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Il disincanto gnostico di Camus

Albert Camus

Albert Camus

di Alberto Giovanni Biuso 

Stranieri al mondo, gettati nel mondo 

Albert Camus [1] è uno degli gnostici più sottili ma anche più evidenti del XX secolo. A partire dal titolo del suo libro fondamentale, lo Straniero, ogni idea, pagina, affermazione programmatica, diventa una metafora del sentimento di profonda estraneità e distanza che lo gnostico nutre verso un mondo il quale «tel qu’il est fait, n’est pas supportable» (Caligula, CM: 26). Un mondo in cui «les hommes meurent et ils ne sont pas heureux» (Caligula, CM: 27). Nel quale la colpa non consiste in una qualche azione o comportamento ma nel solo fatto di esistere: «Il n’est pas nécessaire d’avoir fait quelque chose pour mourir» (Caligula, CM: 58). Mondo abitato da un’entità «misérable et lâche» come quella umana (Caligula, CM: 97), mondo nel quale l’unica pace e libertà possibile è fatta di solitudine e di indifferenza. Questo mondo è infatti «sans importance et qui le reconnait conquiert sa liberté» (Caligula, CM: 38), tanto che l’unica sensata preghiera consiste nel chiedere di diventare «semblable à la pierre. C’est le bonheur qu’il prende pour lui, c’est le seul vrai bonheur» (Le malentendu, CM: 243).

Nel testo più emblematico dello gnosticismo di Camus – L’étranger appunto – un sole accecante intesse lo spazio, il cielo, i corpi. Un sole disumano e insostenibile. È anche a causa sua che Meursault – un impiegato che vive e lavora nell’Algeria francese, che si sente ed è come tutti gli altri – si ritrova quasi per caso a uccidere un arabo che lui nemmeno conosce e che era in lite con un suo vicino di casa. «Il y avait déjà deux heures que la journée n’avançait plus, deux heures qu’elle avait jeté l’ancre dans un océan de métal bouillant […] J’ai pensé que je n’avais qu’un demi-tour à faire et ce serait fini. Mais toute une plage vibrante de soleil se pressait derrière moi» (Già da due ore il giorno si era fermato, da due ore aveva gettato l’ancora in un oceano di metallo bollente […] Ho pensato che avessi da fare solo mezzo giro su me stesso e sarebbe finita. Ma tutta una spiaggia vibrante di sole premeva dietro di me; E: 91), spingendolo a non fermarsi, ad avanzare, a suscitare la reazione spaventata dell’uomo che estrae un coltello luccicante al sole. «C’est alors que tout a vacillé. […] Il m’a semblé que le ciel s’ouvrait sur toute son étendue pour laisser pleuvoir du feu. […] J’ai secoué la sueur et le soleil. J’ai compris que j’avais détruit l’équilibre du jour, le silence exceptionnel d’une plage où j’avais été heureux» (È stato allora che tutto ha vacillato. […] Mi è sembrato che il cielo s’aprisse in tutta la sua estensione per lasciar piovere del fuoco. […] Ho scosso il sudore e il sole. Compresi che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, l’eccezionale silenzio di una spiaggia dove ero stato felice; E: 92-93).

Al presidente del tribunale che gli chiede se ha qualcosa da dire dopo la feroce requisitoria con la quale il pubblico ministero ha chiesto la sua condanna a morte, Meursault risponde che lui non aveva alcuna intenzione di uccidere l’arabo e che questo è accaduto «à cause du soleil» (E: 156). Ma un’altra corte lo aveva già osservato e giudicato. Una corte composta dai compagni d’ospizio della madre, con i quali aveva trascorso la notte di veglia funebre senza versare una lacrima: «j’ai eu un moment l’impression ridicule qu’ils étaient là pour me juger» (ho avuto per un momento la ridicola sensazione che fossero là per giudicarmi; E: 19).

lo-stranieroQuest’uomo solitario ed estraneo a ogni evento viene giudicato e condannato non per aver ucciso un altro uomo a revolverate ma per non aver pianto al funerale della madre, per non aver pregato sulla sua tomba, per essersi fidanzato il giorno successivo, per essere andato con la ragazza prima al mare e poi al cinema a vedere un film comico e aver infine fatto l’amore con lei.

