Nel 2012, Feld pubblica la terza edizione di Sound and Sentiment, resoconto della sua ricerca svolta, fra il 1976 e il 1977, presso i Kaluli della Nuova Guinea. L’oggetto della ricerca è, sin dall’inizio e più in generale, il sistema di percezione dei suoni nelle diverse modalità e forme culturali in cui esso viene intessuto nel rapporto uomo/natura, in accordo con la semantica dei suoni degli uccelli. Man mano che la ricerca avanza, Feld si rende conto, sul campo, che il suo presupposto ruolo di osservatore non si esaurisce in dicotomie semplici: interno/esterno, vicino/lontano. Per entrare al meglio nel mondo dei Kaluli egli deve far leva su competenze multidisciplinari e far interagire i diversi saperi disciplinari e i relativi linguaggi specifici. Al fine di conoscere e comprendere le modalità di attribuzione di valore al lamento e alla canzone nella cultura kaluli, Feld ricorre, per esempio, all’etnomusicologia, all’antropologia, all’ornitologia e alla musica “mettendosi in gioco” personalmente in quelle che semioticamente possono essere definite come più posizioni attanziali.
«Con il passare del tempo, ho iniziato a rendermi conto che i modi in cui comunicavo le mie esperienze musicali non solo influivano su come i Kaluli mi parlavano della canzone e del lamento, ma li faceva inoltre presumere cose su di me come persona emotiva e affettiva. Una volta iniziato a comporre canzoni e a cantare più liberamente con i miei assistenti, ho capito che la capacità di proiettare un senso di interesse drammatico nella canzone tipizzava le loro verbalizzazioni relative a questioni estetiche. Mi è sembrato che il miglior modo per comunicare ai Kaluli il mio desiderio di capire le loro canzoni fosse di imparare a comporle e cantarle, una capacità che richiedeva una conoscenza dettagliata di strutture ed elementi della canzone» (Feld, 2009: 243).
Queste parole di Feld definiscono quella che dovrebbe – sempre – essere in una ricerca di campo la focalizzazione sulla continuità fra vissuto e “campo” e, simmetricamente, sulle discontinuità pertinentizzate tra le varie forme di osservazione in produzione e in ricezione. Ciò va forse al di là dei confini più ristretti di una singola disciplina e imposta un livello “meta” sulla base del quale, tuttavia, si organizzano quelle scelte teoriche e metodologiche che orientano la ricerca sul campo – nel campo – dell’esistenza tout court. Per esempio, in quanto antropologa, in quanto donna, in un luogo di ricerca “dato” dal sistema sociale osservato, io partecipo dei diversi ruoli e posizionamenti che, a loro volta, inscrivono me e il mio esserci nell’interagire. Osservo le interazioni e rifletto, inscrivendo ciò che vedo, entro schemi di lettura e comprensione della realtà esperita da me e dai soggetti-Altri che interagiscono nello spazio dato, in divenire riformulato. Testualizzo l’esperienza, immaginando (nel senso deleuziano di dare forma e immagine) gli “esperiti” articolando la forma dell’espressione. Procedo attribuendo significati a ciò che vado facendo; spiego interpretando; argomento adducendo. Io guardo, ri-fletto, com-prendo, conosco e traduco le informazioni in funzione di uno scopo comunicativo, reso significativo individualmente e socialmente. Per semplificare qui al massimo, in una ricerca sul campo si deve in ogni caso tenere conto, almeno, dei due livelli diversi in cui si situano i posizionamenti attanziali riguardanti il livello dell’azione e della descrizione:
«L’azione non dipende che dal soggetto, in quanto concerne l’organizzazione del suo fare, l’evento invece deve essere considerato come la descrizione di questo fare da parte di un attante esterno all’azione. Questo attante, […] considerata la complessità dei suoi compiti, è stato eretto ad attante osservatore autonomo. Presente nel discorso lungo tutto il suo svolgimento esso [rende] conto dell’installazione e delle trasformazioni dei punti di vista, delle inversioni del sapere degli attori su azioni passate e future, di cui ne aspettualizzava i differenti “fare” per trasformarli infine in processi dotati di storicità» (Greimas, 1985: 6-7).
