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Il diritto internazionale fra storia e nuova preistoria: ragioni per un giudizio in tempo di guerre

diritto-internazionaledi Roberto Settembre 

Desideriamo preliminarmente avvertire il lettore che quanto verrà detto in apertura di questo breve lavoro non entra subito nel tema proposto, ma è l’oggetto di una sfida cognitiva a cui il lettore viene chiamato, affinché, risolta, il discorso lo introduca nello spazio dove il giudizio possa muoversi in modo articolato e non predeterminato.

Pertanto riteniamo che sia il caso di dirlo chiaramente: dirlo a noi stessi poiché facciamo fatica a confezionare un pensiero scomodo nei suoi presupposti di fatto e nei suoi corollari logici. Dirlo chiaramente, poiché i falsi distinguo, le premesse alternative, le letture ideologiche mascherate da analisi critiche recano con sé o sono di per sé portatrici di nebbia tale da impedire una visione critica e sincera (o sincera e critica in diverso ordine di priorità) della realtà in divenire.

Ebbene, crediamo che stiano sul campo, scaldando i muscoli in attesa di conquistare le menti degli ignavi o degli ingenui, quelle non ancora sedotte, alcune forze cariche di prospettive di azione per attuare società umane diverse e inconciliabili con quelle liberal occidentali nate dalla temperie culturale del XX secolo.

Una di queste forze è vogliosa di democrazia diretta, fine della rappresentanza, ridimensionamento delle élite, costruzione lineare della cultura, accensione delle emozioni viscerali, quelle dei bisogni materiali e del senso di frustrazione indotto dall’alienazione, intesa come perdita di controllo e di consapevolezza sul senso del proprio agire, sull’oggetto della propria funzione nella società, come veicolo che consenta all’invidia e alla rabbia di sfociare nella vittoria come rivincita sulla sconfitta delle ideologie avverse camuffate da ideali. Una è nata dal mito della mano invisibile che avrebbe rivoluzionato il mondo cancellando la Storia e trasformandolo nel pascolo della libera concorrenza: intendiamo il progetto neoliberale, e un’altra è l’ideologia che assume come l’ordine totalitario non sia altro che il frutto di un sistema liberale che ha perso i suoi freni, sfociato in un’esacerbazione del liberalismo, dove «tutti i suoi valori, compreso il concetto di uomo, sono solo una falsa ideologia dove l’individuo è sacrificato» (Ombrosi, 2012: 40). Ne conseguirebbe allora la necessità di tornare o approdare a nuove forme illiberali e antidemocratiche, delle quali Orban, Trump, o addirittura il Kirillismo, il Putinismo, l’islamismo radicale, il comunismo cinese sono manifestazioni platealmente risolutive.

9788880575238_0_536_0_75Nel nostro piccolo mondo, tuttavia, si pensi, a titolo di esempio, all’equivoco (equivoco?) del primato della scuola del merito sulla scuola egualitaria, mirante a edificare una scuola contraria al luogo di formazione degli individui secondo le capacità e la volontà, limitando il divario delle possibilità. Cioè la scuola agente della politica del welfare, tale da produrre sia la classe dirigente, sia le eccellenze intellettuali, scientifiche e umanistiche, sia un’ampia base di cittadini soddisfatti del proprio agire come persone. Ebbene, si pensi a quanto riduttivo e svilente sia un progetto ideologico che vuole una scuola analoga al nido d’infanzia, dove parcheggiare i figli mentre i genitori si assentano per andare al lavoro, e così sottrarli al pericolo del loro abbandono, vista come unica alternativa alla scuola darwiniana del merito proposta dai sovranisti neoliberali che governano il Paese. Nella prima e nella seconda ipotesi si tratta di concezioni della società umana plasmata dagli schematismi ideologici, sui quali è necessario spendere alcune parole.

Vogliamo dire che lo schematismo ideologico non ha solo una funzione di inquadramento militare del pensiero, tale per cui allontanarsene significa tradimento, ma soprattutto eliminazione di ogni forma di sincretismo della conoscenza.

Così come la specie umana, e ogni altra specie vivente ricava dall’ibridazione nuove forme vitali, mentre la rigorosa selezione univoca conduce all’estinzione o nel migliore dei casi alla fragilità e vulnerabilità delle malattie, in una sorta di crollo delle difese immunitarie, così gli schematismi ideologici in cui ridurre la conoscenza, conducono all’istupidimento generale. Cioè all’incapacità di cogliere nella realtà che si vuole modificare in nome e attraverso quegli schematismi un destino di morte.

Con ciò vogliamo sommessamente rilevare come la morte di cui stiamo parlando sia in primo luogo quella causata dall’uccisione della mente che, ahimè spesso, giustifica quella fisica, opposta alla vita intesa come azione del pensiero, quando si fa riflessione sulle narrazioni del reale, vivificata dalla verifica dei fatti priva di pregiudizi. Questi, viceversa, sono il terreno sul quale si ergono gli schematismi ideologici, forieri degli unilateralismi.

Ebbene, ogni principio ideologico discende dall’assunto per cui il suo pregiudizio parrebbe un atto di riconoscimento verso un’autorità che ci è superiore in giudizio e intelligenza. Ne consegue che solo la Storia potrebbe assumere questa forma, mostrando viceversa come questo assunto sia troppo spesso la maschera di chi, affermando la superiorità dell’autorità, mira solo a difenderla col potere, mentre rivendicarla non ha nulla a che fare con l’obbedienza, ma con la conoscenza.

Detto questo, tuttavia, attribuire alla Storia una qualche soggettività diventa facile oggetto di scherno, non equivalendo la Storia alla sua narrazione, cioè non essendo composta dalle sue fonti, dalle quali si ricava la sua conoscenza. Questo perché, se la Storia è il passato, questo passato è costituito dal complesso degli eventi che ci hanno preceduti.

Ma questo complesso è così gigantesco, poliedrico, tessuto da miliardi di istanti, azioni, pensieri, oggetti, persone, relazioni, affetti, ed eventi e personaggi grandiosi tali da formare la sua immensa trama, da non potersi cogliere nella sua interezza e complessità che abbraccia lo scorrere del tempo, del quale la nostra vita intera ne costituisce un infinitesimo frammento, essendo quindi incapace e insufficiente alla comprensione, cioè a raccogliere dentro di sé una totalità equivalente, che rimane nascosta dietro a quel puzzle sterminato.

eefaecdb7ddb42a0a83bc0dde2e3565bLa Storia, comunque, intesa come soggetto è certo esistita e ha edificato e plasmato il mondo degli esseri e delle cose, ma è scomparsa, lasciando soltanto le sue tracce. Queste sì, incontrovertibilmente fatti reali, dalle piramidi alle legislazioni, alle opere letterarie, ai ricordi tramandati. Ed è questa Storia, questo puzzle di residui che può rivestirsi di autorità, purché onestamente, lealmente, chi vuol riportarla nello spazio della conoscenza lo faccia attraverso un percorso privo di pregiudizi ideologici.

