Gli studi di matrice arabo-sionista assumono generalmente un punto di vista che potremmo chiamare “territorialmente palestinocentrico”; naturalmente, tale punto di vista ha una sua logica poiché le sofferenze, le lotte, la morte, le espulsioni e lo spostamento di popolazioni hanno proprio in quei luoghi il loro teatro. Ma un simile approccio significa anche che la dimensione regionale nel cui quadro si colloca la questione Palestina/Israele è spesso sottovalutata sia storicamente sia nella lettura delle etnopolitiche territoriali correnti [1]. In nessun altro ambito questa circostanza è più evidente che nella sempre crescente controversia fra i proponenti di una soluzione “Stato unico”, “Stato binazionale” o “Due popoli-due stati” per la questione Palestina/Israele (cui d’ora in poi ci riferiremo con l’acronimo 1S2S). Questa negligenza spinge i tanti partecipanti al dibattito1S2S a discutere (e ipotizzare) soluzioni che si fondano su quel che chiamo qui “speculazioni astratte in un vuoto regionale”, cioè su sfere accademiche che in definitiva considerano il territorio del Mandato britannico di Palestina/Israele (post 1922) come un’isola a se stante sia in termini storici sia in termini presenti.
Il problema è che non lo è mai stato né lo è adesso: la questione Palestina/Israele ha acquisito una potente dimensione regionale almeno sin dai tempi della rivolta anticolonialista palestinese del 1936-1939 e dello storico raduno panarabo a Bludan, convocato per determinare il fallimento della prima soluzione “Due popoli-due stati” proposta dalla Commissione Peel. Ne consegue logicamente che se le stesse diagnosi prevalenti della questione sono scorrette o parziali – a causa delle “speculazioni astratte”, della visione palestinocentrica e dell’omissione delle variabili regionali storiche e attuali –, le corrispondenti prognosisociopolitiche (soluzione “Stato unico”, “Due popoli-due Stati”o “Stato binazionale”) sono probabilmente distorte e non solo in termini retorico-concettuali. […]
Continuità e rotture: il post 1967 e il post 1993 a confronto
Non mi è possibile esporre tutti i temi elusi nel dibattito su Palestina/Israele come esito delle sue “speculazioni astratte”, omissione delle dimensioni regionali e visione palestinocentrica. Perciò ne evidenzierò solo uno mettendo a confronto, in sequenza temporale, due approcci che metodicamente e politicamente o si sottomettono, o resistono, ai termini della gabbia imposta da Churchill nel 1922.
Fra il 1949 e il 1967, l’approccio della post Nakba alla questione palestinese era orientato dagli arabi. Ispirata da un quadro di riferimento che guardava al 1917 piuttosto che al 1948, la soluzione del conflitto vi era demandata a un eventuale ribaltamento sociopolitico che riportasse lo stato delle cose al 1917 più che a possibili modalità inclusive che coinvolgessero tutti i soggetti presenti sul territorio di Palestina/Israele. Per esempio, l’articolo 7 della Carta dell’Olp pre 1967 stabiliva che solo gli “ebrei di origine palestinese” sarebbero stati considerati parte della collettività palestinese liberata, sapendo che solo pochi ebrei in Palestina/Israele avrebbero potuto superare quello sbarramento. Questo approccio, rafforzato dalle dichiarazioni fin troppe esplicite pre 1967 di Ahamd Shuqayri [2] sulle infauste conseguenze che la liberazione avrebbe comportato per gli ebrei israeliani, fu controproducente per la causa palestinese [3].
In seguito alla schiacciante sconfitta inflitta da Israele agli eserciti arabi convenzionali nel 1967, la lotta di liberazione palestinese cambiò. Furono dispensati grandi sforzi per legarla a modalità antirazziste e anticoloniali: fu posta enfasi maggiore su soluzioni progressiste democratiche e inclusive al problema invece che sull’arrivo degli eurosionisti e/o sui fatti pre 1948 in Palestina. Nel prossimo paragrafo traccerò il profilo dei marxisti e non marxisti che emersero intorno al 1967 e metterò a confronto le loro diagnosi e prognosi con quelle dominanti nel post 1993 della scuola “Stato unico” nel dibattito 1Stato2Stati ( da ora 1S2S).