Viene condannato per essere stato vivo, per avere vissuto e per volere ancora rivivere «cette vie absurde que j’avais menée» (E: 181). È anche per questo che non aveva pianto davanti alla madre morta, poiché «si près de la mort, maman devait s’y sentir libérée et prêtre à tout revivre. Personne, personne n’avait le droit de pleurer sur elle. Et moi aussi, je me suis senti prêt à tout revivre» (per quanto vicina alla morte, maman doveva essersi sentita liberata e pronta a rivivere ogni cosa. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch’io mi sentivo pronto a rivivere tutto; E: 183). Tale volontà di eterno ritorno merita la condanna, poiché «tout le monde sait que la vie ne vaut pas la peine d’être vécue» (tutti sanno che la vita non vale la pena d’essere vissuta; E: 171).

Una vita che anche nel protagonista di questo libro è fatta di abitudine – «on finissait par s’habituer à tout» (E: 118) –, è fatta di noia – «je n’avais rien à faire» (E: 71) –, è fatta di indifferenza – «cela m’était égal» risponde Meursault sia al capoufficio che gli propone una promozione a Parigi sia a Marie che gli chiede di sposarlo (E: 66 e 67) –, è fatta del bisogno d’ammazzare il tempo – «toute la question, encore une fois, était de tuer le temps» (E: 120). Una vita che però è intrisa anche di libertà anarchica, è intrisa di poesia – «par la porte ouverte entrait une odeur de nuit et de fleurs» dice da libero (E: 18); «des odeurs de nuit, de terre et de sel rafraîchissaient mes tempes. La merveilleuse paix de cet été endormi entrait en moi comme une marée» ripete ancora in carcere (odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La meravigliosa pace di questa lenta estate entrava in me come una marea; E: 183), una vita che è intrisa del sempre uguale della perfezione, tanto che qualunque cosa accada «il n’y avait rien de changé» (E: 39).

Una vita senza dio. L’ateismo di Camus è radicale, argomentato, compiuto. La morte di Dio è nelle sue pagine consumata sino in fondo e sino alla fine. Al pubblico ministero che durante un interrogatorio lo invita a chiedere il perdono di Dio brandendo un crocifisso d’argento, Meursault risponde di no e lo fa distrattamente, anche perché il caldo della stanza non gli aveva permesso di seguire con attenzione il ragionamento dell’inquirente. Al cappellano che vorrebbe redimerlo prima dell’esecuzione, risponde «qu’il me restait peu de temps. Je ne voulais pas le perdre avec Dieu» (mi restava poco tempo. Non volevo perderlo con Dio; E: 180).

Al di là della disperazione, della morte e del nulla, al di là dunque dei modi nei quali l’esistenza è gettata nel mondo, il monologo di Camus si consuma e si chiude con un grido di poesia, di rivolta, di tenerezza e di gioia, nel quale l’ultima parola – odio – disegna in modo geometrico che cosa la vita sia, che cosa la vita meriti. È uno dei finali più potenti che conosca: 

«Comme si cette grande colère m’avait purgé du mal, vidé d’espoir, devant cette nuite chargée de signes et d’étoiles, je m’ouvrais pour la première fois à la tendre indifférence du monde. De l’éprouver si pareil à moi, si fraternel enfin, j’ai senti que j’avais été heureux, et qui je l’étais encore. Pour que tout soit consommé, pour que je me sente moins seul, il me restait à souhaiter qu’il y ait beaucoup de spectateurs le jour de mon exécution et qu’ils m’accueillent avec des cris de haine».
(Come se questa grande ira mi avesse purificato dal male, svuotato di speranza, davanti a questa notte carica di segni e di stelle, per la prima volta mi aprivo alla tenera indifferenza del mondo. Percependolo così simile a me, così fraterno infine, sentivo che ero stato felice, e che ancora lo ero. Affinché tutto fosse compiuto, affinché mi sentissi meno solo, mi rimaneva da desiderare che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che essi mi accogliessero con delle grida di odio; E: 184) 

