole che il padre rivolge al figlio Enrico: «Ama il tuo maestro, perché appartiene a quella grande famiglia di cinquantamila insegnanti elementari, sparsi per tutta Italia, i quali sono come i padri intellettuali dei milioni di ragazzi che crescono con te, i lavoratori mal riconosciuti e mal ricompensati, che preparano al nostro Paese un popolo migliore». Parole che sembrano trovare una qualche inconsapevole eco un secolo dopo nel monito di Gesualdo Bufalino che invocava per sconfiggere la mafia un esercito di maestri elementari.
Lacrimevole e sentimentale, retorico e a tratti enfatico nella sua scrittura “retrò”, il Cuore di De Amicis, a sentirne le intime e segrete palpitazioni, continua ostinatamente a battere, non ha perso del tutto la sua forza propulsiva, rivelandosi l’urbanità, la solidarietà e la buona educazione dei giovani dell’Italia umbertina ancora oggi efficaci antidoti all’imperversare del cinismo e della indifferenza non meno che della sciatteria e della villanìa tracimate dai social. Lo conferma lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua che, in una conversazione con Marcello Fois pubblicata su “La Lettura” del Corriere della Sera (12 settembre 2021), ricorda di aver pianto da bambino per le storie di Edmondo De Amicis, confessando che «c’è in questo libro qualcosa di molto italiano, specificatamente italiano e, nello stesso tempo, universale». Cita poi il racconto de L’infermiere di Tata con protagonista un fanciullo che dal suo paese si dirige all’ospedale di Napoli per assistere il padre e, pur trovandosi al capezzale di un altro uomo, decide comunque di rimanergli accanto fino al decesso, nonostante il vero padre sia stato guarito e dimesso. «Una storia estremamente toccante – afferma Yehoshua – ed è toccante il pensiero di De Amicis che prepara i bambini alle difficoltà che possiamo incontrare in casa, in famiglia, all’eventualità che i genitori si ammalino, muoiano».
Nulla di più lontano dal mondo e dalla cultura contemporanei, dove – ribatte Fois – «l’istruzione si confonde con l’intrattenimento, i bambini vengono esclusi da ogni forma di contatto con la realtà che hanno intorno, non entrano in un ospedale, non visitano i malati, non si parla loro della morte. Il libro Cuore sembra una specie di atto rivoluzionario nel contesto di oggi e forse l’idea di riproporlo ha a che fare con il bisogno di ricordare alcuni valori fondamentali. Prima di tutto il fatto che l’infanzia non è semplicemente la rappresentanza degli adulti, ma il momento in cui si comincia ad essere cittadini». Non si capiscono l’altruismo, l’eroismo, il sacrificio dei personaggi degli exempla deamicisiani – tutte virtù ‘edificanti’ poiché valgono a ‘edificare’ l’Italia bambina – se non mettiamo questo testo accanto all’abecedario di Pinocchio di Collodi, a La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Artusi, e perfino al quadro del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Un mosaico di voci e di idee, di immagini e di opere che in letteratura e nell’arte, con accenti e sguardi diversi, hanno contribuito alla interpretazione della identità culturale degli italiani e alla maturazione della coscienza nazionale.
Marcello Fois attribuisce a De Amicis l’invenzione degli «italiani brava gente», quel costrutto ben amalgamato di miti e modelli simbolici che da luogo comune abbiamo finito col trasformare in senso comune, rappresentazione in cui abbiamo finito col credere e con l’identificarci, per raccontare noi stessi ma più spesso per autoassolverci. Se è vero che «De Amicis ha cercato di trasformare un popolo da livoroso a solidale facendo convivere nella stessa classe alunni di estrazione sociale diversa, provenienti da differenti parti d’Italia», Cuore è il prontuario dei buoni sentimenti e della tolleranza, della bontà e della generosità, dell’abnegazione e dell’amore di patria o di famiglia, il «libro-laboratorio costruito per fornire un paradigma, tutt’oggi insuperato, d’italianità». Da qui, dal catalogo dei propositi ideali e dei gesti esemplari discende quel “buonista” che ci fa sentire migliori, geneticamente propensi alla commozione e romanticamente solleciti alla comprensione degli altri. Da qui lo stereotipo del “buonismo” in nome del quale ci siamo immaginati caratterialmente pigri e un po’ cialtroni, superficiali e disordinati eppure capaci di grandi slanci sentimentali e di epiche azioni. Da qui quell’astratta presunzione che ci fa benevolmente autodefinire, tutto sommato, “brava gente”, anche se non lo siamo davvero mai diventati.