Resurrezioni e anestetizzazioni
Due principali sottogruppi nazionali si consolidarono fino a formare il rinnovato e modernizzato movimento nazionale palestinese post 1967. Quello dominante fu il Movimento nazionale palestinese per la liberazione, noto come Fatah [4] – che avrebbe in seguito condotto il Pnc- Palestinian National Council, Consiglio nazionale palestinese – alle votazioni del 1988 e in seguito nelle fauci del processo di pace di Oslo. Con visioni e obiettivi relativamente ristretti, Fatah si occupava esclusivamente degli affari nazionali palestinesi [5], optando per il disimpegno e la de-enfatizzazione delle politiche e dimensioni arabe e interarabe; valutando il cambiamento sociale, economico e politico (femminismo compreso), come secondario rispetto alla lotta nazionalista e anticoloniale standard [6]; enfatizzando la lotta armata e sottovalutando il bisogno di dedicare tempo e risorse materiali e intellettuali allo sviluppo di piani strategici di lungo periodo, considerati astratti. Fatah si preoccupava esclusivamente della possibilità di creare un singolo e unitario Stato arabo-palestinese in Palestina, ed era restio a porre troppo decisamente in primo piano la questione della sua laicità perché avrebbe potuto provocare divisioni intrapalestinesi. Anche il nodo dell’organizzazione interna dello Stato – socialista, progressista ecc. – fu tenuto in disparte.
Il secondo sottogruppo che faceva parte del Movimento nazionale palestinese moderno seguiva una tendenza opposta a quella di Fatah; era una forza decisamente di sinistra, laica e marxista, e comprendeva il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp). Con una visione più ampia e un orientamento più arabo-internazionalista, la sinistra palestinese laica sosteneva la lotta armata popolare anche se ne riconosceva apertamente i gravi limiti in assenza di cambiamenti sociali e politici complessivi nel più vasto mondo arabo. Invece di riportarne i due lunghi statuti fondativi del 1967 e 1969 [7], con qualche sintetica testimonianza si possono tracciare le linee guida del credo materialista marxista. Affermava George Habash nel 1969:
«Diversamente dai Fratelli musulmani in Egitto e da qualche altro gruppo, non consideriamo la liberazione della Palestina come un processo isolato dagli eventi che hanno luogo nel resto del mondo arabo nel suo insieme. Vediamo la necessità di una rinascita scientifica e tecnica nel mondo arabo. La ragione principale della nostra sconfitta risiede nella superiorità scientifica della società israeliana rispetto alla nostra arretratezza nel mondo arabo. Questa constatazione ci chiama a una totale ricostruzione della società araba nel 20° secolo» [8].
Prima di analizzare la dimensione esplicitamente regionale della tesi di Habash, valutiamo quel che sarebbe potuto succedere se avesse espresso queste parole nei contemporanei dipartimenti di Letteratura comparata o nei circoli (non marxisti) che sostengono la soluzione “Stato unico”: Habash sarebbe stato etichettato come modernista ed eurocentrico. Sia come sia, meno di un anno dopo il disastro del settembre 1970, Ghassan Kanafani rilanciava la più ampia visione regionale di stampo marxista:
«L’Fplp ha sempre ripetuto che abbiamo quattro nemici di pari entità: Israele, il sionismo mondiale, l’imperialismo guidato dagli Usa e le forze reazionarie arabe. Il rovesciamento dei regimi arabi reazionari fa parte della nostra strategia, parte della liberazione della Palestina» [9].
In sintesi la visione non regionale di Fatah, ignorando gli (apparentemente non palestinesi) affari arabi nei territori che si trovavano oltre i confini della Palestina di Churchill, era giudicata teoricamente e praticamente inefficace dai fronti marxisti. Applicando un’analisi non sentimentale, moderna e materialista, alla questione Palestina/Israele – un’analisi che supera la sempre accattivante, seppur dagli orizzonti ristretti, tesi nazionalista – la sinistra laica marxista non riteneva individuabile nessuna linea d’azione per realizzare la liberazione della Palestina, e men che meno la sua democratizzazione laica in uno Stato unitario, senza il verificarsi di cambiamenti complessivi nei Paesi arabi circostanti. Secondo questa visione, la strada per una Gerusalemme laica/socialista non aveva molte altre possibilità se non quella di passare attraverso le società civili degli Stati arabi adiacenti [10]. Andando oltre la divisione arabo/sionista, i membri – avversati – dell’Organizzazione socialista israeliana (Matzpen) avevano colto (indipendentemente e in tempo reale piuttosto che in retrospettiva) quale fosse la questione chiave in gioco. Nel loro Position Paper on the Palestinian Movement (Dichiarazione sul movimento palestinese) osservavano (in ebraico):
«[…] Un nuovo importante protagonista è apparso sulla scena politica mediorientale: i palestinesi. Per la verità, avevano preso in mano le redini della propria azione alcuni anni prima della guerra del ’67 ma l’impulso decisivo è arrivato solo in seguito alla guerra. L’elemento importante di questa iniziativa palestinese è la trasformazione di un conflitto fra governi in una lotta di massa. Per quasi vent’anni i palestinesi hanno ricoperto il ruolo di oggetto della storia che aspettava passivamente la salvezza da parte degli Stati arabi, in generale, o degli Stati arabi “progressisti” e in particolare dell’Egitto sotto la guida di Abdel Nasser. […] La comparsa di una lotta palestinese di massa […] è un fenomeno positivo, ma vi si può scorgere una tendenza negativa e pericolosa. Alcuni settori del movimento palestinese hanno adottato l’idea nefasta secondo cui le masse palestinesi possono e dovrebbero “farcela da sole” e risolvere da sé i propri problemi, separatamente da tutte le altre lotte rivoluzionarie arabe. Coloro che la sostengono considerano il problema come unicamente palestinese e che, in quanto tale, possa essere risolto semplicemente in un contesto palestinese. Così il bastone non è stato rafforzato, è stato solo piegato nella direzione opposta» [11].