caligolaStranieri al potere 

Il disprezzo totale e profondo di Mersault verso chi lo condanna al patibolo diventa nell’imperatore Caligola il tessuto e la fonte stessa della vita e delle relazioni. La paranoia del potere, analiticamente descritta da Elias Canetti [2], si mostra in questo imperatore psicologo, artista, filosofo e criminale nella forma dell’esplicita ὕβρις indicata con precisione dal suo nemico Cherea: «Ce n’est pas la première fois que, chez nous, un homme dispose d’un pouvoir sans limites, mais c’est la première fois qu’il s’en sert sans limites, jusqu’à nier l’homme er le monde» (Caligula, CM: 51). Caligola comprende che il significato del potere è avere e dare delle «chances à l’impossible» (Caligula, CM: 36). La sua prima richiesta è ‘la luna’ ma ne seguono altre molto più ‘sensate’ e talmente praticabili da dare al suo regno la tonalità profonda di una morte insensata che può arrivare dappertutto.

Allo stesso modo mossa da ‘futili motivi’, velleitaria e implacabile è la morte che la madre e la figlia de Le malentendu danno ad alcuni ospiti che arrivano nel loro albergo. Sino a quando accade loro di dare la morte a chi non dovevano darla, proprio non dovevano. Le malentendu è anche una metafora inquietante e struggente dell’Europa che non sa più riconoscere e amare i propri figli, offrendo loro con stanca indifferenza la fine. «Cette Europe est si triste» (Le malentendu, CM: 168), è così cupa, rassegnata, pronta a immergersi nei gorghi della dissoluzione, in un tramonto senza luce.

«Alors du fond de la nuit amère» (Caligula, CM: 97) dagli abissi di un’amara notte emergono con limpida energia i tratti gnostici che fanno dire a Caligola che gli umani «sont privés de la connaissance et il leur manque un professeur qui sache ce dont il parle» (Caligula, CM: 27), tanto da fargli rivendicare come differenza e merito l’avere «simplement compris qu’il n’y a qu’une façon de s’égaler aux dieux : il suffit d’être aussi cruel qu’eux» (Caligula, CM: 94), essere come gli Arconti ciechi, indifferenti e appunto crudeli, che hanno dato vita a questo mondo, Arconti che sembrano emergere dal fondo dell’abisso nelle uniche parole che un vecchio servo, sino ad allora figura silenziosa e quasi meccanica, pronuncia nella chiusa di Malentendu, parole che dicono implacabilmente «Non!» alla disperata richiesta di aiuto di una donna privata di tutto, di tutto. Un diniego pronunciato con voce chiara e decisa, «d’une voix nette et ferme» (Le malentendu, CM: 244-245).

Martha, una delle due protagoniste del malinteso, assai simile a Caligola pur nella totale differenza delle trame, rimprovera la propria madre – che è l’Europa ma oltre l’Europa è il pianeta – di averla fatta nascere «dans un pays de nuages et non sur un terre de soleil!» (Le malentendu, CM: 192) e, da straniera anche lei, dichiara «avec violence» che «on ne peut appeler patrie, n’est-ce pas, cette terre épaisse, privée de lumière, ou l’on s’en va nourrir des animaux aveugles» (Le malentendu, CM: 242-243).

Tra Petronio, Eschilo e gli Gnostici, i drammi ‘contemporanei’ di Camus mostrano per intero di essere una magnifica traduzione del sentimento antico e potente del tragico: la colpa, la caduta, la nostalgia di una luce che una caduta, la chute, ha reso irraggiungibile. 

la-chuteCaduti nel mondo 

«Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire» (Il giorno venne dolcemente a illuminare questo disastro e io mi alzai, immobile, in un mattino di gloria; CH: 109). Il disastro dell’esistenza, la gloria di sapere che l’esistenza è questo e in tal modo dominarla.

