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Il dolore e il bivio nella storia dell’uomo

wicki_noi_dolore_bdi Fabio Sebastiani 

Uno dei criteri che regolano il consesso sociale e culturale del mondo così come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi fa perno sul concetto di dolore. E sembra proprio che in questi continui, rapidi e profondi passaggi d’epoca – perché il tempo non può essere più misurato al singolare ma al plurale fissando di volta in volta il punto di sincronia tra ambiti e percorsi diversi – sia proprio il dolore a subire i cambiamenti più poderosi. Affidato al consumo, nella forma iper e pan in cui via via il mercato ha preso il sopravvento sulle scelte reali di alcuni stakeholders, e quindi trasformandolo sostanzialmente in lenizione materiale e in promessa di un momentaneo sollievo, il dolore (fisico e morale) sta uscendo definitivamente dalla percezione culturale e dal processo di culturalizzazione delle comunità. Sta uscendo dalla condivisione di pratiche di cura e reciprocità tra i soggetti.

Spinto dallo sviluppo economico verso la totale sottomissione alla scienza e alla tecnica il suo campo di applicazione appare oggi articolato e parcellizzato, ma l’esito reale di tutto questo è che l’individuo si trova senza più filtri e difese di fronte ad esso. Si è venuta così a creare una doppia dipendenza: dal dolore e dalla promessa di lenizione del dolore. Una doppia sofferenza. Il dolore, pur attraversando le emozioni del singolo individuo, viene di fatto gestito entro un gioco di specchi e rifrazioni che frastornano e disperdono la persona rendendola sempre più subalterna al mercato, unica fonte di “rimedi” e surrogati del tutto inutili, e dipendente del tutto dalla sua cultura di riferimento.

Il mercato, nella sua forma di luogo di acquisto dei beni di consumo, ad un certo punto del suo percorso storico è stato in grado di far provare all’umanità l’opulenza e quindi una ideologica lontananza dal dolore o, se volete, l’onnipotenza: il potere effettivo quindi del sistema e, nello stesso tempo, il suo punto di maggiore debolezza, soprattutto di fronte alle emergenze che proprio grazie a questa opulenza si sono andate via via accumulando. Il gioco non poteva durare. Al dolore degli esseri viventi, di qualsiasi natura questo sia, non si può rispondere nella scala del discrezionale, come continua a fare il mercato, ma nell’ambito di precise pratiche olistiche, come quelle accumulate dall’uomo nel corso della sua storia. E questo è avvenuto, simbolicamente, a partire dalla sanità, con il Covid, e, più generalmente, con la serie delle malattie da laboratorio.

Per malattie da laboratorio si intendono quelle patologie che sono di fatto interne allo sviluppo di percorsi patologici derivanti dal ciclo squilibrato del consumo e della produzione capitalista dei beni: le neoplasie, gli effetti derivanti dall’uso indiscriminato degli antibiotici; ed ancora, l’invasione incontrollata della plastica, l’accumulo dei metalli negli organismi viventi, l’inquinamento elettromagnetico, etc. E tutto questo, sia chiaro, con la “santificazione” della scienza, ovvero delle multinazionali che ne gestiscono gli apparati mediatici.

Oggi ci ritroviamo ad abitare un corpo umano il cui “baricentro” chimico-organico rispetto all’ambiente naturale è completamente saltato; o, quanto meno, finito sotto spessi e numerosi strati di artificializzazione, manipolazione, interpolazioni chimiche. E le patologie provocate da questo “fuoriasse” sfuggono ormai al controllo, e anche alla programmazione, verrebbe da dire. Nonostante questo, invece di riparare al danno originario, ovvero tentare di riportare il corpo umano ad un equilibrio accettabile con il contesto naturale, accompagnando gli individui e le comunità nella ricerca di soluzioni praticabili e sostenibili, stiamo accumulando emergenze su emergenze, trascurando e tacendo, addirittura, completamente il fatto che ormai l’unica prospettiva realistica è quella del corpo bionico, farmacolizzato, e protesizzato. E quindi dipendente ed espropriato della sua unicità e individualità, dal suo contesto socio-bio-culturale. 