Allora «il tempo diventa – come afferma Gadamer (2000: 615) – il fondamento portante dell’accadere, nel quale il presente ha le sue radici». Questo comporta tuttavia una grande difficoltà, avendo come corollario l’idea che solo da una certa distanza storica si possa raggiungere una conoscenza storiograficamente obiettiva. Eppure questo è un paradosso, se vogliamo affrontare il giudizio sulla contemporaneità, rispetto alla quale assume rilievo il nostro interesse soggettivo che, viceversa, consente di immergersi in un processo che porta alla luce sempre nuove fonti di comprensione, purché la necessità di utilizzare alcuni pregiudizi, senza i quali ci si perderebbe in un universo di possibilità e di scetticismo, attenga a pregiudizi che nascono dalla loro relazione con l’autoevidenza della verità logica, per dirla con Bertrand Russell nel suo La teoria della Conoscenza. Il che comunque non esaurisce la questione.

Infatti questo significa che, nel descrivere gli eventi della Storia desumibili dalle sue tracce, un’operazione qualsiasi non possa prescindere dall’uso di un pregiudizio linguistico, che mette in relazione la descrizione di quelle tracce con la riflessione contenuta nelle parole usate per evocarle.

Ma tale condotta, che sembra lapalissiana sul piano linguistico, si scontra con l’opposizione fra la servitù dello schematismo ideologico e la libertà dell’analisi critica, la sola che consente di attribuire un significato consapevole alla narrazione dei fatti in esame.

Intendiamo quindi per analisi critica la funzione del pensiero critico che «rappresenta la somma totale dei processi del metodo scientifico e amalgama il contenuto del testo (la narrazione) con le conoscenze pregresse, le analogie, le deduzioni, le induzioni e inferenze varie, per poi usare questa sintesi nella valutazione delle premesse, delle interpretazioni e delle conclusioni» (Wolf, 2018: 62).

lettore-vieni-a-casa-346073Questo discorso attiene strettamente al tema che ci siamo proposti sulla natura, il significato del diritto internazionale, e a come, soprattutto, questa acquisita consapevolezza consenta di avvicinarsi agli eventi odierni più drammatici, in modo da coglierne il senso, affinché l’essere immersi nell’attuale tragico divenire storico non scateni il panico in chi si sente, altrimenti, condotto, bendato, su una via sconosciuta e pericolosa. A stare seduti accanto a un guidatore spericolato abbiamo meno paura se non siamo incappucciati.

Pertanto riteniamo che questa conoscenza, entrando in relazione col nostro rapporto cognitivo fra Diritto internazionale e Storia, debba prescindere da ogni schematismo ideologico. E uno dei motivi per cui tale schematismo dev’essere respinto, sta nel fatto che la conoscenza della realtà ne prescinde, in quanto la sua descrizione ne è l’unico veicolo attraverso la connessione degli elementi che la raffigurano.

Ne consegue che tale raffigurazione è tanto più fedele, quanto più il linguaggio vi aderisce, senza il pregiudizio ideologico che spinge a privilegiare la descrizione di un fatto invece di un altro, costringendo l’interprete a formulare il significato del fatto prescelto come un giudizio di valore dal quale non si allontanerà, pena di sentirsi o venir tacciato di tradimento “dell’idea” interiorizzata come inossidabile verità storica.

Ne consegue, viceversa, che il rifiuto del pregiudizio può condurre l’interprete a conclusioni inaspettate il cui contenuto lo avvia verso un cambio di prospettiva. Ecco perché gli ideali, a differenza delle ideologie, venendo sottoposti a continue verifiche fattuali, hanno la caratteristica di perfezionarsi nel tempo, raffigurandosi come progetti aperti. Ma non solo, poiché siamo persuasi (fino a prova contraria, è ovvio) che la lettura del mondo libera dai paraocchi degli schematismi ideologici consente di agire sul piano della vita e non su quello della morte.

Tuttavia, prima di argomentare ulteriormente su questo assunto, è necessario fare qualche passo di lato. Il primo attiene a un fenomeno linguistico, al quale abbiamo accennato sopra, tale per cui, quando osserviamo una traccia storica e ne diamo una definizione, in quell’istante poniamo sul piatto della relazione cognitiva tutti gli altri fatti che le si contrappongono e che vi si distinguono. In quel momento entra in funzione l’approccio valutativo, cioè il fulcro dal quale l’ideale trae la sua forza in divenire, o la maschera valutativa dell’ideologia. Ciò significa che l’approccio valutativo dell’ideale è un’ipotesi che ha bisogno di continue verificazioni, che non sono permesse dalle strutture rigide dello schematismo ideologico.

978880615504graSul punto è opportuna un’altra breve riflessione su uno dei suoi principali strumenti: il simbolo come segno grafico e lo slogan come simbolo linguistico. Ebbene, si noti come l’ideologia sia la morsa che stringe l’attività valutativa del soggetto quando viene posto di fronte al simbolo, o quando ascolta uno slogan: entrambi costruiscono nella mente del loro fruitore un significato tanto più costitutivo di valore, quanto più il destinatario accetti di farsi colonizzare. Lo schematismo ideologico è la griglia interpretativa della realtà analoga all’addestramento pratico degli animali per impartire loro certi esercizi mediante ricompense e punizioni, così come sostiene Ludwig Wittengstein in Libro blu e libro marrone (Einaudi 2000).

Pertanto prendiamo ad esempio alcuni simboli classici, come una svastica, la fiamma tricolore, l’immagine della Statua della Libertà che regge la fiaccola, la falce e martello, o le parole “Patria e onore”, “Dio patria e famiglia”, “La morale è borghese”, “In God we trust”, o, come vedremo, i famosi slogan neoliberisti “La società non esiste”, “Il vero problema è lo Stato”. Ebbene, sia in quelli grafici, sia in quelli linguistici, viene attivato un cortocircuito di tipo affettivo, cioè il legame in cui il fruitore del simbolo si identifica. Si tratta dell’esaltazione della passione sulla ragione, poiché nessuno di questi simboli attiva la ricerca di senso, essendo il senso, inteso come significato, la ragione giustificatrice di un progetto. Viceversa il senso implicito nel segno grafico e nella successione delle parole dello slogan, iper semplificate, prescinde dalla funzione creativa che forgia le idee, il cui presupposto è l’intelligenza selettiva, l’intelligenza interpretativa e l’intelligenza analogica. E infatti la forza dell’ideologia si basa su un principio di ubbidienza e non di conoscenza. Si tratta cioè del potere dello schematismo ideologico, la cui funzione è di tipo pauloviano, destinata ad attivare i riflessi condizionati dell’affettività.