Tale la tonalità, il suono, il significato della conversazione che in varie sere e notti Jean-Baptiste Clamence conduce con il suo interlocutore incontrato in un bar di Amsterdam, il Mexico-City. Ex avvocato del foro parigino, ora Clamence ha dato a se stesso la funzione e l’incarico di essere un «juge-pénitent» (CH: 12), un giudice e un uomo che confessa di continuo di essere un dissoluto, un narcisista, un ipocrita, – un ‘immorale’ insomma – ma lo fa in modo tale da costringere coloro che lo ascoltano ad ammettere la propria colpevolezza.

Questo debosciato sa che la radice di ogni possibile gioia sta nella «chair, la matière, le physique», ogni soddisfazione affonda nella pienezza del corpo (CH: 32).

Questo psicologo sa che gli umani sono delle creature strane e miserabili, che il motore dell’azione umana è la noia, per sfuggire alla quale essi creano «une vie de complications et des drames. Il faut que quelque chose arrive, voilà l’explication de la plupart des engagements humains. Il faut que quelque chose arrive, même la servitudes sans amour, même la guerre, ou la mort» (CH: 41), la stessa noia che costituisce uno degli esistenziali più profondi e più potenti analizzati da Heidegger in Sein und Zeit.

Questo teologo sa che «la seule divinité raisonnable» è «le hasard» (CH: 84), i veri signori dell’Intero sono il caso e la necessità, che costituiscono due declinazioni della stessa potenza; e sa anche che «Dieu n’est pas nécessaire pour créer la culpabilité, ni punir» (CH: 116), sa che non è necessario un dio irato; che quanto chiamiamo colpa, male, punizione e dolore è un frutto inevitabile della ζωή, della vita in quanto tale; sa anche che gli umani sono assai abili a far nascere, senza l’aiuto di alcun dio, imperi e chiese sotto il sole della ferocia e della morte. 

Questo politico sa che una tendenza immensa e innata della nostra specie – forse la miglior spiegazione per comprendere la storia – è il servire, è l’istinto gregario, è l’obbedire a poteri cupi o melliflui, tirannici o democratici, che si proclamano indispensabili portatori di salute e di benessere. Clamence ritiene indispensabile la consolazione della servitù e afferma che il destino ultimo della società umana è esattamente il suo primo stadio, la schiavitù. Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia e della cecità occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir» (CH: 143). La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.

Quest’uomo sa che se c’è una cosa che gli altri umani proprio non perdonano è il fatto di apparire ed essere felici, «vivre pleinement et dans un libre abandon au bonheur» (CH: 84).

Questo filosofo sa che tutti si ritengono innocenti del male della storia universale e della propria storia ma che invece «nous pouvons affirmer à coup sûr la culpabilité de tous» (CH: 116), la colpa abita nell’esserci, e che se si dà una forma di innocenza, un’espressione della grazia, una pratica di salvezza, questa è la conoscenza: «j’ai cependant une supériorité, celle de le savoir» (CH: 146), confermando in questo modo la propria Gnosi.

Gnosticismo che si palesa nel titolo stesso del libro, «la caduta», e che ha una sprezzante manifestazione nel riso ascoltato da Clamence in una notte parigina, attraversando un ponte dal quale qualcuno si lancia dentro il fiume e per salvare il quale è ormai troppo tardi, e sarà per fortuna sempre troppo tardi «il est trop tard, maintenant, il sera toujours trop tard. Heuresement !» (CH: 153).

Odiatore degli antri, delle caverne, dei sotterranei e dunque delle tenebre, questo narratore ama invece le altezze, le vette, la luce, «ce que j’aime la plus au monde, c’est la Sicile, vous voyez bien, et encore du haut de l’Etna, dans la lumière, à condition de dominer l’île et la mer» (CH: 48-49).