L’antropologo sul campo, quindi, si posiziona su uno spazio dialogico estremamente complesso in cui l’interazione si stabilisce in un va-e-vieni incessante tra l’attante osservatore, l’attante dell’azione e le loro realizzazioni discorsive rappresentate dai diversi punti di vista configurati dal processo. Per tornare a Feld e al suo enunciato, dunque, egli, pur senza ricorrere direttamente alla semiotica, mette l’accento al contempo sulla ricezione e produzione e, soprattutto, sulla dimensione cognitiva e emotiva. Per quanto mi riguarda, in questo contesto, in queste poche pagine, non mi interessa tanto mettere in evidenza il metalinguaggio fine a se stesso quanto insistere sulla convergenza fertile tra un approccio antropologico e insieme socio-semiotico, in sostanza sulla possibilità di offrire solide basi per una riflessione meta-teorica. E ciò perché, comunque, nello studio della cultura (e, soprattutto, di una cultura altra) si rende necessaria un’analisi vertente non solo sulla dimensione dell’azione, ma, anche, sulla dimensione emotiva, nonché sulle forme di narratività che le sostengono entrambe.
Tanto per fare un esempio, la performatività (ciò che rende efficace l’azione) è strettamente legata alle forme di narratività che sono scelte di volta in volta rispetto ai sistemi simbolici accettati e rispettati all’interno di una comunità di condivisione. Il campo, a sua volta, non si esaurisce in una esperienza vissuta in modo lineare: il campo è uno spazio dialogico all’interno del quale tutti i soggetti che ne fanno parte si muovono secondo linee di fuga molteplici, non strettamente sequenziali e ordinate in un solo senso. Ciò fa sì che tale spazio sia un presente-divenire, o meglio, un divenire-presente tradotto in conoscenza la cui memoria è molteplice; il campo è in definitiva un divenire-campo e un divenire-sapere (Deleuze, 1998: 31). Se non altro perché, nella sua costituzione minima, la «comunicazione non è un semplice passaggio di sapere, ma un’impresa di persuasione e interpretazione […] dominata dalle istanze più esplicite del far credere e del credere in cui la fiducia tra gli uomini e nelle loro parole ha certo maggiore importanza delle frasi ‘ben fatte’ o della loro verità concepita come referenza esteriore» (Greimas, 1985: 15).
In questo, come si vede, si trova una risonanza profonda con quanto affermato da Feld a proposito della sua esperienza di campo in cui ricezione e produzione, sapere e credere, cognizione ed emozione si incontrano. La questione è a lungo dibattuta soprattutto in campo musicale. Nella sua introduzione al libro La gioia della musica Bernstein affronta proprio tale questione nei termini molto intuitivi e immediati che contraddistinguono la sua scrittura:
«La scienza fornisce la “spiegazione” dei tuoni ma riesce forse a “spiegare” il timore col quale la gente reagisce ai tuoni? E ammettendo che ci riesca, pur con l’ausilio della terminologia dichiaratamente insoddisfacente della scienza psicologica, come spiega quel senso di grandiosità che proviamo in mezzo a una tempesta? E come analizza questa nostra sensazione di grandiosità nei vari elementi che la compongono? Tre parti di stimoli elettrici, una parte di sollecitazioni auricolari e una di sollecitazioni visive, quattro parti di identificazione con ciò che esiste oltre i nostri sensi e due parti di adorazione delle forze onnipotenti: un cocktail improponibile» (Bernstein, 1990: 10-11).
Nella mia prospettiva più semiotica, tuttavia, non basta pensare di fare incontrare tutte queste dimensioni – non più dualisticamente concepite – ma è pure necessario andare al di là di strutture prototipiche (cfr. Pezzini, 1991: 13) e, quindi, «pervenire ad una definizione relazionale e culturale degli eventi e dei processi passionali» (Fabbri, 1991: 165). In altri termini, è fondamentale andare oltre una concezione minimalista che rintraccia similitudini e differenze in culture diverse e capire «piuttosto come si dia senso all’accadere vitale; la modalità singolare con cui senso culturale e strutture sociali sono connesse e iscritte in queste caratterizzazioni» (Fabbri, 1991: 166, mio corsivo).