Tuttavia la questione non si esaurisce sull’uso e il significato dei simboli, poiché il processo che muove lo schematismo ideologico di cui stiamo parlando è molto più sottile e pervasivo, trattandosi di un’operazione destinata a instillare nella mente del destinatario un atteggiamento negativo nei confronti di una minaccia proveniente dall’altro da sé. Operazione che deve avvenire in modo subdolo, così da non consentire al destinatario di rendersene conto. Cioè attraverso un meccanismo di trasmissione del pensiero così lineare e così superficiale da non offrire spazio ad alcuna distinzione fra contenuti veri e contenuti falsi.

Purtroppo siamo persuasi che questo accada ormai sempre più frequentemente, soprattutto da quando le persone hanno cominciato ad attribuire alla più diffusa fonte di informazione una pressoché totale fiducia nei suoi contenuti, non per mala fede o stupidità congenita, ma perché la natura di questa fonte di informazione non consente di capire che la fluidità e la precarietà fisica e temporale delle immagini serve in primo luogo a trasmettere la superficialità dei segni (le tracce di topini che corrono sul vetro, dice Maryanne Wolf) nello spazio cognitivo del fruitore, senza dargli sia il tempo, sia il modo di analizzarne il significato, poiché la successione delle righe elettroniche è inversamente proporzionale alla capacità cerebrale di assorbirne criticamente gli stimoli.

Si pensi al periodo ipotetico, intervallato da subordinate, privo di note a piè di pagina, privo di una bibliografia ordinata e puntuale, tale per cui il lettore, fiducioso della veridicità trasmessa e implicita nella fonte e non nel suo contenuto, riversato in lui, che più che lettore è un immagazzinatore di impulsi elettronici in rapida successione.

ginsborgIn verità questo immagazzinatore raramente si approccia a un linguaggio così sofisticato (il periodo ipotetico costringe a interrogarsi sulla verità o sulla falsità degli assunti) che è incompatibile con le modalità attuali, caratterizzate dallo skimming (lettura superficiale) dallo skipping (salto di parti di testo) e browsing (scorrimento veloce) (Wolf, 2018: 76), talché ne rifugge, preferendo narrazioni semplificate e autoreferenziali, che non esigendo la fatica di una vera comprensione, riducono l’operazione cognitiva alla percezione.

Sosteniamo quindi che, finché la maggior parte dei fruitori delle narrazioni delle vicende storiche, e massimamente di quelle contemporanee, non avrà compreso come tutto questo abbia solo la funzione di confermare il bias, fondamentale ganglio cognitivo per saldare la coesione attorno all’ideologia abbracciata, non ci sarà spazio per il pensiero pensante, ma solo per il pensiero pensato. Si vedano sul punto le suggestive parole di Paul Ginsborg e Sergio Labate in Passioni e Politica (Einaudi 2016), che analizzano l’esperimento di narrazione individuale basata sulla simpatia umana, a cui si partecipa alle vite degli altri attraverso il piacere della contemplazione, dove niente viene deliberato pubblicamente, dove non esistono discussioni sulla vita in comune, ma dove viene eccitata «la pulsione prestazionale e quantitativa, ampliando la platea della contemplazione, cercando di allargare i contatti, estendendo il numero di potenziali seguitori di ciò che pubblichiamo come tracce di noi stessi…difendendo la nostra bacheca dal disturbo di chi non la pensa come noi» (ivi: 60-61).

E questo accade allo stesso modo per l’uso dei simboli e degli slogan. Finché queste persone non avranno compreso che tutto ciò costituisce una barriera tale da impedire l’induzione a riflessioni alternative, il futuro della conoscenza sarà appeso al filo delle emozioni e al rifiuto della ragione. Si tratta delle passioni che scatenano la paura e la rabbia verso un altro da sé visto come realtà nemica e sostanzialmente incomprensibile. Allora, alla domanda su cosa stia davvero accadendo attorno a noi, e perché accade in questo modo e non in un altro, gli schematismi ideologici introiettati entrano in campo con la loro falsa rassicurazione cognitiva.

Detto questo, e premesso che l’oggetto del presente lavoro dipende dalle modalità di approccio agli eventi del passato remoto e di quello prossimo, valendo per tutti il principio della continuità della memoria, dobbiamo evidenziare che il Diritto Internazionale, essendo un prodotto della Storia, per essere oggetto di giudizio e non di mera opinione (su questa differenza richiamiamo il nostro precedente lavoro edito da Dialoghi Mediterranei nel n. 65 intitolato “Brevi note su giudizio e opinione in margine alla guerra di Gaza”), dev’essere compreso all’interno del fenomeno stesso che chiamiamo col nome di “Storia”, senza prescindere dal fenomeno che l’ha preceduto, la “Pre-istoria”. Si tratta cioè del tempo nel quale l’individuo, singolo o in gruppo, vive seguendo le leggi di natura, in un continuum ciclico, nella lotta per la sopravvivenza quotidiana, dove il passato sta nella narrazione di miti originari che giustificano l’immodificabilità del mondo. Ci riferiamo a un tempo nel quale l’intelligenza umana osservando i fenomeni del mondo, li spiega attraverso il mito e credenze di forze soprannaturali immanenti (Patocki, 1975). E vedremo quanto questo concetto rilevi nella nostra discussione.

Tuttavia questa credenza esegetica nei miti fondativi della comunità umana è cosa ben diversa dal cercare di spiegarne il perché. E poiché questo tipo di spiegazione deve necessariamente passare attraverso una volontà di trasmissione della memoria dal passato al futuro, è solo con l’invenzione della scrittura che diventa possibile riflettere sul rapporto fra il tempo e gli eventi e sottrarre la conoscenza alla mera memoria. Questo perché la memoria, di per sé, non è una vera fonte di verità, essendo accesa dalle emozioni indotte assai più da quel che siamo (dominati dai miti, dalle credenze, dalle fedi, dalle superstizioni, dalle paure) che da quel che sappiamo. Infatti quel che sappiamo, per diventare oggetto di indagine, deve trovare uno spazio sul quale oggettivarsi, in mancanza del quale è impossibile avanzare alcuna problematicità interpretativa.

arendtQuando questo diventa possibile, dunque, la problematicità attiva l’esigenza di portare la riflessione sul passato verso il futuro, trasformando il Mito, da causa prima del sapere, nella radice del Logos, della Ragione, e apre la strada a una concezione politica della società umana. Infatti con la Ragione si innesca la ricerca di senso, inteso come ragione e direzione, e la Storia prende l’avvio nelle comunità che proteggono e danno senso alla vita dell’individuo, come singolo e come parte della comunità stessa, dove l’individuo si trova di fronte alle possibilità dell’insieme della vita e della vita come insieme.

