Il De Martino è dal 1992 la rivista dell’Istituto Ernesto de Martino – centro archivistico e di ricerca che così definisce, nel suo sottotitolo, il proprio senso: «per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario». La recente uscita di due nuovi numeri, con un progetto editoriale completamente rinnovato, nonché una nuova direzione e comitato scientifico, merita qualcosa di più di una semplice recensione informativa: spinge piuttosto a qualche considerazione sulla storia di una istituzione importante come l’IEDM.
Com’è ben noto, l’Istituto nasce nel 1966 per volontà di Gianni Bosio. L’intitolazione a De Martino si giustifica col fatto che il grande studioso napoletano era morto l’anno precedente, e rappresentava in quegli anni il più noto sostenitore dello studio e della valorizzazione della cultura subalterna, in un’ottica che si distaccava nettamente dalla classica tradizione folklorica. Se una cosa accomunava De Martino e Bosio, era la polemica con le pratiche di distaccata raccolta e classificazione tipiche del folklorismo positivista: la loro attenzione era invece rivolta alla cultura popolare come testimonianza delle condizioni di vita dei ceti subalterni e possibile strumento della loro emancipazione. Le analogie, tuttavia, si fermano qui: perché, sotto ogni altro aspetto, è difficile immaginare differenze più grandi fra questi studiosi.
Bosio (che muore prematuramente nel 1971, ricordiamolo) e i suoi successori lavorano nel quadro di quella nozione di “folklore progressivo” che de Martino aveva per così dire sfiorato negli anni delle sue prime letture di Gramsci, a cavallo fra anni ’40 e ’50, per poi abbandonarla. Dal momento che il folklore può esser definito come cultura subalterna in contrapposizione a quella egemonica, esso conterrebbe elementi di opposizione e lotta immediatamente politica, e potrebbe essere usato come nucleo di una ideologia rivoluzionaria. Il lavoro dell’IEDM e del Nuovo Canzoniere Italiano va tutto in questa direzione. La ricerca sulle fonti orali e la costituzione di archivi è la strada per rendere egemoni le voci popolari, e ha senso se viene collegata a pratiche di produzione (spettacoli, dischi, etc.) capaci di impattare sull’opinione pubblica e di creare consenso attorno alle lotte del “mondo popolare e proletario”.
De Martino aveva guardato in questa direzione in scritti come Note Lucane e Intorno a una storia del mondo popolare subalterno (che infatti sono i suoi saggi più letti nel post-Sessantotto): era stato colpito dalla capacità di usare canti popolari, stravolgendone magari i contenuti, a supporto delle lotte contadine lucane. Ma ai canti de Martino non è mai stato veramente interessato. Tutta la sua ricerca sui fenomeni magico-religiosi in Lucania e Puglia si muove in una direzione molto diversa: il folklore gli appare il campo in cui si manifesta la resistenza esistenziale al terrore della storia, lo sforzo di essere nel mondo. È questo aspetto, scambiato negli anni ’70 per obsoleto crocianesimo o psicologizzazione dei problemi politici, a conferire alla sua prospettiva una profondità antropologica che resta estranea al gruppo dei successori di Bosio.
C’è da chiedersi oggi quanto la militanza di questi ultimi sia stata realmente organica ai movimenti politici di quegli anni, e allo sforzo di emancipazione dei ceti subalterni che pretendeva di rappresentare. Direi che lo è stata in ampia misura: il folk di protesta non è stato solo un genere di consumo musicale, ma ha plasmato culturalmente i movimenti giovanili ed è stato al centro dell’ “educazione sentimentale” di almeno una generazione. Ma cos’è accaduto all’IEDM con gli anni del riflusso politico e con la perdita definitiva di quella prospettiva “rivoluzionaria” che ne indirizzava l’azione? L’istituto attraversa anni di crisi, identitaria ed economica al tempo stesso. Negli anni ’90 si trasferisce da Milano a Sesto Fiorentino: è in quel periodo che nasce la rivista, per iniziativa di Franco Coggiola, come strumento per un rilancio che insiste sul ruolo dell’istituto come presidio archivistico e di studi, più che centro di militanza e di produzioni discografico-artistiche. Anche Ivan Della Mea, che assume la direzione nel 1996, insisterà con intelligenza su questo aspetto – malgrado il suo peculiare profilo, lontano quanto più non si potrebbe dalla postura accademica.
