dialoghi antivirus
di Luca Bertinotti
Recita un vecchio ritornello inauditamente feroce [1]: «Ammazza la vecchia col flit», cui i più spietati “compositori”, spesso e volentieri, aggiungono: «E se non muore… col gas!». Il motivetto si è diffuso in Italia nel Dopoguerra, giungendo fino ai giorni nostri, rinverdito da una celebre scena di un film di animazione [2] degli anni Ottanta, che viene ancora oggi trasmesso con una certa frequenza sui canali televisivi. Se tutto questo è cosa risaputa, soprattutto per chi ha superato la mezz’età, non è così scontato il fatto che la molesta canzoncina – spesso rimaneggiata con alcune parole modificate all’uopo – possieda invece anche un inatteso valore storico.
Infatti, in Italia fu una fortunata pubblicità [3] ad adottare originariamente l’arietta che, però, venne opportunamente modificata in: «Ammazza la mosca, col Flit».
Il vocabolo inglese flit (“svolazzare”, “volare qua e là”), che era anche una forma abbreviata del termine fly tox (“veleno per mosche”), col tempo passò ad indicare il solo DDT [4]. Nel 1939 vennero scoperte le marcate proprietà tossiche nei confronti degli artropodi del suddetto composto chimico, che venne reclamizzato (e ampiamente venduto) come potente sterminatore di «mosche, tignuole, pulci, cimici, scarafaggi, formiche, tarli e zanzare». È interessante leggere quanto riportato nel sito del Museo delle Tradizioni “Gli arnesi di una volta” di Modica (RG) a proposito dell’utilizzo quotidiano del prodotto commerciale:
«Il Flit fu un brevetto che cambiò la storia: nel dopoguerra gli aerei americani sganciarono quantità infinite di questo insetticida, bonificando intere aree del pianeta dalla malaria, ivi compreso il territorio degli Iblei. La pompetta a uso domestico era decisamente pratica per le massaie. Molti ancora hanno memoria di questa specie di pompa da bicicletta con alla sommità un vasetto di lamiera che, riempito della lozione chimica, fuoriusciva grazie all’azione dell’aria compressa. Come si usava? Si chiudevano porte e finestre della stanza, si creava una semioscurità lasciando uno spiraglio di luce. Con un ventaglio si cacciavano le mosche, quelle rimaste erano, invece, destinate a soccombere. Il Flit era un liquido molto potente: fatale per gli insetti, terribilmente urticante per gli uomini; se lo si respirava, si avvertiva subito una sensazione di bruciore agli occhi quanto alla gola. Dopo averlo spruzzato si correva verso l’uscio sperando che il fratello birichino non avesse chiuso per scherzo la porta, perché bastava poco per far la fine della mosca a pancia riversa al suolo. Usato per anni interi, assicurò la pace del sonno, ma sparì dal commercio quando si attestò la sua pericolosità per la salute. Oggi quando, non di rado, il Flit affiora nei ricordi, state pur certi che da qualche parte nel mondo, e a Modica in particolare, un vecchietto sorride sui tempi andati»[5].
Il DDT è stato, dunque, un progenitore potente degli insetticidi moderni ed è innegabile che il suo uso intensivo su scala planetaria abbia contribuito a cambiare le sorti della lotta contro questi “scocciatori”, ma soprattutto a debellare in molti Paesi, Italia compresa, una delle malattie più temibili e diffuse di ogni tempo (conosciuta già ai tempi di Ippocrate), ovvero la malaria [6], nota anche col nome di paludismo, poiché anticamente si riteneva fosse causata dai miasmi (le “mal arie”) emesse dalle zone palustri. Alla fine del xix secolo fu scoperta la vera natura del morbo: un’infezione causata da un parassita del genere Plasmodium, trasmesso all’uomo dalla puntura della zanzara Anopheles [7].
Oggi questa zoonosi, che imperversa ancora nei territori tropicali e sub tropicali del pianeta mietendo ogni anno numerose vittime [8], nella nostra nazione conta, invece, una serie modesta di casi, per lo più non mortali, legati a spostamenti di nostri connazionali all’estero, verso i Paesi suddetti, a scopo turistico oppure a scelte migratorie di persone di altre etnie verso l’Italia [9].