Ed è qui che la vita non è più fine a sé stessa, ma si vive per qualcos’altro, nel reciproco riconoscimento di esseri pari e liberi (Arendt, 2017). Allora, in funzione di questo mutuo riconoscimento, viene alla luce, viene inventato il meccanismo di funzionamento della società, come prodotto della ragione, col compito di regolare le passioni, di fornire la griglia di funzionamento della forza che mette in relazione gli individui, ne determina le modalità della lotta e fornisce agli uomini un codice di condotta che imbriglia la forza bruta, il diritto naturale darwiniano del più forte, tipico della preistoria.

Nasce cioè il Diritto. Ma il Diritto non pone termine alle passioni, che sono consustanziali alla natura umana. Anzi, fornisce a chi sa meglio degli altri attivarle e indirizzarle, lo strumento necessario e utile per attuare un proprio progetto non realizzabile individualmente, perché il Diritto, prodotto della ragione, rende ragionevole, cioè razionalmente comprensibile, la modalità di costruzione della Società attraverso la condivisione o l’imposizione. Cioè rende comprensibile il senso, poiché ogni progetto parte da una ricerca di senso da cui deriva il significato dell’agire umano (Heidegger, 2005). Il punto, tuttavia, come abbiamo reiteratamente sottolineato, attiene all’azione di questa comprensione, che può essere attivata dalla ragione pensante, o da un pensiero pensato da chi vuole determinare il pensiero del soggetto, inteso come “subiectus”.

E c’è un motivo: se chi esercita il potere lo esercita dirigendo l’azione umana verso un fine, cioè con uno scopo, lo fa attribuendo un senso alla sua azione determinato dal valore che gli attribuisce. Allora sulla scorta di quel valore i soggetti ricavano dall’entità (ente) attraverso la quale ottengono il riconoscimento reciproco, cioè il Diritto, la capacità di comprendere e di attribuire significato alla loro azione. Il Diritto, quindi, diventa un valore che, pur mutando nel tempo, è lo strumento cognitivo che fornisce la sua giustificazione all’azione, purché venga esercitata nel perimetro del Diritto.

9788804734963_0_536_0_75E così diventa evidente che il Diritto, inventato nelle comunità storiche, pur nascendo dal Potere che se ne serve, lo vincola alle sue regole; circostanza del tutto rilevante, come vedremo, per comprendere la natura del Diritto Internazionale come valore riconosciuto, rispetto al quale importa la natura di quel Potere. Vogliamo dire che quel Potere, esercitato sulla comunità che lo ha espresso, proiettato verso uno scopo, è il potere di una soggettività dominante, che, in modo semplificato, possiamo identificare nel Potere dello Stato in tutte le sue molteplici forme.

Ma è evidente che quella soggettività, esistendo nel mondo fenomenico, ha una sua fisicità che appare nei confini che la delimitano. Ma i confini altro non sono che entità plurivalenti, che attengono all’autoriconoscimento identitario di plurime soggettività, che, per semplicità di esposizione, chiameremo Stati. In nuce, così, possiamo vedere il primo embrione concettuale del Diritto Internazionale.

Ora, come abbiamo detto, non è questo il luogo dove analizzare le dinamiche della Storia umana, che tuttavia va intesa come una successione di eventi governati dai progetti di chi li guidava, visti all’interno dei confini di ogni soggettività statuale, regolata dal diritto interno, e sulla rete delle soggettività statuali che necessariamente entrano in relazioni reciproche. Relazioni che possono essere pacifiche, come quelle tra i membri di una singola comunità (o Società umana, o Stato), o conflittuali.

Si noti, tuttavia, come l’esercizio del dominio politico all’interno di ogni comunità, condotto dentro una prospettiva finalistica, non avvenga in una condizione di stabile normalità pacifica, solo eccezionalmente rotta dalla conflittualità dei suoi membri, bensì attraverso un’alternanza e/o concomitanza di rapporti, relazioni, micro progetti individuali o di gruppo basati sulla cooperazione e/o sul conflitto regolato dal diritto che, impedendo la rottura di senso, giustifica la ragione finalistica del progetto politico. Il che non significa giustizia, né equità, né felicità, ma una sorta di pace gravida di violenza tenuta sotto controllo da una forza a cui si riconosce il potere coercitivo.

bobbioQualcosa di analogo accade nella relazione tra soggetti statuali, dove, quando sono le ragioni del conflitto a prevalere, sulla scena del mondo entra la guerra, fenomeno che fa del mondo un luogo ostile, nel quale l’individuo si muove, mosso dalle emozioni, dalle paure e dalla ragione, e che ha bisogno di razionalizzarlo per far sopravvivere il suo spazio cognitivo, per ricondurlo a ragioni che gli permettano di condannarlo o di accettarlo (Bobbio, 1964).

Infatti, se guardiamo a volo d’angelo tutta la Storia umana, quanto meno quella occidentale fin dalla stessa guerra di Troia, rilevando la differenza tra il senso del divenire storico come prodotto dell’azione, e il senso della sua narrazione come prodotto della comprensione delle formazioni logiche che rimandano a quel divenire, vediamo nella narrazione della lotta la ricerca di senso della condotta tra i soggetti in conflitto, sia sotto il profilo della politica, sia sotto quello della metafisica, sia sotto quello religioso, sia sotto quello scientifico. Si tratta di un divenire della Storia che riflette continuamente su se stessa e cerca continue e nuove soluzioni.

Ora, premesso che la filosofia si è posta il problema di giustificare la realtà del mondo ostile e pericoloso in cui l’essere umano vive, o cercando di modificarla, quanto meno in termini di idealità, o dando un senso alla guerra, con le teorie della guerra giusta, di quella etica, di quella santa, o cercando di fare in modo che la guerra non sia più possibile con le teorie del pacifismo, tutti argomenti che non possiamo toccare in questa sede, rimandando il lettore alle molteplicità autorali che attraversano i secoli, riteniamo di ridurre la portata di queste poche pagine su due soli piani interpretativi, affinché, dopo aver posto l’accento sulle parole “emozione, passione, e ragione”, si accentui la riflessione con le quali si è aperto questo breve lavoro. Vogliamo dire che parlare del Diritto Internazionale come categoria concettuale, non nei suoi aspetti normativi, significa fronteggiare problematiche temporalmente vicine, delle quali è possibile raccogliere testimonianze, immagini, e attingere anche alla nostra memoria e alle tecniche più diffuse.