Ora forse il mio intento è ancor più chiaro: partendo dall’esempio di Feld, il quale focalizza la sua ricerca su un aspetto ben preciso e delineato del rapporto uomo-natura-cultura (definendone i confini nell’ambito del sistema culturale di simbolizzazione dei suoni e delle attribuzioni di senso a sentimenti di tristezza e dolore relati ad eventi di allontanamento e perdita) io sto progressivamente spostando l’asse della riflessione verso una questione più teorica, applicabile a contesti di comunicazione storicamente e geograficamente più ampi. “Reale”, dimensione passionale, testualizzazione, linguaggi e classificazioni lessicali, inscritti nel discorso scientifico e non, configurano sistemi di senso e agiscono da sistemi culturali di riferimento che orientano le interazioni e segnano un processo di ritorno performativo sul reale stesso. In fondo, per sintetizzare in qualche modo, si tratta di optare per una svolta contestuale nell’approccio all’istanza passionale (Landowski, 2010: 111 e sgg.), senza per questo dimenticare – come dicevo prima – l’intreccio che si genera con la dimensione cognitiva e pragmatica. Ciò vale, secondo me, pure per la questione onnipresente del qui e ora della ricerca antropologica che Augé definisce ricorrendo alla metafora dell’eccesso di tempo, eccesso di spazio ed eccesso di ego (Augé, 2010) per spiegare tre diverse modalità di decentramento che caratterizza, a suo vedere, i contesti culturali della surmodernità:
«Nelle stesse abitazioni, ville o appartamenti, la televisione e il computer occupano ora lo spazio dell’antico focolare. Gli ellenisti ci hanno insegnato che sulla casa greca classica vigilavano due divinità: Estia, dea del focolare insediata nel centro, umbratile e femminino, della casa e Hermes, dio della soglia rivolto verso l’esterno, protettore degli scambi e degli uomini che ne avevano il monopolio. Oggi, la televisione e il computer hanno preso il posto del focolare al centro della casa. Hermes si è sostituito a Estia» (Augé, 2010: 8).
Siamo incessantemente bombardati dalle informazioni che scandiscono il nostro tempo sotto forma di suoni e immagini, testi multimediali, aforismi e citazioni, cellule di conoscenze e condensati di saperi, cronaca e satira, forum, conversazioni e dibattiti. L’esperienza soggettiva del “percetto” assume la forma di contrappunto che si instaura tra linguaggi verbali e non verbali. Hermes, a differenza del focolare, è microchippato e ha dimensioni tali da entrare nel palmo di una mano: me lo porto dietro ovunque io volga il mio cammino il quale è anche sguardo, azione, direzione e movimento nello spazio sociale e culturale. Valga qualche esempio fra tanti: Facebook mi tiene informata sui contatti plurimi dei miei “amici”, i quali mi risultano essere “amici” di altri “amici” seguendo una quasi infinita catena di contatti umani dematerializzati nella dimensione comunicativa online. Con Whatsapp parlo contemporaneamente con un gruppo di persone. L’estemporaneità, per dirla in breve, ha praticamente annullato l’eccesso di cui parla Augé traducendolo in immobilità impermanente. Internet ha ampliato le nostre potenzialità comunicative nel tempo e nello spazio a tal punto da annullare la sequenzialità degli atti. Mentre io scrivo, per rispondere a un messaggio, qualcun altro, più veloce di me, risponde prima e mi anticipa. Instagram racconta per “scatti”. Queste, e tante altre note modalità di interazione, costituiscono un sistema di comunicazione slegata ma, tutto sommato, coerente in sé. La coerenza proviene dall’essere gruppo e sentirsi gruppo di condivisione non solo di impersonali informazioni ma di stati d’animo e stati d’essere. È così che, per esempio, tragedie mondiali, vicine e lontane nello spazio planetario, divengono familiari, entrano nelle case per fare parte della quotidianità come se hic et nunc finissero per coincidere veramente.