Questa luce, quest’altezza, questa salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente in un momento storico nel quale le forme del fanatismo e della tirannide securitarie e sanitarie cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini. 

a-pesteL’epidemia della storia 

Oran è un luogo qualsiasi, uno spazio umano e politico come tanti altri, fatto di ritmi, abitudini, miserie, slanci, cicli che regolarmente si ripetono. In questo «lieu neutre» (luogo neutro, P: 11) accade l’incredibile di un ritorno della peste. Sì, la peste dei topi, delle pulci, dei bubboni, dei polmoni. Un racconto oggettivo ma empatico, distaccato ma interno disegna i contorni, gli eventi, le metamorfosi, la rassegnazione, la disperazione, l’euforia della liberazione. Racconta la storia umana.

Una storia fatta di notti e giorni «remplis, partout et toujours, du cri interminable des hommes» (pieni, ovunque e sempre, del grido interminabile degli uomini, P: 43), storia nella quale l’umano sente e vive l’enigma della propria estraneità, dell’esilio costante e sconfinato che portiamo dentro noi, del cui colore vediamo impastarsi il divenire: «le soleil de la peste éteignait toutes les couleurs et faisait fuir toute joie» (il sole della peste estinse tutti i colori e fece svanire ogni gioia, P: 105).

Un «exile chez soi» (esilio a casa, P: 72) simile all’ ‘io resto a casa’ che le nostre città hanno vissuto con l’epidemia causata dal virus Covid19, in una reclusione e devastazione dei legami sociali che non soltanto distrugge le vite economiche di milioni di persone, non soltanto crea violenza privata, delazione da regimi totalitari ma che soprattutto inocula nel corpo sociale un morbo altrettanto pericoloso del coronavirus, la depressione, il quale sta risultando ancora più difficile da combattere dell’entità virale. Si può morire, e si muore, di virus ma si può morire, e si continuerà a morire, di miseria economica e relazionale. In generale non si può comprimere a lungo una società senza ucciderla. Così è fatta la socialità umana.

Un’epidemia che è «la ruine du tourisme» (la rovina del turismo, P: 110), la morte del commercio, la stoltezza e la follia – «nous allons tous devenir fous, c’est sûr» (diventeremo tutti pazzi, questo è sicuro, P: 79) –, la terribile solitudine dei morti abbandonati al loro ultimo respiro: «les maladies mouraient loin de leur famille et on avait interdit les veillées rituelles, si bien que celui qui était mort dans la soirée passait sa nuit tout seule et celui qui mourait dans la journée était enterré sans délai» (i malati morivano lontani dalle loro famiglie e furono vietati le veglie funebri, così che chi moriva la sera passava la sua notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva sepolto senza indugio, P: 160), epidemia che ha ridotto la πόλις ai suoi mattoni «massifs et inertes», massicci e inerti, al silenzio, a un «règne immobile où nous étions entrés ou du moins son ordre ultime, celui d’une nécropole où la peste, la pierre et la nuit auraient fait taire enfin toute voix» (un regno immobile dove eravamo entrati o almeno nel suo ultimo ordine, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero finalmente messo a tacere ogni voce, P: 159).

tolstoj_ilicNon solo: Camus ironizza sulla patetica formula per la quale «tout ira bien» (andrà tutto bene, P: 18); ci avverte del fatto che «si l’épidémie ne s’arrêtait pas d’elle-même, elle ne serait pas vaincue par les mesures que l’administration avait imaginées» (se l’epidemia non si fosse fermata da sola, non sarebbe stata sconfitta dai provvedimenti che l’amministrazione aveva immaginato, P: 61); descrive la nostra completa e impaurita adesione alla nuda vita: «on avait tout sacrifié à l’efficacité» (avevamo tutto sacrificato all’efficacia, P: 161); prevede quello che sta accadendo in parte anche a noi, e cioè che «même que le temps de la peste était révolu, ils continuaient à vivre selon ses normes» (anche quando il tempo della pestilenza era finito, continuarono a vivere secondo le sue regole, P: 246), perché l’animale umano si abitua a tutto, l’animale umano è fatto di abitudine.