Stiamo dunque parlando della Storia contemporanea, della quale permane, in gran parte delle collettività, la convinzione che debba esistere un’interpretazione autentica, nascosta in qualche tesoreria ideologica. Si chiamino queste visioni quella schmittiana del “nemico amico”, per cui l’alterità dell’estraneo è una condizione data dalla realtà dove, se l’altro rappresenta una minaccia alla propria forma di esistenza, scatta la guerra, con la possibilità reale dell’uccisione fisica dell’altro (per cui rimandiamo allo splendido saggio di Geminello Preterossi, “Diritto e ostilità in Carl Schmitt” su Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XXXVII, 2009), o della dinamica del rapporto dello Stato con l’estero vicino, discettata nella teoria internazionalistica della Federazione russa fin dagli anni 90, elaborata dal ministro degli esteri russo Andrey Kozyrev, che giustificò così la guerra contro la Moldavia nel 92 e la secessione della Tansnistria, le due guerre cecene, la guerra del Kosovo, la guerra della Georgia nel 2008 con la secessione dell’Abkazia, l’annessione della Crimea nel 2014 e oggi la guerra contro l’Ucraina) si tratti della lotta tra l’elemento germanico e quello slavo, o della lettura marxista dei conflitti imperialistici prodotti dall’ultimo stadio del capitalismo o del capitalismo tout court, o che si tratti infine della lettura della Storia alla luce delle dottrine neoliberiste, come vedremo tra poco, la guerra è comunque un fenomeno all’interno del quale il Diritto Internazionale opera attivamente, o non esiste affatto. Ma in entrambi i casi è concettualmente sbagliata sia ogni forma di accusa di ineffettività, sia ogni insinuazione tesa a definirlo come lo strumento ipocrita della falsa coscienza di chi se ne proclama difensore per perseguire, travestito da innocente, i propri biechi obiettivi di dominio.

sassonDetto questo, e premettendo in estrema sintesi che il ‘900 non ha solo espresso una congerie di riflessioni sul suo divenire storico, ma è stato capace di intervenire sulla propria Storia in modo coerente, diremmo sciaguratamente coerente con le teorie astratte che hanno consentito alle sue élite di trascinare nel gorgo interi popoli, il ‘900 ha visto comunque il trionfo finale (?) del capitalismo, per dirla con le parole di Donald Sasson nel suo monumentale Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo.

 Pertanto, non potendo certo in questa sede descrivere e indagare la Storia del XX secolo, vogliamo solo richiamare alla memoria tre eventi, e i periodi che li contraddistinguono, ritenendoli particolarmente significativi per quanto di interesse, essendo il loro significato, assai più della loro materialità, a incidere nella nostra coscienza, spingendoci a formulare opinioni e giudizi e a porci di fronte al quesito: cos’è, cosa significa e a cosa serve il Diritto Internazionale.

Ebbene, dobbiamo evidenziare come quel trionfo, dal 1945 per circa 30 anni, fosse stato, almeno in Occidente, il mondo del welfare e dello Stato come soggetto attivo nel governo delle nazioni. Ora, pur consapevoli dell’eccessività di questa semplificazione – ma qui non possiamo attraversare quel trentennio in modo analitico – possiamo tuttavia ricordare come la guerra non gliene fosse stata estranea, bensì vi agisse secondo le dinamiche e le modalità dei tempi moderni, sul piano della legittimità (il cd. jus belli, cioè la sua causa,) e della legalità (il c.d. jus ad bellum, cioè le sue modalità, lesive o no del diritto internazionale).

Ebbene, quel trentennio, che vide l’Occidente attraversato da una serie di fasi del liberalismo egualitario, che l’Europa conobbe nella sua declinazione socialdemocratica, dopo aver cercato di imprimere alla Società il marchio dello Stato imprenditore, dello Stato agente sulle dinamiche sociali, si rovesciò, a un dato momento, nella sua antitesi. Ma quello Stato, prima di rovesciarsi nel suo contrario, era il soggetto che agiva anche sul piano internazionale entrando in relazione pacifica o conflittuale con gli altri Stati.

Ci riferiamo pertanto a un primo periodo che va dal 1979 (elezione di Margareth Thatcher a primo ministro del Regno Unito) dal 1982 (elezione di Donald Reagan a presidente USA), fino al 1989, che vede l’inizio della dissoluzione dell’impero sovietico. A un secondo periodo che va dal 1989 al 2001 e a un terzo che vede l’irruzione della guerra in Europa e dall’ottobre 2023 la guerra di Gaza e che ignoriamo ancora dove ci porterà.

Ora, come abbiamo anticipato, gli esseri umani sono spesso mossi dalle passioni assai più che dalla ragione, e l’abilità di un leader consiste nella capacità di orientare le emozioni pubbliche, soprattutto nei momenti di crisi. E la crisi che attraversò l’Occidente nella prima metà degli anni 70 del ‘900 (guerra del Kippur, crisi del petrolio e del dollaro inflazionato dalla guerra del Vietnam) fu l’occasione perfetta che fece accettare alle collettività la necessità di un abile leader come una risorsa «senza percepire come un problema la mancanza di una riflessione accurata e condivisa sui modi e sulle forme in cui si materializzava» (Ginsborg-Labate, 2016: 30). E poiché «le passioni sono culturali, relazionali e storicamente fondate, nessuno di noi le percepisce semplicemente o ne è costretto per natura. Le passioni agiscono e producono le nostre azioni, contribuiscono ai processi di riconoscimento e di attribuzione di senso» (ibidem).

La Storia, ripetiamo, è caratterizzata dalla scoperta che la vita, invece di essere un continuum nella sua relazione con la natura e la forza che la domina, consiste in una ricerca di senso, attraverso il suo mutamento che incide nella vita privata e in quella sociale, e nel corso di tutta la Storia, questa azione diretta al mutamento di senso, pone la vita individuale all’interno della Società che l’individuo, come parte del tutto o parte di un gruppo, tende a modificare cercando appunto un senso nuovo.

Questo è quanto accadde tra il 1979, 1982 e 1989, quando la rivoluzione neoliberale negò tutto questo. Margareth Thatcher, con l’assunto che la Società non esiste (Serughetti, 2024) e Reagan, con l’assunto che il problema non fosse “con” lo Stato, ma che il vero problema “fosse” lo Stato, spinsero le collettività a credere che esistessero solo gli individui inseriti nelle loro famiglie e uniti solo ed esclusivamente nella solidarietà reciproca limitata a tale cerchia, capovolsero tutta la Storia, chiamando in causa quella che riteniamo una nuova preistoria dominata dagli istinti darwiniani del diritto naturale, cioè della Forza dell’individuo che non incontra altro limite se non un’altra Forza che le si contrappone.

9788858152553E tutto ciò ebbe riflessi diretti nel rapporto tra l’individuo e la violenza. Cioè si modificarono i parametri sulla scorta dei quali il Potere aveva svolto il suo compito fino a quel momento. Poiché l’assunto thatcheriano per cui la società non esiste, non esistono le classi sociali, non esistono i gruppi di interesse, non esistono le aggregazioni solidali, e lo Stato sociale esistito fino al quel momento era solo un problema dannoso da rimuovere, esistendo solo l’individuo imprenditore di sé stesso, in lotta con la pluralità di tutti gli altri, ebbe inizio il cammino trionfale dell’iperglobalizzazione.

