Nel clima passionale e sensuale della società barocca nasce, nel 1625, il Burlador de Sevilla, opera teatrale di Tirso de Molina, un frate spagnolo dell’Ordine della Mercede: vi si narrano, com’è noto, le gesta di don Giovanni, un irriducibile donnaiolo, promesso sposo di donna Anna, che tradisce impunemente con la duchessa Isabela, fingendosi Ottavio, il suo fidanzato. Dopo aver ucciso don Gonzalo de Ulloa, il padre di Anna, deciso a vendicare l’onore offeso di sua figlia, il libertino approda a Siviglia e fra una scappatella amorosa e un’altra, tra cui la contadina Aminta, si reca al cimitero, dove urta contro la tomba di don Gonzalo, burlandosi del defunto e invitandolo a cena. La statua, “il convitato di pietra”, si presenta imprevedibilmente all’appuntamento, ricambiando a sua volta l’invito. Don Giovanni accetta e a quel punto la statua lo trascina all’inferno per punirlo delle sue malefatte.
Da quest’opera teatrale prende le mosse Marino Niola nel suo ultimo saggio Diventare don Giovanni, edito da Bompiani (2019), con l’intento di ricostruirne non tanto la genesi nelle sue varie versioni teatrali e letterarie, quanto l’antropologia di un mito che dall’Europa barocca arriva alla contemporaneità. L’autore ripercorre, come in un viaggio, le mosse del grande seduttore a partire dalla prima messa in scena del dramma seicentesco fino al capolavoro di Mozart sul libretto di Lorenzo da Ponte, passando per la versione di Moliere e prima ancora della commedia dell’arte. Sono stati i comici della commedia improvvisa, in particolare, i primi a rendere più popolare l’opera di Tirso, accentuandone gli aspetti satirici e mescolando le gesta dei nobili scapestrati e miscredenti del teatro gesuitico, come il conte Leonzio, con altri protagonisti atei fulminati dalla Chiesa.
Ma è solo attraverso la musica di Mozart che il don Giovanni diviene un mito universale, in quanto ne mette in atto la tessitura strutturale, così da percorrere tutti i tempi, adattandosi alle varie circostanze: si tratta, come ricorda Lévi-Strauss, di una melodia a più voci, che si compone e si ricompone, in senso sintagmatico e paradigmatico, attraverso una serie infinita di varianti. Ogni singola fabula rappresenta così l’esecuzione di una partitura, i cui elementi armonici affiorano attraverso l’insieme delle varianti e delle sue possibili combinazioni: dagli exempla seicenteschi al Burlador di Tirso de Molina, dai drammi gesuitici ai racconti popolari, dal Festin de Pierre de Molière ai convitati di pietra e agli ateisti fulminati dei comici dell’arte fino al don Giovanni musicale.
Niola focalizza in particolare due argomenti della narrazione che le conferiscono lo statuto di un mito: il carattere della dissolutezza come attacco eversivo alle istituzioni e la presenza del convitato di pietra come irruzione del soprannaturale sulla terra. La dissolutezza sfrenata di cui don Giovanni è portatore è da intendersi, in questo senso, come desiderio allo stato puro, carica istintiva e naturale che non ha requie, né viene mai totalmente appagato. In tale ottica il nostro protagonista è dominato da una tensione ossessiva verso le sue prede, un’energia fuori controllo dove tutte le soluzioni sono possibili e enunciate in progress dal catalogo di Leporello. La “vertigine della lista”, per richiamare un famoso titolo di Umberto Eco, che ben si addice al nostro caso, rappresenta appunto lo stato di incompiutezza della vicenda esistenziale del don Giovanni, determinata da un desiderio perenne verso l’altro sesso, un desiderio che non ha mai fine. Nell’atto di leggere l’elenco, il servo si sofferma pertanto su quel “milletrè”, che, come viene ribadito nel saggio, lascia aperte innumerevoli altre scelte.
È come se di volta in volta il don Giovanni si identificasse con l’oggetto delle sue conquiste, e non avendo un’identità propria, l’acquista nella sua capacità di relazionarsi con l’altro sesso. Siamo di fronte ad una personalità cangiante, ambigua e in continua metamorfosi, caratteristiche che, da un lato aderiscono in pieno all’estetica barocca, dall’altro rinviano alla natura del mito in generale come coincidentia oppositorum (Eliade). Diventare don Giovanni, come il titolo avverte, indica proprio la capacità di divenire altro da sé, di assumere, all’occasione, molteplici sembianze, esemplificate nel gusto del travestimento.