Ma La peste non è soltanto la descrizione di un’epidemia, per quanto mortale. Questo romanzo è un disegno della natura umana e della storia, della loro «souffrance sans guérison» (sofferenza senza remissione, P: 262), dell’essere condannati a una indefinita pena a causa di un crimine sconosciuto, dell’impossibilità di rimanere indenni dalla peste che ciascuno porta in sé per il solo fatto d’essere venuto al mondo. La peste è una ribellione gnostica nei confronti della «création telle qu’elle était» (creazione così com’è, P: 116), una creazione «où des enfants sont torturés» (dove i bambini vengono torturati, P: 199).

mariasE infatti il momento più radicale, vibrante e spaventoso del romanzo è quello che descrive l’agonia di Philippe, il figlio del giudice Othon. Una pagina che ricorda la Morte di Iván Iljìc di Tolstòj [3] e quella di Marta in Domani nella battaglia pensa a me di Marías [4]: «De grosses larmes, jaillisant sous les paupières enflammées, se mirent à couler sur son visage plombé, et, au bout de la crise, épuisé, crispant ses jambes osseuses et ses bras dont la chair avait fondu en quarante-huit heures, l’enfant prit dans le lit dévasté une pose de crucifié grotesque […] Cette bouche enfantine, souillée par la maladie, plane de ce cris de tous les âges» (delle grosse lacrime, sgorganti dalle palpebre infiammate, iniziarono a fluire sul suo volto plumbeo e, alla fine della crisi, esausto, stringendo le gambe ossute e le braccia la cui carne si era sciolta in quarantotto ore, il bambino ha preso nel letto devastato una posa di grottesco crocifisso […] Questa bocca infantile, contaminata dalla malattia, si libra sul pianto di ogni epoca, P: 195-197).

Camus definisce la conoscenza calore della vita e immagine della morte. E conclude il suo romanzo con parole totali, così diverse e insieme così simili a quelle con le quali si chiude L’étranger, l’altro suo capolavoro: «Le bacille de la peste ne meurt ni ne disparaît jamais qu’il peut rester pendant des dizaines d’années endormi dans les meubles et le linge, qu’il attend patiemment dans les chambres, les caves, les malles, les mouchoirs et les paperasses, et que, peut-être, le jour viendrait où, pour le malheur et l’enseignement des hommes, la peste réveillerait ses rats et les enverrait mourir dans une cité heureuse» (Il bacillo della peste non muore o scompare per sempre, perché può rimanere addormentato per decenni nei mobili e nella biancheria, può attendere pazientemente in stanze, cantine, in tronchi, fazzoletti e scartoffie e, forse, sarebbe arrivato il giorno in cui, per la sventura e l’insegnamento degli umani, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice, P: 279).

Parole intrise di una sacralità che va al cuore della materia viva. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Note
[1] Le opere di Albert Camus analizzate in questo testo vengono citate con le sigle indicate qui sotto, seguite dal numero di pagina delle edizioni utilizzate. Dato che le citazioni più ampie sono tratte dai primi due libri, ho tradotto in italiano in parte da tali romanzi, lasciando invece quasi tutte in francese le citazioni dalle altre opere.
E, L’étranger (1942), Gallimard, Paris 2011
P, La peste (1947), Gallimard, Paris 1985
CH, La Chute (1956), Gallimard, Paris 2022
CM, Caligula suivi de Le malentendu (1958), Gallimard, Paris 2023
[2] E. Canetti, Massa e potere (Masse und Macht), 1960
[3] N. Tolstòj, La morte di Iván Iljìc (Смерть Ивана Ильича, 1886), trad. di P. Nori, Feltrinelli, Milano 2014.
[4] J. Marías, Domani nella battaglia pensa a me (Mañana en la batalla piensa en mi, 1994), trad. di G. Felici, Einaudi, Torino 2014. 

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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024).

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