Dovrebbe bastarci questa citazione per darci un’idea telegrafica di quale fosse il retroterra del nazionalismo palestinese dopo il ’67 in termini di letture competitive della realtà fra marxisti e non marxisti. Facciamo un salto fino a confrontarle con quelle presenti del dopo ’93. Innanzitutto chiedo: gli attuali studiosi o attivisti che sostengono la soluzione Stato unico, non stanno per caso resuscitando l’approccio post ’67 di Fatah e nello stesso tempo anestetizzando quello del Fronte marxista?
Tanto per cominciare, l’opzione degli studiosi contemporanei a favore di un unico Stato laico e democratico è principalmente frutto della débâcle di Oslo insieme al fallimento della nozione dei Due stati e alla cooptazione del Fath post ’93 (sia di Abu-Amar sia di Abu-Mazen) nell’orbita americano-israeliana. In questa luce, la formulazione degli attuali sostenitori dello Stato unico da un lato resuscita per intero le argomentazioni del Fatah pre-1988 (tranne, in molti casi, quella della lotta armata), dall’altro svilisce la teoria e prassi – storicamente rivali – sostenute ed esercitate dai fronti marxisti. Come tradionalmente Fatah – e al contrario dai fronti – i libri, gli articoli, i saggi, le raccolte di saggi, le dichiarazioni (ecc.) degli studiosi post 1993 a sostegno dello Stato unico [12] raramente citano eventi attuali – o che stiano empiricamente accadendo – nelle aree regionali circostanti i confini (altrimenti mandatari) dell’auspicato Stato unico. I fattori socio-economici – e di certo il socialismo (ma aggiungerei anche il femminismo) – restano periferici e vengono sostituiti, invece che sostenuti, da discorsi legalistici sui diritti umani e le leggi internazionali.
Per l’Autorità nazionale palestinese (Anp) con sede a Ramallah, la strada che porta a Gerusalemme (Est) comincia nelle “segrete stanze”di Washington, secondo la fantasia che vede negli Stati Uniti i dispensatori di “Pace” e “Stato” attraverso un remoto controllo occidentale. I sostenitori della soluzione Stato unico che criticano l’Anp, per ironia della sorte ne sembrano condividere la logica: in questo caso, si presume che la strada per la liberazione e lo Stato unitario abbia il proprio imprescindibile inizio nella società civile di Londra, Madrid, New York e San Francisco; Amman, Il Cairo, Damasco o Beirut raramente sono citate nei loro studi precedenti il 2011. Il punto di forza sotteso da un approccio simile – sua militanza compresa – è eurocentrico e non arabo: postula che sia stata principalmente la società civile bianca occidentale a rovesciare l’apartheid in Sudafrica (attraverso il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni). L’intellighenzia a sostegno dello Stato unico difficilmente cita, sottolinea o prende in considerazione l’attività politica interna e le lunghe decadi che hanno preceduto il 1992 con le sistematiche, rischiose mobilitazioni di massa – sia nello stesso Sudafrica sia negli Stati circostanti – organizzate da potenti organismi quali l’African National Congress (Anc), il Congress of South African Trade Union (Cosatu) e il Partito comunista sudafricano che non hanno equivalenti palestinesi o nei Paesi arabi. Inoltre, non si scorge nemmeno in lontananza l’intenzione – figuriamoci progetti praticabili – di creare organismi simili in Palestina e/o nel mondo arabo.
Analogamente, sembra che per l’intellighenzia post 1993 a sostegno dello Stato unico sia troppo oneroso prendere lucidamente atto che la situazione dei palestinesi è probabilmente peggiore di quella dei neri sudafricani prima del 1993. Sono rare le occasioni, per esempio, in cui si cita il significato – per non parlare delle possibili implicazioni nella questione Palestina/Israele – della considerevole dipendenza materiale del Sudafrica bianco dalla “sua” forza lavoro nera; una dipendenza assente nel caso di sionismo/Israele nei confronti dei palestinesi. Ciononostante, e malgrado questi siano già di per sé fattori problematici [13], restano questioni secondarie nel presente articolo. La mia principale contestazione è molto più semplice.