Dalla didascalica dialettica tra Garrone e Franti, tra Derossi e Nobis i bravi italiani forgiati da De Amicis sono quei cittadini che mettono insieme le loro differenze per riconoscersi e ritrovarsi uniti nel consorzio della comunità di appartenenza. Non sappiamo se i Franti di ieri sono, come scrive Fois, i ministri di oggi o piuttosto i sottoproletari emarginati come suggeriva Eco. Forse più verosimilmente sono gli stranieri discriminati oppure Joker o trickster, a seconda della prospettiva ipotizzata. Sappiamo però che oggi come ieri i bravi italiani sono ancora poveri di quella coscienza nazionale, di quella religione civile di cui De Amicis si era fatto maestro e apostolo. E il buonismo, in una società sempre più frammentata e disunita, da virtù perseguita e invocata a fondamento di una pedagogia della cittadinanza, è diventato disvalore, caricatura offensiva, sinonimo di ingenuità e dabbenaggine, epiteto scagliato con irrisione e disprezzo. Condotta non solo vilipesa e denigrata fino alla gogna, ma addirittura denunciata e criminalizzata se si pensa alle campagne di discredito e delegittimazione delle pratiche di solidarietà verso gli immigrati, alla sistematica opera di boicottaggio e di penalizzazione degli interventi di soccorso in mare delle Ong. E per ultimo alla condanna di Mimmo Lucano, che fu sindaco di Riace e interprete di una innovativa e intelligente politica dell’accoglienza.
Nella lunga stagione del nostro rancore le parole del Cuore apparentemente anacronistiche e obsolete acquistano dunque una straordinaria potenza epifanica, la forza di una trincea contro il dileggio, di un avamposto della civiltà delle buone maniere contro le campagne di odio sociale, le politiche dell’insulto, la pandemia delle intolleranze verbali e delle aggressioni razziali. Marcello Fois ha avuto il merito di sottrarre il libro dalla polvere del tempo e di riscattarne la memoria e il giudizio critico. Il prezioso recupero di pagine dimenticate che egli ha riproposto e rilanciato sembra in verità connettersi ad un più largo e diffuso fenomeno di riflessione e ripensamento sulla deriva etica e antropologica che stiamo vivendo, sull’urgenza di riappropriarci di parole, sentimenti e gesti che sono oggi stigmatizzati come velleitari o risibili. Non è un caso che Gianrico Carofiglio e Dacia Maraini in due libri editi recentemente abbiano, ognuno con sensibilità e stili differenti, indicato nella ‘gentilezza’ non una innocua e antiquata virtù ma una postura associata al coraggio e alla «responsabilità di essere umani», «necessaria a trasformare il mondo».
Non è un caso che Duccio Demetrio abbia scritto e pubblicato questo stesso anno un denso e poetico breviario, una sorta di operetta morale, All’antica. Una maniera di esistere (Raffaele Cortina editore, 2020), per invitarci a non vivere di solo presente e non esserne troppo contagiati, a riguardare al passato «non come rammarico ma come scelta di vita» (2021: 69). Oggi sentirsi dire “sei all’antica” ha risonanze di scherno percepite «come una ferita, una minorità» (ivi: 97), secondo il rovinoso senso comune che concepisce il progresso come cancellazione di tutto quanto rinvii alle memorie: familiari, storiche, umane e intellettuali. Ma «“essere all’antica” – precisa invece Demetrio – attribuendone talune qualità a noi stessi prima di tutto, poi a persone, a tendenze, a consuetudini virtuose, a idealità intramontabili – può rivelarsi un punto di vista morale rispetto a ciò che oggi non vogliamo accettare, non ci piace, si dimostra spreco intollerabile (ivi: 21). Vivere all’antica è dunque una maniera di testimoniare l’esistenza riconoscendosi nell’educazione etica ed estetica dei nostri padri, nell’esercizio di quelle stesse virtù che abbiamo imparato a conoscere dalle pagine del Cuore. E nel culto dei defunti, di cui scrive Demetrio (ivi: 275), nel rapporto sentimentale con gli antenati che «abitano da qualche parte nei nostri corpi, nel sangue, in qualche movenza, in ossessioni e manie che in vecchiaia compaiono nei gesti, nelle miopie, nelle sordità», non c’è forse qualche eco dei riti della memoria dei caduti in guerra celebrati da De Amicis, della sacralità della morte che nel trascenderci ci accomuna e dà senso alla vita?