E come tutto ciò si incontrasse con l’evento capitale del 1989, cioè con la fine della Guerra Fredda, ha a che vedere con le attuali problematiche che determinano i giudizi frettolosi sul Diritto Internazionale. Infatti da quel momento la proliferazione del liberismo su scala planetaria e l’assunto di Fukujama sulla “fine della Storia” si sposò con il concetto thatcheriano che la Società non esiste. (Fukujama, 1992). Si trattò quindi, ripetiamo, di una vera rivoluzione, poiché pretese di capovolgere la Storia trasformandola, come abbiamo detto, in una nuova Pre-istoria dominata dagli istinti dell’individuo e dal diritto naturale.

E sebbene tutto ciò avesse avuto riflessi diretti nel rapporto tra l’individuo e la violenza, condusse Fukujama (e moltissimi commentatori con lui) a sostenere la fine della Storia intesa come sogno o come realtà dominata da un Potere politico che agisce sulla vita degli individui attraverso una progettualità che usa il diritto come strumento attuativo. Questo avvenne poiché tutto il mondo era ormai imbrigliato nella logica economicistica del neoliberismo, nel mito della mano invisibile del Mercato (e si noti come qui il Mito agisca come il Mito nella preistoria, giustificatore di un mondo immutabile nei suoi cicli), quindi nella fine dello Stato come potere programmatico del futuro e nella superfluità di alcuna lotta tra gli Stati in via di dissoluzione.

Ed è questa ideologia circa la superfluità degli Stati ad aver contribuito in modo determinante a rafforzare l’equivoco sulla funzione del Diritto Internazionale. Tuttavia, poiché residuavano resistenze, l’ultima funzione dello Stato restando quella di esercitare il suo potere per garantire la prosecuzione della Preistoria, fu quella di una mera funzione repressiva contro le ultime forze ostili al dominio del mercato.

978880621862graSi pensi al G8 del 2001 e a cosa accadde a Genova, su cui chi scrive ebbe modo di giudicare nella sua veste di giudice, e di scriverne in Gridavano e piangevano (Einaudi, 2014). Vogliamo dire che il potere politico neoliberista, mentre svuotava sé stesso del potere di salvaguardare i diritti dei cittadini in quanto gruppi sociali più deboli, rafforzava se stesso dal punto di vista repressivo. Così come si vide, ad esempio, nel Regno Unito al tempo degli scioperi dei minatori britannici nel 1984-85, repressi brutalmente dal governo di Margareth Thatcher.

D’altronde questo potere si era già ben addestrato in Cile nel 1973 col beneplacito di Friedrich E. Von Hayek (2011), uno dei padri fondatori del neoliberismo, consigliere economico di Augusto Pinochet, che affermò di preferire una dittatura liberale (cioè liberista) a una democrazia illiberale (cioè non liberista), per non parlare del famoso Plan Condor che istituì le feroci dittature degli anni 70 e 80 in tutta l’America latina. Ma questa è la storia della presa del potere del neoliberismo, che non possiamo fare in questa sede, per quanto riteniamo come a questo punto la memoria di ciascuno vada al tempo del cosiddetto welfare, ai cosiddetti trenta gloriosi, al loro tramonto, alle narrazioni più o meno pelose sulle cause di questo tramonto, attraverso la testimonianza di chi in quei trenta ha fatto la sua esperienza esistenziale.

In verità accadde ed era accaduto ben altro, per cui è necessario fare un passo indietro. Le due immani tragedie del ‘900 avevano condotto, insieme col trionfo del capitalismo, a inventare alcuni strumenti che rendessero operativi sia lo jus belli, sia lo jus ad bellum, edificando grandi istituzioni internazionali come l’ONU (1942), la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) del 1945, la CGE (la Corte europea di Giustizia) del 1957, la CEDU (La Corte Europea dei Diritti dell’uomo del 1958, e a codificare princìpi come la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, del 1948, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) del 1950, oltre a moltissimi altre convenzioni, da quelle di Ginevra sul diritto di guerra, a quelle del mare, a quelle sui diritti dei minori a quelle del lavoro, a quelle contro la tortura (non è questa la sede per elencarle tutte).

Ebbene, questi fatti giuridici recano con sé un implicito nesso analogico col più evidente fatto giuridico che tutti toccano quotidianamente con mano, cioè il diritto interno degli Stati, il che ha causato e continua a causare un colossale equivoco. Pertanto è ancora opportuno ricordare che quando la Storia fa il suo ingresso nel mondo e inventa il Diritto, questa invenzione incide sul dominio del Diritto Naturale, che è quello della lotta, che vede il trionfo del più forte sul più debole, del “Vae Victis” di Brenno. Evento, questo, interessante su più profili.

9788849830842_10e0457_von_hayek_piatto_hrPremesso, quindi, che prima dell’invenzione del Diritto come regolatore del Potere l’individuo era in balia di ciò che si esprimeva nel dominio del diritto naturale (il Darwinismo in tutte le sue forme), e che quindi il Diritto ebbe la funzione di sottrarre l’individuo alla paura di quel dominio, entrò in campo un’altra paura: la paura della Legge, ed è questa paura che gioca il suo ruolo nell’equivoco.

Ecco, su questo punto, semplificando al massimo, l’aforisma rooseveltiano, pronunciato dal Presidente degli Stati Uniti mentre agivano sul mondo spaventose forze distruttive, di un progetto politico fautore delle 4 libertà, di espressione, religiosa, dal bisogno e dalla paura, mise le basi di un ideale costituzionale col progetto di conciliare il diritto naturale con la Costituzione (si noti qui la modalità ontologica del concetto di ideale), cioè di un terreno dove l’individuo opera in conflitto con altri individui (tipico del mercato liberalizzato dal neoliberismo) mentre il diritto positivo sottrae l’individuo alla logica darwiniana del diritto naturale.

Preso atto che su tale questione esiste un’enorme quantità di analisi, discussioni, tesi di filosofi, giuristi, storici, uomini politici, quel che preme evidenziare è come questa “Paura della Legge” intesa come potere del diritto positivo, riposi sull’assunto di un potere Coercitivo, Sanzionatorio nei confronti di chi viola quel diritto. Ne consegue che il diritto attiene al legame tra la massa dei cittadini, come individui o come gruppi, e la Costituzione, o tra le masse e il capo riconosciuto, dentro una dimensione che vide agire la libertà politica e le libertà rooseveltiane, e poi tutte le libertà elaborate e declinate nelle Costituzioni liberali del Novecento, nonché tutto quello che ognuno di noi conosce e ha introiettato in quanto cittadini di un mondo regolato dalla democrazia liberale. Ma ciò vale per il diritto statuale.