Può essere utile ricorrere a un punto di vista materialista d’ispirazione marxiana e quindi analizzare a fondo la “ristretta (e liberalista) prospettiva” di stampo “fatahita” promossa efficacemente dagli studi attuali sullo Stato unico. Io ipotizzo che la prospettiva di realizzare – contrapposta alla prospettiva di prevedere astrattamente – una soluzione modestamente unitaria laico-democratica nel territorio della Palestina mandataria sia probabilmente destinata a restare irraggiungibile, finché non si scorga l’emergere di cambiamenti paralleli/complementari nella regione circostante. Contrariamente a quanto sia i fautori della soluzione a Due stati sia quelli (non marxisti) della soluzione Stato unico vogliono farci credere, la terra compresa fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo non è un’isola territorialmente separata (come lo è stata effettivamente dagli anni ‘30 in poi) e la regione circostante continua a costituire una gigantesca variabile che non può essere ignorata (come lo è al momento dagli studiosi del continuum 1S2S).
Mi colpisce come siano idealistiche e nello stesso tempo stereotipe le attuali soluzioni 1S2S, e mi sembrano inadeguate ad affrontare coraggiosamente la crisi sociopolitica che sin dagli anni ’30 si espande come una metastasi sull’intero Medioriente (Palestina/Israele inclusi). È improbabile che il territorio della Palestina mandataria si possa emancipare senza dei progressi non banali verso una democrazia popolare araba non settaria. Qualsiasi altra configurazione delle società arabe – che sia ispirata da fondamentalismi sociali in competizione fra loro come quello di Hamas, Hezbollah, al Qaeda, da leader autoritari quali i Fratelli musulmani, o l’Anp, o da nazionalisti esclusivamente e ostentatamente laici (come quelli che si affermarono negli anni ’40) – ha altrettante possibilità di successo, di fronte al sionismo e Israele, di quelle che ha avuto il mondo arabo dal 1882. Infatti formulazioni fondamentaliste simili restano strutturalmente inadatte ad attrarre forze non settarie abbastanza potenti da contrastare il formidabile potere israeliano/sionista che devono affrontare (come di fatto sta accadendo dal 1937). E come chiarirò ulteriormente di seguito, alcune configurazioni delle società arabe sembrano incapaci di creare un contrappeso al sionismo e a Israele per il (possibile) mutuo beneficio di arabi e israeliani a livello regionale.
Contrastare l’eurocentrismo
Come indicato nella soprariportata citazione di Habash, i marxisti del dopo ’67 (compresi quelli israeliani) erano tanto convinti della loro laicità quanto impegnati a contrastare le forze sub nazionali nei loro principi basilari (religione, cultura, linguaggio, nazionalismo ristretto ecc.); l’elemento guida dei materialisti marxisti era improntato a un modernismo non apologetico. E tuttavia diversamente dai sostenitori della teoria liberale, i marxisti non concepivano il progresso come un processo lineare ma come un percorso accidentato, accompagnato da lotte, turbolenze e contraddizioni attraverso le quali la liberazione e l’egualitarismo avrebbero rivoluzionato le attitudini personali e l’esistenza collettiva. Di conseguenza, senza soccombere servilmente alle forze conservatrici sub nazionali attigue, i marxisti dell’Fplp (per esempio) affermavano:
«La lotta per la Palestina – per quanto riguarda le masse palestinesi e arabe – sarà una porta che si apre verso la cultura contemporanea e la transizione da una condizione di sottosviluppo alle esigenze della vita moderna. Con la lotta acquisiremo la coscienza politica dei fatti dell’epoca, liberandoci delle illusioni e imparando il valore dei fatti. I comportamenti legati al sottosviluppo quali la sottomissione, la dipendenza, l’individualismo, il tribalismo, la pigrizia, l’anarchia e l’impulsività si trasformeranno attraverso la lotta nel riconoscimento del valore del tempo, dell’ordine, della precisione, del pensiero oggettivo, dell’azione collettiva, della pianificazione, della mobilitazione generale, dell’apprendimento e acquisizione di tutti i suoi strumenti, del valore dell’essere umano, dell’emancipazione delle donne – che costituiscono la metà della nostra compagine sociale – dalla servitù delle tradizioni e dei costumi obsoleti, dell’importanza fondamentale del legame nazionale per affrontare il pericolo e della supremazia di tale legame su quello di clan, tribù e regione (di tipo iqlimiyya). La lotta nazionale di liberazione di lunga durata significherà la nostra fusione in un nuovo modo di vivere che sarà la nostra porta verso il progresso e la civiltà» [14].