L’esperienza del mondo che ci offrono le moderne tecnologie di comunicazione non è allora meno autentica della dimensione fenomenica del mondo esperita più direttamente attraverso il corpo e i cinque sensi, anzi, si potrebbe dire che è una forma di amplificazione della loro portata fisiologicamente più ristretta. Una domanda permane comunque: avere tante finestre sul mondo, aperte contemporaneamente, a cosa serve? Tutto ciò ha un ritmo incessante, che è, comunque, ritmo e ripetizione insieme. Così definito, questo bombardamento di dati assume i caratteri di un’esperienza musicale o, per meglio dire, di una musicalità culturale (multivocalità soggettiva e polivocalità collettiva) sita oggigiorno – credo – al di fuori delle possibilità di teorizzazione implicite in discipline tradizionalmente intese. Bisogna, a mio avviso, spiegare il confronto delle diversità culturali individuandone la dimensione ritmica dei contatti comunicativi interindividuali e la «sintassi minima rintracciabile attraverso l’analisi delle strategie enunciative, dell’iscrizione della soggettività nel discorso» (Ceriani 2003: 213). Se il ritmo è tuttavia alla base dell’azione (e della proiezione aspettuale delle azioni) come efficacemente spiega la semiotica delle passioni, perché siamo allora come paralizzati dalla sua pervasività? Lo siamo davvero? Non credo. I “social” possono essere considerati, sotto molti aspetti, nuove forme di investimento di valore, finalità e tipologia di azione simbolica. Come afferma Ceriani
«Perché non pensare allora che laddove la passione è rottura di una simmetria, squilibrio energetico che mette in scena l’alterità ponendo come inevitabile una situazione conflittuale, l’esercizio di una retorica passionale come la ritmizzazione fornisca il principio di un nuovo equilibrio? Questa retorica permetterebbe inoltre alla passione di essere percorsa, vale a dire di essere enunciata, nella violenza del suo stesso alternarsi tra eccesso e indifferenza, e tuttavia di essere ricondotta a una reversibilità che permette allo scontro patemico di invertire sempre i suoi estremi, di renderlo in qualche modo parte integrante di una distanza contrattuale. È ciò che chiamiamo regolazione passionale, e che corrisponde per noi alla ritmica fondamentale dello scambio intersoggettivo» (Ceriani, 2003: 213-214).
Non si tratta dunque di una nuova Babele, come prospettano alcuni. Piuttosto, direi che è un fenomeno più moderno e complesso che va spiegato ricorrendo agli strumenti che discipline quali, per esempio, la semiotica e l’antropologia possono fornirci in un loro auspicato connubio. È necessario, a mio avviso, un approccio integrato che faccia dialogare azioni e passioni (cfr. Greimas, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo) e, anche, un orientamento più fenomenologico (caldeggiato, tra altri, da Coquet), volto ad analizzare gli equilibri fra passione e ragione. Se definiamo l’oggetto della ricerca in termini di dialogo interculturale, dobbiamo allora, sulla base di quanto detto, presupporlo come interazione fra – almeno – due soggetti e due complesse fasi in output e input, in produzione e ricezione. La ricezione non consta soltanto dei livelli dell’ascoltare, guardare e dire. La ricezione mette alla prova le capacità di autoregolazione dell’appraisal sia individuale (così come inteso in psicologia) sia collettivo (inteso in chiave più antropologica). A questo punto, il quesito da affrontare è il seguente: le cosiddette culture, territorialmente circoscritte e definite dagli studi classici, sono pronte a una fruizione più consapevole e alla gestione responsabile di una così vasta quantità di informazioni? Non ci si riferisce qui a enti e agenzie economicamente e politicamente istituzionalizzati a livello mondiale e studiati seguendo un approccio sociologico. Io mi riferisco, invece, alle modalità simboliche che agiscono secondo quegli habitus, definiti da Bourdieu, “strutture strutturanti” dei sistemi di appartenenze multiple.
La tempesta di informazioni interagisce con il brainstorming intrasoggettivo e determina schemi di azione e re-azione fra i soggetti diversamente posizionati nel tempo e nello spazio comunicativo. Il bombardamento di informazione, in definitiva, non sfocia mai in indifferenza, semmai in forme di re-attività vere e proprie che vanno analizzate con strumenti interdisciplinari adeguati per essere meglio colte. In tal senso la svolta sistemica amplia, inoltre, le potenzialità di indagine e interpretazione degli eventi culturali avvalendosi anche di strumenti teorici volti a descrivere e spiegare le relazioni fra proprietà e operazioni del pensiero razionale. L’orientamento teorico integrato che io propongo fa sì che l’analisi antropologica si avvalga, sempre più, di sistemi modellizzanti meta-descrittivi che tengano conto dei differenziali fra tipo e varianza, generalità, somiglianza ed equivalenza, ripetizione, singolarità e sostituibilità (Deleuze, 1997: 7 e sgg.).