L’altro elemento su cui insiste l’autore è la dimensione oltremondana, rappresentata dal convitato di pietra, sullo sfondo del purgatorio, come luogo di mediazione fra l’inferno e il paradiso, il cielo e la terra. La dottrina cristiana attribuisce al purgatorio la facoltà del pentimento dei peccatori e della loro conseguente redenzione, attraverso l’intervento delle anime purganti, caritatevoli e misericordiose. In tal modo la statua animata perde, grazie alla pietas cristiana, le sembianze di fantasma o larva che si attribuiscono solitamente ai revenants, e può rivolgersi al dissoluto implorandone il perdono. Da qui il rifiuto del peccatore e la sua condanna all’inferno come rimozione del male e recupero degli equilibri.
L’immagine del seduttore impunito e l’offesa al morto camminano dunque di pari passo nella costruzione del mito: don Giovanni non soltanto si fa beffa dei mariti e dell’ordine coniugale insidiando le donne sposate, ma si fa beffa dei morti e di Dio stesso, arrivando a corteggiare una monaca. Il problema di don Giovanni non sta tanto nel suo professare l’ateismo come forma di disprezzo verso la religione e l’Essere supremo, quanto nel sovvertimento nei confronti delle istituzioni. In questo senso l’agire del seduttore va letto essenzialmente nella sua volontà di negare la capacità riproduttiva del matrimonio e della famiglia come fondamento della vita e della società. Il suo desiderio è irrefrenabile, fine a sé stesso, ma sterile e improduttivo, portatore di disordine. Tutto questo si pone in aperto conflitto con un assetto sociale che si regge sulla regolamentazione dei rapporti familiari, basati sull’onore e sulla fedeltà coniugale e finalizzati alla riproduzione della specie.
D’altra parte il carattere sostanzialmente ambiguo e trasgressivo del Burlador, seduttore impenitente, che costituisce una minaccia e un turbamento delle regole convenzionali, richiama per molti versi una serie di figure mitiche ricorrenti in tutte le società di ogni tempo e luogo. Il pensiero più immediato va al Briccone divino o trickster di Paul Radin, che con i suoi continui tiri beffardi mette a dura prova l’ordine esistente. Ed è stato Karl Kerenyi, a questo proposito, a confrontare il comportamento del briccone con quello di altre figure già presenti nella Grecia arcaica e classica e nell’antica Roma. Un esempio per tutti è dato dal Satyrikon, storie di uomini-satiri, rappresentati come esseri animaleschi, nerboruti e focosi, le cui azioni si collocano oltre il limite dell’eccesso, dell’indecenza e licenziosità. Si pensi, a questo proposito, all’importanza attribuita, fin dall’antichità, al Re Carnevale, già presente nei Saturnali romani e per tutto il Medioevo, come festa fondativa e rigenerativa del tempo attraverso il ribaltamento dell’ordine e l’abolizione delle gerarchie sociali, l’irruzione del caos, della dismisura, della crapula e dell’orgia, di tutto quello che Bachtin, a proposito di Rabelais nel Gargantua e Pantagruele, ha definito come il “basso materiale corporeo”. Personaggi dominati dalla sensualità sfrenata e dagli istinti irrefrenabili della carne, rinviano ad una lunga durata, rendendo il trickster più un universale mitologico che un personaggio narrativo: per dirla con Jung, uno psicologema, un archetipo che risale ai tempi più remoti.
Si tratta, in definitiva, di motivi che migrano di volta in volta da un universo sociale a un altro, riconfermando il bisogno periodico dell’uomo di esprimere al livello del mito e non della prassi, la rigenerazione del tempo attraverso la distruzione delle regole esistenti e l’abolizione delle differenze. In questo senso don Giovanni è dunque molto più di un semplice personaggio letterario e teatrale, come avverte in premessa l’autore: «è un mito. E come tutti i miti serve a dare un nome ai grandi nodi dell’essere». Proprio come Prometeo ed Edipo, che hanno finito per sussumere nel tempo diverse modalità dell’essere, anche don Giovanni è divenuto una categoria, dotata di un’infinita potenzialità combinatoria, che la rende estremamente duttile e adattabile a tutte le trasformazioni sociali, fino a quelle rapidissime della contemporaneità.
Un esempio concreto ci viene offerto da tutti quei siti e app che al giorno d’oggi promuovono sulla rete incontri ravvicinati di ogni tipo e natura. L’obiettivo, per gli interessati, non è tanto quello di avviare relazioni sentimentali approfondite e durature, quanto quello di accumulare esperienze, mordi e fuggi, proprio come nel catalogo di Leporello. Il nostro antico seduttore, con la sua carica sessuale bulimica e sfrenata, torna così a dare una risposta ai consumi immediati e compulsivi di una società usa e getta. E la risposta, anche in questo caso, non può che essere ambivalente, considerata la natura del personaggio: se da un lato le sue nuove vesti virtuali nascondono un’insofferenza alle regole e alle costrizioni, proclamando pur sempre un sentimento di libertà, dall’altro si presta alla mercificazione dell’eros e delle pulsioni amorose, un pericolo sempre più avvertito nell’era di internet.
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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