È possibile che i teorici contemporanei postcoloniali e/o postmoderni – compresi gli arabo-americani che lavorano nelle accademie occidentali – considerino le tesi dell’Fplp eurocentriche, moderniste e magari anche orientaliste [15]. Tuttavia non si può negare che i marxisti post ’67, arabi e israeliani, facevano a tutti gli effetti parte delle loro società (non occidentali) e che le loro diagnosi e militanza avevano origine e si sviluppavano dall’interno, ed erano dirette verso l’interno. La liberazione può generarsi solo dall’interno del (non europeo) Medioriente e non può essere il frutto di un remoto controllo occidentale. Tenendo ben fermi questi riferimenti fondamentali, adesso vorrei chiedere se – in stridente contrasto – non sia l’eurocentrismo liberale a governare il continuum (sionista/non sionista) che informa gli studi 1S2S del post ’93. Prenderò in esame innanzitutto la scuola che sostiene la tesi dei Due stati e poi mi rivolgerò alla sua controparte a favore dello Stato unico.
Il fisico e filosofo ebreo spagnolo Yehuda Halevi (c. 1075-1141) scrisse un leggendario epigramma: «Il mio cuore è in Oriente, e io sono all’estremità dell’Occidente». L’epigramma di Halevi è stato completamente frainteso nella concezione teorica (ed esistenziale) formulata dai sostenitori della soluzione a Due Stati appartenenti alla sinistra sionista. L’evento che coronerebbe il sogno di questa corrente di pensiero sarebbe una nave da carico in grado di trascinare via Israele dal Medioriente e, attraversando il Mediterraneo, ancorarlo da qualche parte in una zona compresa fra Italia, Corsica e Francia. Molto più degli studiosi neoconservatori, i teorici della sinistra sionista a favore dei Due Stati pensano a Israele come a un prodotto europeo, sia politicamente sia culturalmente. E infatti l’ex comandante in capo dell’esercito, ed ex primo ministro d’Israele, Ehud Barak ha notoriamente coniato la famosa definizione secondo cui «Israele è una villa nella giungla», ossia una villa-stato in stile eurodemocratico in mezzo a una “giungla” autoritaria araba. I teorici che sostengono l’idea dei Due stati sono spaventati persino all’idea di prendere in considerazione, dal punto di vista politico o anche solo teorico, l’eventualità che un costrutto come “stato ebraico e democratico” possa essere una contraddizione in termini (e in questo caso, non ci sarebbe nessuna villa nella giungla di Barak) [16]. Altrettanto difficile per questi teorici della sinistra sionista è venire a patti col fatto che i non ebrei in generale – e soprattutto gli arabi palestinesi – non possono davvero apprezzare le (tanto sbandierate) benevoli caratteristiche della democratica ed europea villa ebraica.
E veniamo ora all’“eurocentricità” della scuola di pensiero post 1993 sullo Stato unico. I teorici non sionisti all’altra estremità del continuum 1S2S, in realtà condividono alcuni degli assunti sottesi al costrutto di Barak di “villa nella giungla” in stile europeo. Perché e qual è la differenza fra queste due scuole di pensiero? Per i teorici dello Stato unico, a questa “villa” è assegnata la forma futuristica di uno Stato unitario laico e democratico desionistizzato, immaginato come condiviso pacificamente dai (nazionalisti e religiosi) ebrei sionisti e i (nazionalisti e religiosi) arabi palestinesi che si desidera speranzosamente vivano fianco a fianco in piena eguaglianza. Ma soprattutto si ipotizza che la villa Stato unico mediorientale in stile euroccidentale, antisionista e laico-democratica, si materializzi e sia oltretutto indipendente in una regione in cui il territorio di Palestina/Israele confina:
a) a nord con il Libano, una democrazia consociativa disfunzionale passata attraverso due terribili guerre civili fra cittadini arabi e non arabi di varie sette e denominazioni (e senza la presenza contingente di ebrei sionisti); b) a nordest con la Siria, una “repubblica” ereditaria e autoritaria governata da una setta minoritaria (alawita); c) a est con la Giordania, una monarchia non costituzionale dove una minoranza hashemita governa una popolazione per la stragrande maggioranza palestinese; e d) a sud con l’Egitto, uno Stato autoritario governato dal 1952 da tre uomini (uno dei quali estromesso con l’omicidio) [17*]. Per mancanza di spazio salterò l’Iraq – Stato unitario, laico e democratico – dove gli arabi (soprattutto sciiti e sunniti) cercano di convivere con evidenti difficoltà e molti spargimenti di sangue.