«Uno dei tratti dominanti ed insieme più tremendi della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un profondo solco di divisione intorno a chi soffre. In tal modo, il dolore delimita. Il cerchio della sofferenza, in quanto esperienza di una limitazione radicale, è anche esperienza del limite e soprattutto della propria limitazione: la sofferenza è dunque una modalità classica tramite cui si fa esperienza della propria individualità e si conosce l’individuazione come principio e forma dell’esistere e del morire». 

natoliIn uno dei passaggi introduttivi de L’esperienza del dolore, opera fondamentale sul tema che contiene sia un percorso storico della culturalizzazione del dolore sia gli snodi centrali del ragionamento filosofico ed ontologico, Salvatore Natoli traccia con nettezza un concetto che credo vada assunto a base di una riflessione attuale sul dolore: l’individuazione. Natoli segue su questo l’intuizione di Kierkegaard a proposito dell’io e del suo rapportarsi con se stesso. Kierkegaard, va detto, aveva identificato l’io «come rapporto che si rapporta a sé stesso». In questa intuizione c’è un nucleo molto fertile, va altrettanto notato, per un ragionamento di grande portata sul ruolo che oggi l’io può assumere come argine in relazione alla costruzione dell’uomo artificiale che il digitalismo è pronto a dispiegare. Ci dà qualche strumento in più per tentare di arrivare a una definizione dell’io che sappia ben distinguere l’umanoide dall’“uomo storico”. E lo faccia con nettezza alla vigilia di un periodo che molti studiosi non esitano a individuare come caratterizzato dal “cambiamento antropologico”.

Ma non è questo che ci interessa sviluppare qui. Rimanga pure una nota a margine, quindi, anche se di un certo peso. Certo, è comunque interessante sottolineare il ruolo del digitalismo il quale, ereditando per intero il portato della società dei consumi sulla “cosalizzazione” della condizione umana attraverso la pratica della serializzazione, ha ben chiaro, come fondamentale punto programmatico, come si possa provare a costruire, esattamente come ha dimostrato la pratica della società dei consumi, tra l’individuo e il dolore, una sorta di barriera assorbente.

La società dei consumi, ben al di là di tutti i problemi procurati all’umanità, è approdata a un risultato di portata storica: il consumo è l’atto universale che permette al ciclo delle cose umane di ricominciare da capo. Il consumo, da atto pratico necessario è diventato un fattore ideologico primario molto più potente dell’Agnello di Dio proprio perché costantemente distribuito su ogni singolo individuo e, di riflesso e per estensione, valido per l’intera comunità. E quindi, scavalca la forza di ogni altro possibile rito. Attenzione, qui non stiamo parlando di sacralità della merce, argomento sul quale ci sarebbe molto da dire, ma di economia e dei processi sociali, socioculturali, fino al livello istituzionale: il tutto inquadrato dal punto di vista del ruolo che il consumo svolge nell’attività umana concreta.

Tutto questo è talmente vero che mentre con l’Agnello di Dio il ciclo della giustizia trovava compimento in quanto gli uomini nel suo nome e sotto la sua forza carismatica accettano di azzerare i torti e i conti in sospeso azzerando parallelamente anche l’intensità del dolore provato, adesso il ciclo del consumo detta la norma costituente, e quindi ontologica, alla giustizia stessa e a ogni altro ambito della società. Si può stare al mondo solo se si consuma e si partecipa alla produzione dei beni che costituiscono il consumo, qualsiasi essi siano. Non solo, il consumo dei prodotti è il metro generale della società ma tutto deve essere consumabile altrimenti non può avere residenza nel consesso degli uomini.

È vero, il mercato in sé non ha una struttura ciclica ricorsiva, tutt’altro. Il mercato, dominato dal profitto a tutti i costi, è una linea retta che procede sempre verso l’alto. Ma qui stiamo cercando di mettere in evidenza un altro aspetto, che vale soprattutto per l’individuo. Del resto, che la partecipazione al consumo non possa essere altro che ideologica e rituale ce lo indica la gran massa dei partecipanti, innanzitutto, i consumatori in senso stretto. Questi, soprattutto a livello individuale, a ben vedere non traggono alcun vantaggio reale dalla loro adesione al meccanismo del mercato e del consumo. Il loro status è in realtà imposto e dannoso a loro stessi. Anzi, il loro atto è funzionale ma il loro vantaggio è pari a zero.

Dal loro punto di vista il mercato è, e deve essere percepito, come un totem. E come totem prevede ruoli molto più importanti e sostanziali, come quelli dei monopolisti. Sono loro i “sacerdoti” veri del rito che pur conoscendo la vacuità del meccanismo hanno tutto l’interesse a rinnovarne i presupposti facendo in modo che gli adepti rinnovino i sacrifici nel tempio. Sono i monopolisti a gestire le condizioni del mercato decidendo di volta in volta il come e cosa produrre, e consumare anche, finalizzando le loro decisioni alla massimizzazione del profitto.