C’è infine un altro libro che, sollecitato dal pamphlet di Fois, ho ripreso dallo scaffale della mia biblioteca, richiamato dai temi delle qualità morali e delle virtù sociali tradizionali come antidoti al potere dell’arroganza individuale e dell’astiosità politica, patrimoni di nobiltà e civismo felicemente sintetizzati nell’Elogio della mitezza di Norberto Bobbio (Pratiche editrice, 1998). Nulla a che vedere con la umiltà e la mansuetudine. Il filosofo distingue in questo saggio il mite dal remissivo e dal modesto, poiché questi esercita un ruolo attivo nelle relazioni e un partecipato impegno nella vita pubblica. «Amo le persone miti – conclude Bobbio – perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale» (1998: 45).
Tra la mitezza auspicata da Bobbio, il sentire “all’antica” evocato da Demetrio, la rivoluzione gentile ipotizzata da Carofiglio e da Maraini, il Cuore di Amicis può ancora trovare il suo posto nell’attualizzare e ribadire valori desueti, istituzioni e regole calpestate, sentimenti repressi o rimossi. Nell’Italia dei femminicidi, degli omofobi e dei novax abbiamo ancora bisogno di maestri come Perboni, di giovani come Garrone, di autori che come De Amicis mettono la scuola e la cittadinanza al centro del progetto culturale di rifondazione di un nuovo patto sociale, di un condiviso spirito pubblico, di una compiuta coscienza nazionale. Rileggere oggi Cuore, che accompagnava la nascita della prima vera generazione di italiani in un’Italia politicamente appena unificata ma socialmente ed etnicamente differenziata e in maggioranza analfabeta, può forse ancora contribuire a «rappresentarci e raccontarci al di là delle differenze che continuano ad attraversarci», scrive Marcello Fois, dal momento che «l’impatto deamicisiano sull’immaginario nazionale e nazionalpopolare è tuttora immenso».
Se è vero che rileggere è un po’ come riscrivere, quanto sabaudocentrica era allora quella narrazione, nel dibattito del nostro incerto presente potrebbe tradursi in una ritrovata concezione di italianità fatta semplicemente di cittadini e non certo di puri consanguinei. A che serve in fondo la letteratura se non a suscitare immagini e pensieri nuovi o a immaginare e ripensare in modo nuovo quanto accaduto, letto, appreso e vissuto? A connettere le pagine di De Amicis con le cronache del nostro tempo si può forse percepire non solo la incancellabile distanza tra mondi, esperienze e generazioni ma anche la drammatica attualità dei sentimenti irrisi, dei valori mortificati, di quell’insieme di piccole e grandi virtù che sono e restano forma e sostanza del nostro umanesimo. Si può forse riconsiderare e magari ‘reinventare’ il modo di essere, di vivere e di rappresentare la nostra identità di italiani.
«Oggi l’onestà, l’onore, il sacrificio – ha scritto Natalia Ginzburg (1973: 139) – ci sembrano così lontani da noi, così estranei al nostro mondo che non riusciamo a farne parola; e siamo completamente ammutoliti, avendo in questo nostro tempo orrore della menzogna. Così aspettiamo, in assoluto silenzio, di trovare per le cose che amiamo parole nuove e vere». Ma «ai libri che abbiamo amato nell’infanzia – aggiunge la scrittrice – restiamo in qualche modo fedeli, nell’affetto, per tutta la vita». Ecco perché chi come me ha perduto la copia letta da fanciullo sarà bene che si procuri una nuova edizione, da rileggere non con lo sguardo scaltrito e corrotto dell’uomo di oggi ma con gli stessi occhi del nipote bambino, lettore del mondo che verrà.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Riferimenti bibliografici
A. Asor Rosa, Le voci di un’Italia bambina (“Cuore” e “Pinocchio”), in Storia d’Italia, Dall’Unità ad oggi. La cultura, vol. IV, Einaudi Torino 1973: 925-939
N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche Editrice Milano 1998
I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori Milano 1991
G. Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio, Feltrinelli Milano 2021
D. Demetrio, All’antica. Una maniera di esistere, Raffaele Cortina Milano 2021
U. Eco, Diario Minimo, Bompiani Milano 1992: 81-92
G. Genovesi, in P. Boero, G. Genovesi, Cuore. De Amicis tra critica e utopia, FrancoAngeli Milano 2009
N. Ginzburg, Mai devi domandarmi, Garzanti Milano 1973
A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi Torino 1953
G. Leopardi/F. Cordero, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, Bollati Boringhieri Torino 2011
D. Maraini, La rivoluzione gentile. Riflessioni su un Paese che cambia, Rizzoli Milano 2021
C. Taglietti (a cura), Cuore. Questo è l’organo della nostra identità. Conversazione tra A. Yehoshua e M. Fois, in “La lettura”, Corriere della Sera, 12 settembre 2021
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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