In tutti gli Stati e le società confinanti con Palestina/Israele, le difficoltà di consolidare uno Stato unitario laico e democratico sono evidenti malgrado che – contrariamente a quando accade nel territorio della Palestina mandataria – non vedano la presenza di una consistente (o minuscola) comunità di ebrei (sionisti o antisionisti) che non solo si differenziano culturalmente, linguisticamente, religiosamente e (in parte) etnicamente ma che sono anche 1) furiosamente eurocentrici e antiarabi, per non parlare 2) del loro considerarsi gruppo separato con il diritto di autodeterminazione nazionale nel proprio stato nel mondo del post Olocausto. In altri termini, se nelle società e Stati arabi è difficile riunire entità laico-democratiche anche senza la presenza statalista-nazionalista di sionisti avidamente eurocentrici, quali prospettive materiali reali ci sono perché un progetto simile si sviluppi prima e con successo in Palestina/Israele (mentre in qualche modo si evita di affrontare le complessità sociali che caratterizzano tali entità binazionali o bietniche come il Belgio, lo Sri Lanka o l’ex Jugoslavia?)
In stridente contrasto con i marxisti post ’67, tutti i saggi post ’93 a sostegno di uno Stato laico e democratico o binazionale sono privi di qualsiasi elemento esistente – o che avvenga empiricamente – oltre i confini (mandatari) della loro auspicata proiezione, ossia una villa-stato-laico-e-democratico all’europea in un territorio d’Israele/Palestina unificato. Nello stesso tempo, gli studiosi a favore dello Stato unico ipotizzano che lo Stato-isola laico e democratico maturerà in un modo o nell’altro nel “grembo” degli Stati confinanti, nessuno dei quali è laico o democratico. Se si adotta una lettura materialistica delle questioni storiche e contemporanee, tali speculazioni astratte in un vuoto regionale lasciano interdetti: e se la diagnosi è ampiamente fuori strada, allora la prognosi corrispondente corre il rischio di diventare das Opiumdes Volkes [18*]. Per parafrasare l’ormai nota concettualizzazione di Barak, il futuro della regione può ben essere questo: 1) un sistema di ville senza nessuna “giungla” che le circondi o 2) una cosiddetta “giungla” con zero ville (che siano arabe o israelopalestinesi). E quest’ultima ipotesi sarebbe banalmente in piena continuità con la situazione sociopolitica presente.
Conclusioni
Come conseguenza di un punto di vista territorialmente palestinocentrico, delle “speculazioni astratte” e di una visione non arabocentrica, molti studi su Palestina/Israele non sono ipso facto in grado di tenere nella giusta considerazione una variabile centrale, regionalmente radicata, la cui eco arriva fino a oggi. Questa variabile è costituita dalla sequenza di eventi che si sono verificati intorno agli ebrei arabi dalla seconda metà degli anni ’30 in poi e che incarnano niente meno che la prima, decisiva dal punto di vista storico, e più tangibile manifestazione della crescente regionalizzazione dell’intera questione palestinese e la sua concreta, materiale, fusione sociopolitica con le scelte di politica interna dei Paesi arabi in netto contrasto con la fusione speculativa – verbale o astratta – di dottrine, ideologie, trovate giornalistiche o intrecci diplomatici. Una ragione centrale, sebbene ignorata, della sconfitta storicamente enorme inflitta da sionismo e Israele ai Paesi arabi, è stata l’incapacità di questi ultimi di creare e poi sferrare un contrattacco non settario all’eurosionismo. Le attuali linee guida 1S2S sulla questione Palestina/Israele sembrano costituite di frasi fatte,i cui fautori coniano in modo approssimativo desiderabili scorciatoie idealistiche soprattutto a causa della loro incapacità di affrontare in modo diretto le crisi interdipendenti che si sono estese in tutto il Medioriente sin dalla seconda metà degli anni ’30 (Palestina/Israele compresi). Mentre gli studiosi del continuum 1S2S raffigurano opportunisticamente il territorio di Palestina/Israele come un’isola sociopoliticamente separata, in realtà non lo è più dagli anni ’30 né lo è tuttora. Perciò, è improbabile che ne venga sufficientemente rielaborata la struttura in mancanza di progressi significativi verso una democrazia popolare non settaria nel “grembo” (arabo) che lo circonda.