La società digitale sembra apparire da questo punto di vista nient’altro che il prolungamento della società dei consumi “più l’elettricità”. Il digitalismo crea di fatto tra l’individuo e il dolore un “permafrost” totale e totalizzante, sotto forma di realtà virtuale in grado di gestire quasi in tempo reale il simbolico, elemento importante e portante per la fenomenologia del dolore. Ancora non è costituente, ma si sta avviando su questa strada. Ancora è una forma del consumo ma con l’Intelligenza Artificiale si intravede già un orizzonte di livello superiore: la soddisfazione in tempo reale a tutte le richieste di lenizione, fino all’anestetizzazione permanente. La stretta, e definitiva, connessione che il digitalismo mette in pratica tra l’Intelligenza Artificiale da una parte, che ha la sua ratio nell’“idolo programmatico” della formalizzazione dei simboli processati dalla macchina, e l’universo simbolico degli umani, dall’altra, ridotti a fattore di addestramento e di disambiguazione nella pratica dell’AI crea, quindi, di fatto una definitiva quanto pericolosa chiusura del cerchio.

I sistemi meccanico-digitali, infatti, non possono assolutamente tollerare due fattori: la scarsità dei dati e le ambiguità semantiche del linguaggio. Quindi tendenzialmente l’ambiguità delle parole, la loro positiva e strutturale polisemia, scomparirà dall’orizzonte significazionale umano grazie al continuo “addestramento” che gli umani forniranno ai sistemi digitali. Ovvio, questo non aprirà, se non ideologicamente, l’epoca della certezza e della verità, che restano mitologie funzionali, ma consoliderà l’universo formalizzato e meccanico gestito dall’Intelligenza Artificiale. A quel punto l’uomo pur continuando a provare fisicamente e moralmente dolore, pur avvertendo la presenza dell’altro, non sarà più in grado di distinguerne la provenienza ed esercitare la sua propria “lenizione” entrando automaticamente quindi in una sorta di nevrosi dirompente. All’uomo, e più che mai all’individuo, verrà estorta la capacità di provare il “dolore individualizzante”, e quindi, in parte, la capacità di arrivare alla coscienza di sé come individuo in relazione all’altro e all’alterità, avvicinandolo così ancora di più alla reificazione.

978880624867higCome scrive Byung-Chul Han, «solo l’essere toccato dall’altro mantiene viva la vita. Altrimenti essa resta prigioniera nell’inferno dell’Uguale». Contrariamente alla conclusione formulata da Byung-Chun Han nel suo saggio La società senza dolore, però, non credo che il dolore esca definitivamente dall’ambito simbolico, anzi. Esce sì dall’ambito simbolico ma da quello eminentemente culturale elaborato dall’uomo nella sua storia (conclusione a cui arriva anche Natoli riferendosi al grande patrimonio della classicità), e da ogni cultura umana anche con soluzioni diversissime tra loro, per entrare però nella gestione del simbolico propria dell’Intelligenza Artificiale, completamente disambiguato e quindi del tutto inservibile come dolore in grado di permettere all’individuo e alla società di elaborare un senso, di promuovere la sua crescita sia sul piano emotivo che su quello socio-culturale.

L’ipotesi che fa perno sull’intelligenza artificiale, quindi, si comprende meglio come tecnica del potere dell’uomo sul mondo. Scrive ancora Salvatori Natoli: «L’intenzione fondamentale secondo cui la tecnica si costituisce è quella del dominare. Il dominio è in certo senso l’orizzonte mitico (in corsivo nel testo) della tecnica poiché è, a suo modo, uno scenario inclusivo della comprensione del mondo e dell’orientamento di esso». Verità e dominio formano un patto ancora più stretto, fuori dall’elaborazione culturale che dovrebbe caratterizzarne ogni passaggio, fuori dall’elaborazione autenticamente umana che, pur essendo costantemente “in affanno” rispetto alla natura sul terreno del dolore e della sofferenza, di fatto riesce a ricostruire una sua capacità di comprensione alta e quindi a produrre un equilibrio proprio stando sul limite, per quanto oggi appaia problematico, tra l’uomo e la natura.

La società dei consumi e il digitalismo, a coronamento, hanno varcato questo “limite” concependo la felicità non più come continua e onesta ricerca del punto di equilibrio ma come illusoria promessa di una totale assenza di dolore, e nascondimento, e fidando dapprima nelle merci e poi nella “tecnologia del simbolico non ambiguo” stanno tentando di creare/produrre un Paradiso in terra per ogni singolo individuo, per ogni singletudine. La tecnica applicata alla materia ha via via annullato le casematte della rappresentazione del dolore, tra l’altro facendolo convergere nel grande coacervo del potere, ovvero attribuendo a questo un monopolio di fatto sul dolore: nel provocarlo, nel gestirlo e nel lenirlo. Questo “dettaglio” del potere viene evocato anche da Natoli laddove non si nasconde come nella «società tecnologica, infatti, la comprensione si realizza attraverso la competenza e chi non è competente non solo è impotente ma addirittura è ridondante».