Detto questo, però, con la fine della Seconda Guerra mondiale, nata l’idea di un Diritto Internazionale analogo a quello interno, il blocco occidentale si percepì coeso e regolato da un unico senso storico, quello del trionfo delle libertà succitate. Allora le Istituzioni internazionali universalizzarono l’idea che la Storia avesse imboccato la strada della pace e della giustizia.

Ma, dopo gli eventi del decennio 79-89, quando l’URSS collassò cessando di costituire un’antitesi reale al cosiddetto mondo libero, quell’idea si trasformò nell’ideologia che fosse questo e solo questo l’unico modello morale destinato a dominare il mondo, e la nascita della CPI, la Corte Penale Internazionale del 2002 ne fu, a nostro parere un frutto avvelenato.

Infatti, se, da un lato, la prevalenza di una forza egemone, che ha usato e usa questi principi e queste istituzioni per legittimare se stessa, all’interno di un mondo articolato sul consenso e sull’informazione è spesso causa di distopia nel valutarne la reale portata (sulla differenza tra la forza e la portata delle parole, soprattutto con le due guerre in corso che ci stanno più a cuore, richiamiamo il nostro lavoro già citato sul n. 65 di Dialoghi Mediterranei), tanto da indurre molti commentatori a enfatizzare l’equivoco ipocrita della giustizia del più forte sul più debole, dall’altra questa illusione, di un mondo dominato dal diritto naturale darwiniano della lotta di ciascuno per il proprio successo personale in un’arena dove domina una forza metafisica, il Dio Mercato protetto dal potere dello Stato che ne garantisce il funzionamento dentro un’idea (ideologia?) universalistica di progressiva e ininterrotta crescita del benessere collettivo, dall’altro l’illusione (e che si tratti di un’illusione lo dimostra l’irruzione della guerra in Europa) che questa nuova dimensione giuridica del mondo consenta il trionfo di una sorta di Katechon, cioè di una forza che trattiene, cioè di un diritto sovranazionale che blocchi il potere del diritto naturale, non tra gli individui, come abbiamo visto, ma tra i soggetti statuali, viene meno appunto con l’irruzione della guerra, che ricapovolge la Preistoria conclamata di nuovo nella dimensione della Storia, di cui i fatti conosciuti come 9/11 sono il prodromo.

fukuiamaPertanto, alla luce di quanto sappiamo (non crediamo!) sulla guerra in Ucraina, cioè sulla nuova guerra europea, sono indispensabili alcune osservazioni. La prima sul fatto che, a partire dal 2001, sia la guerra in Afganistan, sia la guerra irachena, sia le guerre nel Medio Oriente, in Siria, in Libano, contro l’Isis, per tacere di molte altre, hanno rivelato che il decennio nel quale l’Occidente aveva presuntuosamente creduto nella “Fine della Storia”, la diffusione planetaria del liberismo globalizzatore, non solo non aveva introdotto una condizione universale di pace condivisa, elidendo dal mondo la Forza che scatena la guerra, ma soprattutto elidendone le cause e le direzioni, non solo non aveva garantito una supremazia della Forza egemone che si pretendeva unificante attraverso il dominio di un Diritto sovranazionale così pervasivo da garantire il rispetto delle conquiste di civiltà del liberalismo (quale ultimo residuo del progetto storico del liberalismo egualitario), ma aveva rivelato che la geopolitica era l’energia che muoveva la Storia secondo gli impulsi suoi propri, e che quindi quell’idea metafisica di una nuova preistoria era fallace.

Ne consegue la necessità di chiarire che non devono farsi confusioni tra il concetto di Geopolitica e quello del Diritto Internazionale, sul quale si sono spese molte parole e che, a causa di una serie di equivoci sulla sua natura, che ha comportato la polarizzazione delle opinioni, ancora una volta espresse in forma di giudizi colonizzati dalle ideologie, e per questo inesatte e quindi farlocche, perché giocano sull’equivoco a cui abbiamo accennato sopra.

Infatti, mentre il Diritto Interno dà un senso alla vita, poiché la Comunità esiste e si proietta nel futuro, con un progetto di convivenza pacifica regolata dal Diritto (nell’accezione sopra indicata, ma comunque tesa a garantire la sopravvivenza fisica degli individui), il Diritto Internazionale non ha questo potere, soprattutto quando si pone nei confronti della guerra, poiché in questo frangente il senso dell’azione delle soggettività in conflitto, cioè degli Stati, sta all’interno di un senso di morte, inteso come norme che pongono dei confini di principio nel dare la morte. Ed è ovvio che vedere nel Diritto Internazionale un simile senso, significherebbe, individualmente, offrirsi a essere parte di una cosa mostruosa, alla quale non possiamo attribuire alcun valore condiviso (Patocka,1975: 140). Ne consegue che il Diritto Internazionale, o non può esistere, o, se esiste, persegue altre finalità.

9788806188788_92_1000_0_75Ma non solo, e sul punto è utile richiamare le parole di Brenno, quando intima ai Romani di non protestare dopo il sacco di Roma, gridando Vae Victis, che hanno un duplice significato e ci illuminano sul concetto di Diritto Internazionale, come abbiamo anticipato, poiché solo cogliendolo è possibile chiarire cosa debba intendersi per Diritto Internazionale, e vederne l’azione.

Quindi, in primo luogo, per quanto sembri richiamare un fatto probabilmente leggendario, nella vicenda di Brenno si mostra l’esito di una guerra vinta da Brenno sui Romani. E si tratta di una guerra tra due soggetti che si riconoscono come tali, per quanto nemici, dove i due, dopo essersi scannati, fermano il combattimento e agiscono sul piano del diritto: Roma pagherà il suo riscatto con l’oro e Brenno se ne andrà col prezzo pagato. Quindi il Diritto entra in gioco per regolare una contesa.

Ma il Diritto fa anche qualcos’altro: entra nel terreno dove opera il diritto naturale e gli sottrae la sua regola del gioco. E significa pure che le due parti accettano l’esistenza e la valenza del diritto, che non è diritto interno, bensì diritto che regola il rapporto tra due soggetti in un certo qual senso analoghi a due Stati. L’esito dell’accordo, violato da Brenno, e le sue parole Vae Victis significano inoltre che questa forma del Diritto Internazionale non è coercitiva, è priva di sanzione, poiché non esiste una Forza Terza che la faccia rispettare.  Esattamente come oggi, nella maggioranza dei casi, e soprattutto nelle due guerre che ci occupano e preoccupano.