Inoltre, l’unico serbatoio cui attingere per creare un contrappeso alla potenza israeliana (sociale, militare, economica, tecnologica ecc.) ha le proprie fondamenta nel mondo arabo e nel suo sottoutilizzato “capitale” umano. In altri termini, è poco probabile che le forze in grado di modificare gli equilibri (asimmetrici) di potere esistenti emergano da qualche altra parte; per esempio, dall’interno della stessa Israele (con la sua sinistra inesistente) o dalla sola Palestina o dai palestinesi in genere (per la loro incapacità di coagulare forze sul modello vietnamita o algerino). Né è probabile che un potere di contrasto sufficiente emerga dalla sfera euro-americana, società civile compresa; perché è improbabile che la liberazione di qualsiasi parte della Palestina – per non parlare di uno Stato laico e democratico – sia elargita da qualche benevolo e lontano centro di controllo occidentale (come gli studi 1S2S sembrano in realtà sottintendere), con sede negli Stati o nella (parzialmente propalestinese) società civile. Ancora una volta, bisogna ricordare che furono innanzitutto e soprattutto le lunghe decadi dolorose di perseverante mobilitazione organizzata dalle tre forze sudafricane alleate costituite da Anc, Cosatu e Partito comunista, a sconfiggere l’Apartheid. Con tutto il rispetto dovuto alla società civile occidentale, la fine dell’Apartheid non si sarebbe realizzata senza il potere democratico e non settario creato da queste organizzazioni. Mentre si può considerare il boicottaggio occidentale come a ciliegina sulla torta, la torta resta quello che era: frutto della militanza democratica, non settaria, interna al Sudafrica e alle aree circostanti.
Una lucida e non elusiva diagnosi di qualsiasi problema evidentemente costituisce un prerequisito necessario per elaborare una soluzione che abbia qualche possibilità di successo. Lo sguardo esterno eurocentrico che caratterizza gli studi 1S2S può forse trarre beneficio dal rafforzamento di un punto di vista mediorientale/arabocentrico ispirato al (palesemente fuori moda) materialismo marxista che esisteva sia nel mondo arabo sia in Israele fra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Contrariamente agli intellettuali liberali e idealisti della scuola 1S2S, i marxisti israeliani e palestinesi non erano affetti né da “speculazioni astratte” né da vuoti regionali. Erano perciò riluttanti a prescrivere scorciatoie sedative che evitassero le capitali arabe per dirigersi direttamente verso un’isola democratica in Palestina/Israele. In realtà, gli ebrei marxisti in Iraq ed Egitto avevano compreso questa mutua interdipendenza già dagli anni ‘40 [19]. Per quanto pochi si scomodassero ad ascoltarli allora, un numero ancor più esiguo oggi sembra capace di dare un senso alla loro esistenza, attivismo e pensiero, o importanza nel XXI secolo.
(traduzione dall’inglese a cura di Susanna Sinigaglia)
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Nota in calce dell’autore. Questo saggio è stato presentato alla conferenza internazionale “Ethno-Politics and Intervention in a Globalised World (Etnopolitiche e interventi in un mondo globalizzato)” all’Exeter Univeristy’s Centre for Ethno-Political Studies (EXCEPS), 27-30 giugno 2010. Il 3 gennaio 2011– un giorno prima della morte prematura di Mohamed Bouazizi in Tunisia, martire dell’ingiustizia economica –, questo saggio fu presentato alla rivista “Middle East Critique” (MEC). Ai primi di febbraio, a una settimana dall’inizio della rivoluzione egiziana, mi resi conto che gli sviluppi in corso nella regione evidenziavano la crescente importanza del mio saggio conferendo un sostegno empirico alla sua tesi-chiave, ovvero il primato storico e contemporaneo della dimensione regionale araba in cui è immersa la questione di Palestina/Israele. Questa problematica è stata sistematicamente trascurata dagli innumerevoli studi non arabocentrici antecedenti il 2011, compresi quelli che riguardano il dibattito Stato unico/ Due stati, il cui contesto è rimasto confinato al territorio lillipuziano della Palestina mandataria.
[*] Si pubblica in anteprima uno stralcio dell’ampio saggio di Moshe Behar, prossimamente edito da Zambon, all’interno di un volume che con altri intende attuare un progetto di studi e pubblicazioni, a cura di Susanna Sinigaglia, su alcune tematiche chiave relative alle vicende storico-politiche che hanno determinato e continuano a determinare lo squilibrio dei rapporti di forza fra gruppi di popolazioni e strati sociali in Israele/Palestina. Si ringraziano l’Autore, l’Editore e la Curatrice dell’opera per aver autorizzato la pubblicazione.
Note
[1] Nell’ambito della politica araba il termine “regionalismo” iqlimiyya assume comprensibilmente un connotato negativo, poiché significa che i ristretti interessi degli stati sono superiori a quelli del più ampio e olistico nazionalismo panarabo. È esattamente l’accezione che non voglio dare, in questo articolo,a “regionale” e/o “regione”; con questi termini, mi riferisco invece alla definizione del dizionario inglese secondo cui “regionale”è “relativo a un’ampia area geografica, al contrario di iqlimiyya.
[3] Yezid Sayigh‘s, Armed Struggle and the Search for State: The Palestinian National Movement, 1949-1993, Oxford University Press, Oxford 2004: 222; Helena Cobban, The Palestinian Liberation Organization: People, Power, and Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1984: 31.