In conclusione e per tornare a Feld, il campo di cui si parla in antropologia non è che un esempio, benché importante, del modo in cui si realizzano, sempre più complesse interazioni nei diversi contesti comunicativi del mondo contemporaneo. La quantità e la velocità dei passaggi di informazioni è tale da oscurare la percezione delle variazioni e delle permanenze all’interno dei flussi di comunicazione instaurati nella produzione e ricezione dei messaggi. Ciò determina il verificarsi di pratiche e schemi comportamentali che si collocano fra le dinamiche di modellizzazione, ripetizione e generalità. L’antropologo che va alla ricerca di modelli e leggi deve applicarsi al contempo a rintracciare le dimensioni della soggettività individuale e le più vaste interazioni dialogiche d’ordine sociale. Come afferma Deleuze, se «sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universalità del singolare» (Deleuze, 1997: 8), allora «compito della vita è far coesistere tutte le ripetizioni in uno spazio in cui si distribuisce la differenza» (Deleuze, 1997: 2).
Due questioni mi preme ribadire per concludere sulla base di quanto affermato finora. Da una parte, l’individuazione degli aspetti ritmici della comunicazione interculturale, da me qui difesa, impone una visione ampia dell’antropologia non più incentrata sulla «discontinuità tra il vivere a casa propria e la ricerca sul campo in luoghi lontani» (Montes, 2015); si vive, come afferma Montes, sia a casa propria sia nell’altrove più lontano e sono ambedue forme contestuali di investigazione stretta e intimamente collegata in un mondo sempre più globalizzato e tecnologicamente investito di significazione. Dall’altra, parallelamente, una concezione dell’antropologia fondata sul suo divenire-sapere in senso deleuziano dovrebbe essere più attenta e propensa a prendere in conto il vissuto tout court persino nei suoi aspetti in apparenza meno discretizzati, più fluidi: «le diverse forme di traduzione della cultura non concernono unicamente segni e testi più materialmente concepiti, ma, ugualmente, se non di più, gli stessi flussi di sensi e pensieri: insomma, in una parola, il vissuto» (Montes, 2015). L’apporto di Deleuze può, in questa prospettiva, essere fondamentale dato che differenza e ripetizione, in fondo, semplificando qui un po’, spostano l’accento dal sistema stesso concepito in sé all’atto di parole, dall’ordine delle dissimilitudini in relazione tra loro all’atto creativo che include non solo il fare individuale e collettivo, ma anche la produzione stessa dei concetti e le loro più ampie forme di significazione. Insomma, proprio perché in divenire in un mondo globalizzato, l’antropologia, al fine di cogliere i plurimi sensi del mondo, deve essere capace di creare i concetti adeguati a questo fine.
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Riferimenti bibliografici
Augé M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2009 (1992)
Bernstein L., La gioia della musica, Longanesi & C., Milano, 1990 (1954)
Ceriani G., Il senso del ritmo. Pregnanza e regolazione di un dispositivo fondamentale, Meltemi, Roma, 2003
Deleuze G., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano, 1997 (1968)
Deleuze G., Parnet C., Conversazioni, Ombre Corte, Verona, 1998 (1977)
Fabbri P., “A passion veduta: il vaglio semiotico”, in Pezzini I., Semiotica delle passioni. Saggi di analisi semantica testuale, Esculapio, Bologna, 1991
Feld S., Suono e sentimento, Il Saggiatore, Milano, 2009 (1990)
Greimas A. J., Del senso 2, Bompiani, Milano, 1985 (1983)
Landowski E., Rischiare nelle interazioni, Franco Angeli, Milano, 2010 ( 2005)
Montes S., “Semioantropologia come traduzione del vissuto”, in Dialoghi Mediterranei, n. 11, gennaio 2015
Pezzini I., Semiotica delle passioni. Saggi di analisi semantica e testuale, Esculapio, Bologna, 1991
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
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