Ma significa anche un’altra cosa, che discende dal perché di quell’accordo poi violato, e che spiega a cosa serve il Diritto Internazionale. Perché il Diritto è Internazionale in quanto e nei limiti in cui è utile che le parti lo riconoscano. E lo riconoscono finché il suo rispetto non intacca gli interessi vitali di uno o di entrambi i contendenti. Si tratta cioè del principio del mutuo riconoscimento, ed è solo questo che ne giustifica e mostra la ragione della sua accettazione, che comporta un vantaggio per entrambe le parti: per Brenno papparsi l’oro senza combattere ulteriormente, per Roma sfuggire al rischio della sua distruzione e così liberarsi dall’invasione.

Da ciò discendono alcuni corollari. Che fare delle Istituzioni Internazionali che servono all’attuazione del rispetto del Diritto? Perché solo alcuni Stati le riconoscono e altri no? In che relazione si pongono questi mancati riconoscimenti con la sottoscrizione dei principi e l’istituzionalizzazione di figure come l’ONU, ad esempio?

Partiamo dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, la cui eziologia affonda nei secoli. Affermarne la natura universalistica significa riconoscerne la valenza morale e metafisica, e inserirli tra i principi meritevoli di tutela significa affermarne la concretezza, funzionale al progetto storico connesso alla loro introduzione, e mentre la valenza del Diritto Internazionale significa attribuire un contenuto concreto al Diritto Internazionale il cui riconoscimento da parte dei Soggetti internazionali vale in quanto questi soggetti attribuiscano a tale riconoscimento un’utilità che non necessariamente coincide con l’effettività e la portata di tale dichiarazione.

Ma dobbiamo ancora sottolineare il fatto che alcuni soggetti (si noti come siano soprattutto quelli più impegnati a conquistare o a mantenere l’egemonia) non aderiscano alle Istituzioni delegate a far rispettare questi principi. Ebbene, ciò significa che la geopolitica prevale quando lo ritiene necessario, ma non significa che il Diritto Internazionale sia inutile, essendo uno strumento necessario a limitare i danni di un confronto tra i soggetti lasciato al dominio del diritto naturale.

Infatti, si pensi alla guerra tra Russia e Ucraina, e al motivo per cui la Russia si ostina a chiamarla “Operazione militare speciale” e non Guerra. Che cosa significa? Significa che la denominazione Guerra ha una valenza giuridica, e che ce l’ha soprattutto all’interno dei confini della Russia, dove l’egemonia del Capo ne ha bisogno, e tale valenza giuridica, come tale, ha riflessi anche sul mondo esterno al teatro di guerra, e questi riflessi significano molto in termini di autorappresentazione e di costruzione e/o imposizione del consenso, senza il quale neanche la più spietata delle dittature può sopravvivere.

Così, per quanto materialmente la guerra russo/ucraina sia crudele e spietata, la forma del Diritto internazionale viene rispettata, all’interno negando che sia una guerra, all’esterno attraverso il riconoscimento mutuo di alcune regole di guerra, come lo scambio di prigionieri o ribaltando l’accusa reciproca di averle violate bombardando i civili.

Analogamente, nella guerra di Gaza, l’accordo sulle tregue e sul rilascio di prigionieri contro ostaggi, si muove nel perimetro del diritto internazionale, non coercitivo e non sanzionato. Tuttavia, il fatto che Israele abbia risposto positivamente alla citazione davanti alla CGI, dove i principi del Diritto Internazionale e dei Diritti umani sono invocati e riaffermati anche nei rapporti obliqui con Hamas, che nega (si noti la ragione di questo fatto) di averli lesi, e quindi implicitamente ne riconosce l’esistenza e il valore, conferma la ragione dell’esistenza del Diritto Internazionale ancorché non coercitivo e privo di vera efficacia.

dattorreE ancora, essendo notizie di queste ore, le modalità dello scontro missilistico fra la Repubblica islamica dell’Iran e Israele, vedono entrambi i Paesi, nonostante neghino vicendevolmente la reciproca legittimità (addirittura a Israele viene negato il diritto di esistere), invocare la legittimità del proprio agire proprio nei termini del Diritto Internazionale, quanto alla proporzionalità delle azioni e dei danni inflitti l’un l’altro.

Sul punto, allora, è utile rilevare lo scarso senso ideale della polemica innescata dai detrattori del Diritto Internazionale contro i fautori della legittimità e utilità della CGI, sia perché significa mostrare i due aspetti della questione sulla differenza tra giudizio e opinione, sia perché i detrattori finiscono per essere i fautori di un trionfo del diritto naturale, cioè del diritto della giungla. In merito a quanto esposto ora, illuminante è lo splendido volume di Alfredo D’Attorre, Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel nuovo conflitto geopolitico (Laterza 2023).

Diverso discorso, invece, è necessario fare sulla funzione della CPI, istituita nel 2002, ancora al tempo dell’illusione sulla fine della Storia, sull’estinzione degli Stati come soggetti in eventuale conflitto, talché la CPI agiva come il soggetto terzo con potere repressivo sui soggetti statuali residui che si ponevano al di fuori del regime universale istituito dalla rivoluzione neoliberista, CPI che si rivelò essere sostanzialmente il braccio secolare degli Stati dominanti. E quindi, ancora una volta, innescando l’equivoco pericoloso a cui abbiamo accennato sopra.

Ancora lungo e pieno di insidie si farebbe il discorso, che rimettiamo a un ulteriore lavoro, questa volta ben più articolato sul senso e sul significato del giudizio storico, nella speranza che questa attuale fatica abbia contribuito a dissipare alcuni dubbi interpretativi sul senso e sul significato del Diritto Internazionale.

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani Milano 2017
N. Bobbio, Lezioni sulla guerra e sulla pace, Laterza Bari Roma 1964 rist. 2024
A. D’Attorre, Metamorfosi della globalizzazione. Il ruolo del diritto nel nuovo conflitto geopolitico, Laterza Bari Roma 2023
F. Fukujama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Utet Torino 2000
H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani Milano 2000
P. Ginsborg, S. Labate, Passioni e Politica, Einaudi Torino 2016
F. E. von Hayek, La via della schiavitù, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011
M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi Milano 2005
O. Ombrosi, Il crepuscolo della ragione, Giuntina Firenze 2012
J. Patocki, Saggi eretici sulla filosofia della Storia, Einaudi Torino 1975
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D. Sasson, Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo Garzanti Milano 2022.
G. Serughetti, La Società esiste, Laterza Bari Roma  2024
R. Settembre, Gridavano e piangevano, Einaudi Torino 2014
R. Settembre, Brevi note su giudizio e opinioni in margine alla guerra di Gaza, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 65, gennaio 2024. 
L. Wittengstein, Libro blu e libro marrone, Einaudi Torino 2000.  
M. Wolf, Lettore vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Vita e pensiero Milano 2018.

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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.

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