Da allora in poi l’Istituto si presenta con una doppia fisionomia. Da un lato l’istituzione culturale, che gode di un prestigio indiscusso come maggior archivio italiano di fonti orali – per quanto limitato dalla nuova dimensione provinciale e soprattutto dalla cronica carenza di risorse; con la rivista, inizialmente pensata come “Bollettino”, che diviene progressivamente un riconosciuto strumento di comunicazione scientifica e dà il meglio di sé in ricchi numeri monografici, fondamentali per chi voglia oggi ricostruire la storia delle fonti orali nel nostro Paese. Dall’altro lato l’IEDM conserva la sua dimensione militante, che tuttavia, in assenza di un contesto esterno che la nutra e le conferisca un senso realmente politico, finisce per estetizzarsi.
Il canto sociale e di protesta (sia di origine folklorica che d’autore), elemento distintivo delle politiche culturali dell’Istituto, non è più in grado di legarsi a movimenti sociali realmente operanti, e si chiude in una nicchia di genere fatta di stili e contenuti distintivi e identificanti che interessano cerchie più o meno ristrette di musicisti e di fruitori. Questi ultimi si ritrovano in una rete di festival e in consumi culturali comuni, che toccano volentieri i temi della nostalgia per sentimenti sociali (l’impegno politico, la rivoluzione, i simboli del comunismo o dell’anarchismo etc.); simboli e sentimenti di cui si fa però adesso un uso subculturale, e che quindi non sono più in grado di produrre egemonia ma, al contrario, separano il gruppo dalle più ampie tendenze sociali. Gli intellettuali rovesciati che Bosio teorizzava non riescono ad essere più in alcun modo organici ai ceti e ai movimenti popolari che vorrebbero rappresentare (oltretutto perché i loro strumenti espressivi non sono più adeguati ai nuovi contesti comunicativi: se una produzione come Bella Ciao aveva senso negli anni ’60, certamente i cloni che se ne possono produrre oggi non hanno lo stesso significato).
Da qui la chiusura in una “fedeltà” a contenuti decontestualizzati che possono portare o a una estetizzazione radicale (come quella, poniamo, dei poster di Che Guevara o delle reliquie dell’Unione Sovietica, una sorta di stile vintage politico); oppure a scelte di appartenenza ultra-minoritaria – l’esatto contrario della “cultura popolare” che de Martino, Bosio e gli altri “padri fondatori” aspiravano a rappresentare. I protagonisti del folk politicamente impegnato sono stati e sono intellettuali troppo raffinati per non rendersi conto di questo: e hanno infatti cercato di costruire rapporti con i nuovi movimenti sociali che negli ultimi decenni sono sembrati nascere.
A cavallo fra anni ’80 e ’90 sembrava che le Posse potessero rappresentare un fenomeno musical-politico di rinnovata autenticità; si è pensato anche alla world music o persino al rap, in relazione alle dinamiche migratorie e ai movimenti antirazzisti (vd. A. Fanelli, Controcanto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma 2017). Ma quel miscuglio alchemico di musica e politica che negli anni ’60 e ’70 sembrava avere potenzialità emancipative ed egemoniche non pare si sia più realizzato. Così, i circuiti attuali del canto sociale somigliano un po’ – anche se in modo meno drammatico – a quella sinistra turca di cui parla Lorenzo d’Orsi in uno degli ultimi due numeri della rivista: storicamente sconfitta, vittima di repressioni e violenze durissime, si attesta oggi in forme estetizzate di memoria culturale, più simili a riti di elaborazione del lutto che non ad azione politica. Del resto, quale senso se non estetizzante può avere alzare il pugno e gridare alla rivoluzione, quando la rivoluzione non fa più parte dell’orizzonte di «progettazione comunitaria dell’operabile secondo valori» (per citare proprio de Martino)?
