il centro in periferia
di Giacomo Agnetti
«E là chi ci abita?»
«Degli inglesi, vengono in agosto, ma l’anno scorso non li ho mica visti».
«E in quella bella casa con gli scuri rossi su al prato piano?».
«Ah, lì ci vengon dei milanesi, anche loro in luglio e agosto; ormai agosto più che altro».
«E quella tutta ristrutturata, con la malta e il sasso a vista?».
«Mi han detto che sono olandesi, una famiglia con tre figlie. Ormai saran due anni che vengono d’estate». «Ma il paese comunque è grande, in quanti abitanti siete?».
«E saremo in tremila in tutto il Comune, ma d’estate in agosto arriviamo anche a seimila».
In questi anni una conversazione simile sarebbe potuta avvenire in qualsiasi valle dell’Appennino. A chi si inerpica per le tortuose e spesso dissestate strade di queste montagne, saltano all’occhio i freschi e rigogliosi torrenti, la vastità delle foreste, le inconcepibili deformità stradali e, non per ultime, le tantissime case con gli scuri chiusi.
Si tratta di scuri poeticamente verniciati di rosso, verde, blu, giallo, con decorazioni, cuoricini oppure artistici buchi fatti direttamente dai ghiri o dai picchi. Le case disponibili sono davvero molte, a volte ammassate in agglomerati arroccati per proteggersi dai freddi venti invernali, altre volte costruite su magnifici pianori panoramici, ma al di là di questo scenario idilliaco, la realtà dei fatti è che, al di fuori dell’alta stagione, le abitazioni d’Appennino sono per tre quarti vuote, chiuse e “blindate”.
Quasi sempre, infatti, il numero delle seconde case supera di gran lunga quello delle abitazioni utilizzate tutto l’anno e chi abita in questi paesi è ormai talmente abituato a vedere le case con finestre e porte sbarrate che quasi si stupisce di trovarne alcune aperte fuori dal periodo di alta stagione.
La questione delle seconde case ha una storia relativamente recente, anche se sarebbe logico farla partire dagli anni Sessanta, ovvero il periodo del boom economico italiano. La frenetica espansione industriale convinse molte famiglie provenienti dal mondo rurale ad abbandonare in massa le montagne per trasferirsi verso le città dove il lavoro, assicurato da quella ventata d’entusiasmo che fece letteralmente volare il Pil italiano, trasformò la Lira in una delle monete più stabili del mondo; un piccolo miracolo economico reso possibile grazie all’enorme disponibilità di manodopera e al basso costo dei salari.
Fu in quegli anni di benessere che si delineò la moda della villeggiatura estiva, quel periodo dell’anno in cui le famiglie facevano ritorno alla vecchia casa di montagna, tanto accogliente e fresca d’estate, quanto fredda, buia e priva di comodità, d’inverno. La ricchezza che conseguì al boom economico fece sì che sempre più famiglie costruissero la propria seconda casa da utilizzare durante l’immancabile villeggiatura estiva: le villette a schiera, i casermoni in cemento armato, le costruzioni in calcestruzzo ricoperte di assi di abete, rappresentano la scomoda eredità di quell’eccesso di entusiasmo del popolo italiano.
In pochi anni quegli stessi borghi di montagna che si erano spopolati, videro nascere discoteche, piscine, parchi, ristoranti, alberghi, supermercati, trasformando così la loro vocazione da agricola a turistica. Il “villeggiante” (che spesso aveva origini locali) si trasformò in una figura ibrida tra l’autoctono e il forestiero: era forestiero perché non trascorreva l’inverno in paese, ma era anche un po’ autoctono, perché conosceva le abitudini locali e chiamava tutti per nome.
Con il passare degli anni però i villeggianti lasciarono il posto ai loro figli cresciuti in città che, grazie alle nuove reti di comunicazione e ai voli low cost approdati in Italia alla fine degli anni Novanta, potevano ambire a trascorrere le vacanze in località esotiche che costavano poco e davano alla vita un sapore meno provinciale. «L’anno scorso ci siamo fatti: Marocco, Canarie e Parigi» dice Marco, che vive a Modena e suo padre ha una seconda casa nell’Appennino modenese. In effetti suona diverso rispetto a dire: «Oh vecchio, l’anno scorso ci siamo sparati tutte le vacanze tra Fenecchio e Macerino, lì sotto l’Abetone, c’hai presente?».