[4] Ampi scritti sono disponibli su Fatah, fra cui Quandt, 1973, e Sayigh, 2004.
[5] Come gruppo leader, Fatah esprime questo concetto, per esempio, nell’articolo 27 dello statuto dell’Olp post 1967.
[6] Ibid., articolo 8.
[7] Entrambi disponibili al link http://www.pflp.ps/english/?q=taxonomy/term/5.Vedi anche W. Kazziha, Revolutionarytransformation in the Arab world: Habash and his comrades from nationalism to Marxism, Knight, Londra 1975.
[8] Intervista rilasciata a John K. Cooley e riportata in, Green March Black September: The Story of the Palestinian Arab, Frank Cass, Londra 1973: 135 (il c.vo è nell’originale).
[9] Ghassan Kanafani, “The PFLP and the September Crisis”,New Left Review, maggio-giugno, 1971: 50-57. Vedi anche Samir Franjieh, “How Revolutionary is the Palestinian Resistance? A Marxist Interpretation”, Journal ofPalestineStudies, inverno 1972: 52-60; MehmoodHussain, “The Palestinian Liberation Movement and Arab Regimes: The Great Betrayal”, Economic and Political Weekly, 8/45 novembre 1973: 2023-2028.
[10] Vedi Habash in Cooley: 139; Sayigh: 73 e 390; Muhammad Y. Muslih, “Moderates and Rejectionists within the PLO”, Middle East Journal, 30/2, 1976: 137.
[11] Presa di posizione redatta da M. Machover&Jabra Nicola e ristampata in Arie Bober (a cura di), The Other Israel, Anchar, New York 1972. Vedi anche Machover, 2006, 2009.
[12] Protocollo del XX Congresso sionista ristampato in Y.Galnoor, Partition of Palestine. State University of New York Press, New York 1995: 207.
[13]Vedi il defatigante lavoro di Mona N. Younis‘s, Liberation and Democratization The South African and Palestinian National Movements,University of Minnesota Press,Minneapolis 2000.
[14] PFLP, A Strategy for the Liberation of Palestine, parte 1, cap. 10, 1969 (il c.voè mio).
[15] Arif Dirlik – nel suo Is There History after Eurocentrism? Globalism, Postcolonialism, and the Disavowal of History,‖ “Cultural Critique”, 42: 1-34, 1999 – scrive a tale proposito: «E’ interessante notare che una nuova generazione di studiosi provenienti dal Terzo Mondo, ben radicati nelle strutture del potere accademico eurocentrico, ora parla in nome delle società di origine, mentre coloro che sono tornati in patria sono condannati a non essere ascoltati, o al provincialismo» ‖: 25 (il c.vo è mio).
[16] Vedi Unger, 2008; Yakobson& Rubinstein, 2009; Morris, 2009.
17* Quando questo saggio – per certi versi profetico – è stato scritto, in Egitto era ancora al potere Mubarak [ndt].
[18*] “L’oppio dei popoli” di marxiana memoria [ndt].
[19] Yusuf Harun Zilkha, al-S ihyu ni yahʻaduwat al-ʻarabwa al-yahud (Il sionismo contro gli arabi e gli ebrei), Matbaʻah Dar al-Hikmah, Baghdad 1946: 63-67; Marsil Shirizi, “AgainstZionism for the Sake of Jews and Arabs (Contro il sionismo per amore-salvaguardia degli ebrei e degli arabi)”, ristampato in Awraqmunadil Itali fi Misr (Quaderni di un combattente italiano in Egitto. Dar al-ʻAlam al-Thalith, il Cairo 2002 (1947): 52-56; Henri Curiel, Les Communistes égyptiens et le problème juif. Huckstepinternment camp, Il Cairo 1949, dattiloscritto 317 nell’Inventario (raccolta) degli scritti degli egiziani comunisti in esilio (Amsterdam, Istituto di storia sociale).
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Moshe Behar, primo membro di un’ampia famiglia ebraica della piccola borghesia egiziana nato in Palestina/Israele, è docente di Studi israeliani e mediorientali alla School of Languages, Linguistics and Cultures dell’Università di Manchester. Fra le sue opere più recenti segnaliamo: “The Foundational Antinativism of Mizrahi Literature”, Unknown Journal, 5 (1), 2015: 107-136.; “The centennial of ‘Flora Saporto’: Thoughts on the possibility of a Mizrahi-Feminist Alliance”, Unknown Journal, 2015: 139-140, 9-54; “Unparallel Universes: Iran and Israel’s One State Solution”, Global Society, 25 (3), 2011: 353-376. I suoi interessi scientifici ruotano attorno alla questione Palestina/Israele, al conflitto arabo-israeliano in generale, alla società israeliana e al fenomeno del nazionalismo in un quadro comparativo.
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