Cosa c’entra la rivista con tutto questo? Ecco, a me sembra che il rinnovamento del progetto editoriale di Il de Martino sia conseguenza della consapevolezza di questo inaridimento dello stile estetico-militante su cui l’IEDM si è storicamente costituito, dei vicoli ciechi – politici non meno che culturali – nei quali tale stile rischia di perdersi. La scelta della rivista, con la guida di Antonio Fanelli (che già era stato il curatore degli ultimi volumi, a partire dal 2016, con monografici sul canto sociale, su Emilio Lussu e su Ivan Della Mea), è stata prima di tutto quella di un rapporto più strutturale con istituti analoghi all’IEDM, come il Circolo Gianni Bosio e la Lega di Cultura di Piadena, e soprattutto con l’AISO (Associazione italiana di Storia Orale). Con la conseguenza di uscire una volta per tutte dalla logica del “bollettino” e di costruire uno strumento di comunicazione e dibattito scientifico a pieno titolo. Lo testimoniano i rinnovati organi di gestione della rivista (il comitato di direzione, la redazione, il comitato scientifico, i “corrispondenti” – vecchia categoria da rivista ottocentesca, quest’ultima, che viene opportunamente ricreata, e che indica come nell’epoca della virtualità la rivista intenda invece raccontare storie locali, strettamente legate a realtà culturali e territoriali specifiche); organi tutti ampliati e arricchiti con solide competenze provenienti da molti settori disciplinari.
I primi due numeri di questo nuovo format (nn. 31 e 32) tornano a una struttura miscellanea, con saggi, sezioni tematiche, dibattiti, recensioni, e una corposa sezione di “storie”, fonti e documenti. Emerge da questi fascicoli soprattutto il desiderio non solo di tener vivo il dibattito, ma di fare della rivista un osservatorio sull’attualità, documentando – anche in modo provvisorio ed esplorativo – fenomeni ed eventi che chiamano in causa le competenze, i metodi e i temi classici della storia orale. Troviamo così ampie sezioni sulla pandemia e sui suoi effetti sociali, in particolare sui meccanismi generativi di discorsività, racconti, folklore urbano che il Covid e l’isolamento sociale hanno suscitato. Troviamo (nel n. 32) una sezione tematica sulle memorie del PCI, a ridosso del centenario della sua fondazione; troviamo storie legate al lavoro, come le ricerche sul lavoro domestico e a distanza nella pandemia, o sulla protesta degli operai della GKN di Campi Bisenzio.
Ma non intendo soffermarmi analiticamente sui contenuti. Tornando alla mia argomentazione principale, mi sembra che questa metamorfosi della rivista implichi una scelta precisa di posizionamento dell’IEDM nel campo intellettuale. Soprattutto il sodalizio con l’AISO va in questa direzione. Gli studiosi che rappresentano questa associazione hanno ormai da tempo riconosciuto la necessità di andar oltre la fase “eroica”, pionieristica e militante degli studi sulle fonti orali (si pensi al volume di B. Bonomo, Voci della memoria, Roma 2013); fase che è stata importante quanto si vuole, ma si è basata su categorie (la poetica del “dar voce”, l’organicità intellettuali-popolo, per non parlare di cosa significa oggi “popolo”, o cosa significa la tensione egemonico-subalterno nel contesto della società e delle comunicazioni di massa) che semplicemente non si possono usare nello stesso modo nel contesto presente.
Siamo di fronte al compito di ripensare l’intera epistemologia delle fonti orali, approfondendo ad esempio le dimensioni linguistico-pragmatiche, la problematica socio-antropologica della memoria collettiva e culturale, la complessità delle relazioni fra oralità e scrittura, e così via (il recente convegno AISO sulla trascrizione, “Scrivere quasi la stessa cosa”, ha rappresentato un buon esempio delle sofisticate direzioni che tali indagini possono prendere). Così come abbiamo il compito di ripensare l’impatto politico di questi studi: in un mondo in cui il “popolo” di un tempo è risolutamente incamminato verso posizioni di carattere sovranista e conservatore, ritrovarsi a cantare Contessa (con tutto il rispetto per il recentemente scomparso Paolo Pietrangeli, che per primo non credo la cantasse più molto) non serve granché. Il de Martino, mi sembra, ha imboccato con decisione la strada di un impegno in primo luogo scientifico, e di una consapevolezza riflessiva che non si accontenta più di nutrirsi di vecchi miti. Questo significa un minor engagement politico e pubblico? Non credo: perché tutto sommato, malgrado l’abusata e spesso malintesa battuta delle tesi su Feurbach, se vogliamo cambiare il mondo bisognerà prima in qualche modo capirlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017).
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