Chi va in vacanza si muove sempre più per consensi, per soluzioni semplici; si cercano in massa nomi di luoghi famosi che diventano così enormi incroci della comunicazione verbale e digitale. È proprio in conseguenza a questo nuovo modo di fare vacanza che le case di villeggiatura in montagna, utilizzate ormai per poche settimane all’anno, hanno iniziato ad invecchiare rapidamente, lasciando che il cemento armato di cui erano composte iniziasse a sgretolarsi, che gli scuri perdessero il loro smalto vivace e che gli intonaci venissero intaccati dai venti ricchi di aria salmastra provenienti dal mare, trasformandole in luoghi d’abbandono e un po’ demodè. Luoghi che hanno però il potere di far sentire i visitatori come dei moderni scopritori di un mondo che ha smesso all’improvviso di esistere, un’Atlantide che, invece di sprofondare negli abissi, si è lasciata ricoprire di edera.
Se però la villeggiatura estiva ha attraversato un profondo periodo di crisi, negli ultimi anni l’interesse per le case di montagna è tornato a farsi sentire, soprattutto grazie ad un nuovo immaginario creato e nutrito dai social network che, a colpi di fotografie e di hashtag, ha convinto la massa che vivere al di fuori dei grandi centri non sia poi così male.
La conseguenza diretta di questo nuovo immaginario fa in modo che la nuova corsa all’oro sia rappresentata dalla lottizzazione dei terreni da dedicare alla costruzione di nuove case e dalla ricerca della casetta da ristrutturare: bella, un po’ isolata, possibilmente con giardino, grazie.
Oggi, in alcune zone di montagna, le case vanno letteralmente a ruba: inglesi, americani, olandesi e francesi, fanno a gara con gli abitanti delle città della Pianura Padana per strappare il prezzo migliore alle agenzie immobiliari, spesso costituite da minuscole imprese individuali sparse nelle località più importanti d’Appennino.
Dopo essere state vendute ai nuovi proprietari, le case vengono riaperte, ristrutturate al meglio, per poi essere nuovamente chiuse in vista dell’inverno, perché «in montagna il lavoro manca» e quindi «come si fa a venirci a vivere?».
La quarantena del 2020 e 2021 ha dato un’ulteriore spinta al crescente interesse per le aree interne, portando molte persone a trasferirsi temporaneamente nelle seconde case anche al di fuori dell’alta stagione. I proprietari dei piccoli alimentari di paese che conoscono la clientela locale per nome e cognome, hanno visto aumentare un fatturato che era stabilmente in decrescita da almeno vent’anni.
«Beh l’impressione è che abbiano scoperto i negozi di paese. Eran tutte persone abituate a fare spesa in città prima di venire su, ma dato che durante la quarantena non potevano, hanno iniziato a farla qui. Ora la fanno prima di andare via, magari non per tutto, ma per le cose buone» dice la proprietaria di un piccolo alimentari.
«Abbiamo passato la seconda quarantena qui nella seconda casa di mio padre, che purtroppo non c’è più, e adesso stiamo iniziando a pensare di stare qui anche lunedì, martedì e mercoledì, tanto per rompere un po’ la settimana. Alla fine ci siamo resi conto che i bambini qui sono più liberi di andare dove vogliono e quindi sono più sereni. E lo siamo anche noi», mi spiega sorridendo una giovane mamma.
Gli indigeni, ormai rassegnati a vedere i propri compaesani andarsene uno dopo l’altro, hanno iniziato timidamente a tessere relazioni con i nuovi vicini di casa. Rompere il ghiaccio non è sempre tra le cose semplici da fare in un piccolo borgo, a volte basta un aperitivo al bar, altre volte occorrono mesi di sguardi e di saluti cordiali ma sbrigativi. Poi alla fine, vuoi per il consiglio per un sentiero, il numero di telefono di quello che vende la legna, una passione in comune, la calotta glaciale finalmente cede e la situazione si ribalta. È la permanenza l’ingrediente fondamentale e il Covid in questo ha giocato un ruolo fondamentale.
La priorità, durante la quarantena, sembrava essere quella di allontanarsi dai grandi centri, trovare un luogo più spazioso, con un po’ di verde, lontano dall’urlo delle sirene delle ambulanze, dalle code fuori dai supermercati. Non era tanto la casa di città ad essere messa in discussione, ma la quantità di persone che si era disposti ad avere intorno. Senza teatri, cinema, mostre, aperitivi in centro, le città avevano perso gran parte del loro potere attrattivo per trasformarsi in enormi contenitori senza contenuto e, quando un oggetto smette di essere attrattivo, gli sguardi si volgono inevitabilmente altrove. Altrove hanno finalmente incontrato la natura delle aree interne.