Come scrive Paolo Zani nel saggio Il corpo e lo spettro, «se le cose non sono altro che corpi, riconducibili al loro funzionamento, allora anche l’uomo non è altro che un corpo, riconducibile al suo funzionamento». Se questa conclusione può essere debole letta alla luce della semplice società dei consumi in cui la cosalizzazione dell’uomo, semmai, può essere configurata come il risultato di un lento processo di assorbimento del corpo umano ai corpi materiali prodotti dalla tecnica, ai suoi ritmi, anche; sia attraverso una perturbazione senza precedenti dell’evoluzione naturale, sia, infine, attraverso un condizionamento ossessivo e materiale dei corpi umani stessi che ha avuto l’apice nella vicenda del Covid e la relativa farmacologizzazione delle comunità umane; appare, invece, molto attuale nella prospettiva dell’Intelligenza Artificiale che, come già accennato, andrà a imbozzolare tutto l’universo simbolico dell’umanità imponendo, attraverso la discretizzazione del simbolico, un abbandono forzato degli strumenti culturali condivisi elaborati fino a questo punto della storia umana attraverso la progressiva e inesorabile eliminazione dell’ambiguità e di una sua correzione intensiva con i normali meccanismi di feedback di cui essa dispone nell’interfaccia, anche questa imposta, con gli esseri umani.

i__id6222_mw600__1xLa costruzione di senso non è più cosa esclusivamente umana, insomma. E laddove è umana ricade comunque in una relazione di potere dell’uomo sull’uomo, e contro l’uomo attraverso il programma di digitalizzazione. E quando si tratta di affrontare il “senso del dolore”, capitolo centrale della significazione dell’esistenza umana, ecco che scopriamo improvvisamente una assenza drammatica, provando un senso di vertigine, di irrimediabile solitudine come ha ben suggerito Natoli nel suo saggio. Una assenza maturata nelle incertezze e difficoltà, fino all’impotenza, dell’individuo nel suo rapporto con l’alterità e con l’altro.

Non è nell’economia di questo intervento provare a formulare delle proposte. Tuttavia considerata la rilevanza delle connessioni tracciate, soprattutto le sottolineature del ruolo che nel contesto mondiale attuale può svolgere il digitalismo alcune suggestioni possono essere introdotte.

A cominciare da un appello al mondo artistico e creativo a mettere di nuovo in campo una “nuova” stagione del silenzio. L’arte ha sempre coadiuvato il processo culturale di elaborazione del dolore e lo ha fatto spontaneamente, senza alcuna teoria di questa o quella disciplina scientifica, che oggi invece ne hanno dimostrato la sostanzialità.

Quello che occorre realmente è un silenzio ontologico e riflessivo, che si interroghi sul valore del simbolico a pochi istanti dalla sua consegna definitiva al mondo digitale. L’iperproduzione che ha caratterizzato l’attività artistica in questi decenni, quasi sempre stimolata dal mercato, sta giungendo al capolinea. Primo, perché si è capito che non c’è speculazione che possa attribuire a un’opera d’arte monumentalità e forza espressiva. Secondo, perché l’arte non può essere separata dal suo corpo sociale. Terzo, perché l’arte è una ricerca sul senso e come tale sta davanti l’economia. 

Questo stato ipertrofico dell’arte, generalmente intesa ma sicuramente destinata a un ruolo di primissimo piano nella sfida contro il digitalismo omnipervasivo, ha bisogno di un ripensamento, di una riflessione, di un superamento. Gli artisti stessi avvertono il bisogno di tornare a costruire luoghi della connessione sociale, di una pratica artistica che preveda una dialettica con il fruitore. Cosa c’entra con il silenzio? Il silenzio è sicuramente l’atto propedeutico di questo processo. E più è condiviso e più promette la parola. Il silenzio non annulla l’espressione ma ne sposta il baricentro nell’universo interiore dell’uomo preparandone l’uscita nel mondo. Sistole e diastole di una epifania espressiva ben lontana dalla procedura digitale della creatività che rimane e rimarrà per sempre un “già visto”, ancora meno dell’arte “classica”, quindi, che pur nella fragilità della coniugazione al passato riesce ancora a parlare al presente. 

Chiudiamo con una citazione di Lev Tolstoj che crediamo sintetizzi al meglio non solo il valore del dolore nella comunità degli uomini ma, letto con la prospettiva di oggi, ci fa capire qual è il punto di rottura che siamo rischiando in questo passaggio d’epoca così denso di incognite: “Se riesci a provare dolore, sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri, sei umano.”

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Riferimenti bibliografici
 Byung-chul Han, La società senza dolore, Einaudi Torino 2021
S.  Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli Milano 2015
 C. Zani, Il corpo e lo spettro. Per una critica della modernità digitale, Donzelli Roma 2022

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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.

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