Le fotografie delle quarantene di quelli che avevano un giardino o di chi, dalla provincia, mandava immagini di innocenti scappatelle per far due passi nei boschi, hanno scavato a fondo nell’immaginario dei cittadini e molti si sono convinti dell’importanza di avere un’alternativa alla vita nei grandi centri.
Ovviamente non si parla ancora di un fenomeno di massa, ma l’impulso è partito e chi vive nelle aree interne ha iniziato a vedere che la natura che circonda il luogo in cui abita, può avere un valore e, soprattutto, un prezzo. È su questo punto che il problema della disponibilità delle case si inasprisce, perché chi ha la seconda casa se la tiene stretta e non la vuole certo vendere, anche se non ha la possibilità di usarla spesso quanto vorrebbe.
Si tratta di un problema difficile da portare allo scoperto, perché nel momento in cui una casa viene recuperata, il tetto rifatto, il muro in sassi portato a vista, è difficile notare che ci possa essere qualcosa che non va. Ci si limita a godere della vista della casa tornata finalmente in ordine, l’erba tagliata, il cancello ripitturato, gli alberi potati. Nessuno presta troppa attenzione al fatto che quella casa rimane chiusa in pratica per tutto l’anno.
Nessuno ci fa caso perché, per chi vive in montagna, questa è la norma da generazioni e sono davvero in pochi a porsi quelle domande che potrebbero suonare anche banali: in che modo l’economia di un paese costituito per due terzi di seconde case, chiuse per dieci mesi l’anno, può sopravvivere? È possibile mantenere i servizi di base quando due terzi della popolazione è costituito da fantasmi che si manifestano solo con l’estate? E cosa succede se chi vuole venire a vivere in Appennino non trova case perché sono tutte già acquistate per la villeggiatura? I proprietari delle seconde case, che spesso hanno dovuto affrontare sacrifici per acquistare o ristrutturare, alla fine di ogni stagione chiudono il loro nido estivo, dove tutto è ben riposto, lasciando alle loro spalle una struttura muta e morta ad osservare lo scorrere delle stagioni. Forse in cuor suo ognuno pensa con una punta di malinconia alla propria casa, ma credo che siano pochi quelli che si domandano che effetto faccia vivere in un paese di case blindate e vuote.
Le zone montane stanno gradualmente cambiando volto. Un nuovo melting pot di popoli sta iniziando ad occupare quei posti di lavoro lasciati vacanti anche se, spesso, per chi sceglie di vivere in montagna, è difficile trovare casa proprio a causa dell’enorme quantità di abitazioni ormai acquistate solo ed esclusivamente per l’estate. Se la politica e le popolazioni locali non interverranno per tempo sulla questione delle seconde case, disincentivando le nuove costruzioni e favorendo la vendita a chi decide di cambiare residenza, la montagna del futuro diventerà un luogo esclusivo per ricchi, una sorta di gigantesco campeggio estivo dove nel centro principale saranno rimasti solo il bar e la chiesa, perché nel frattempo le altre attività avranno dovuto chiudere i battenti, soffocate dal deserto silenzioso delle seconde case.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Giacomo Agnetti, diplomato come montatore cinematografico presso la Scuola di Cinema “Luchino Visconti” di Milano, è il fondatore di Magic Mind Corporation, casa di produzione specializzata in cartoni animati e documentari. Le sue opere hanno ricevuto numerosi premi in festival nazionali e internazionali e sono state candidate al David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Dal 2012 lavora abitualmente anche come illustratore. Insieme all’autore Mario Ferraguti ha pubblicato il libro illustrato Ti Segno e T’incanto edito da Fedelo’s e distribuito da Feltrinelli e I mostri d’aria, edito da Ediciclo. Il suo ultimo libro per bambini, Julio el Pintor, sta per essere pubblicato in Cile per Ñire Negro. È professore a contratto allo IULM (International University of Languages and Media) di Milano, dove insegna tecniche di animazione. Ha lavorato come documentarista in molti Paesi. È direttore dello Squinterno Festival e uno degli ideatori del Piccolo Festival di Antropologia della Montagna. Dal 2017 è Guida Ambientale Escursionistica e lavora per promuovere e far conoscere il territorio in cui vive.
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