La storia del DDT è emblematica da molti punti di vista, sia che la si consideri in un ambito scientifico, che in quello socio-economico, che, infine, in quello prettamente storico. La conoscenza in chimica e in medicina, così come nelle altre scienze, procede per gradi, con rigorose prove e controprove, e l’acquisizione dei “dati dal mondo reale” spesso fa da implacabile contraltare a ciò che laboratori e provette inizialmente suggeriscono agli studiosi. Così, il DDT venne ritirato dal mercato nel 1972 negli Stati Uniti, dopo un decennio di forti critiche ambientaliste [10], benché già nel 1950 la Food and Drug Administration avesse indicato una probabile sottostima dei potenziali rischi del suo utilizzo.
Oggi sappiamo che il DDT inquina l’ambiente naturale rimanendovi con lunghi tempi di dimezzamento (dai 2 ai 15 anni, a seconda della tipologia di suolo in cui si deposita) ed entra nella catena alimentare, passando all’uomo che consuma carni di animali al pascolo su terreni trattati col pesticida. Nell’essere umano il composto è un potenziale cancerogeno, possiede effetti negativi sul sistema endocrino e immunitario, sulla riproduzione, sullo sviluppo del feto e si accumula nel latte materno. In Italia il DDT fu messo al bando solo nel 1978, sebbene, oltretutto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) avesse dichiarato il nostro Paese libero dalla malaria ben otto anni prima.
Potrà sorgere spontaneo il dubbio che interessi di vario tipo possano aver giocato un ruolo fondamentale nella scelta di mantenere l’utilizzo del prodotto chimico i cui “anni d’oro” coincidono sostanzialmente con quelli del boom economico. Personalmente ritengo che sia poco appropriato esprimere giudizi nettamente “trancianti” su argomenti che toccano diversi aspetti d’interesse pubblico (anzi mondiale), molto complessi da definire nella loro interezza e non esauribili osservando le cose in modo rigidamente unilaterale. Non è un caso, ad esempio, che nel 2006 l’Oms, dopo averne soppesato rischi e benefici, abbia addirittura raccomandato l’utilizzo del DDT in alcune parti del continente africano per controllare la propagazione della malaria [11].
Limitandosi, tuttavia, alla realtà della nostra nazione e cercando di esprimere un giudizio quanto più moderato possibile, viene inevitabilmente da constatare che il clima di generale entusiasmo, che si viveva negli anni della rinascita (anni Cinquanta e primi anni Sessanta), possa in parte aver offuscato i giudizi più critici nei confronti di scelte sconsiderate, prese molto a favore del progresso sociale e della prosperità collettiva – ammesso che questi nobili propositi fossero davvero gli unici scopi di chi guidò il traino dell’economia della nazione! – e poco a salvaguardia del patrimonio naturale.
Ovviamente il caso del DDT è solo uno dei mille esempi apportabili in questo senso e certamente non il più grave; tutti comunque esempi di scelte che sono risultate decisive, qualche decina di anni dopo l’epoca dell’Italia del “miracolo”, nel determinare molti degli aspetti negativi del vivere odierno [12]. Inoltre, dal punto di vista storico, vi è da dire che, fino alla prima metà del xx secolo, anche in determinate zone d’Italia la malaria è stata un morbo a carattere endemico. In queste aree, pianeggianti e produttive, la presenza nefasta della zanzara Anopheles aveva provocato danni ingenti all’economia locale, rappresentando una delle maggiori concause di spopolamento e di emigrazione [13]. Le aree malariche coprivano circa 7 milioni di ettari e la malattia colpiva 2.635 comuni (il 3.7% dell’intero Paese). La minor incidenza dei casi di malaria (10% dei casi nazionali) comprendeva complessivamente il Veneto, la Toscana costiera, l’Abruzzo e i territori del Piemonte, della Lombardia e dell’Emilia Romagna bagnati dal Po. La malattia era, invece, più frequente in Puglia, in Basilicata, in Calabria, in Campania e nel Lazio (20% dei casi). Infine, le regioni maggiormente colpite erano Sicilia e Sardegna (70% dei casi complessivi).
La frequenza annua della malattia oscillò tra i 400 e gli 800 casi ogni 100 mila abitanti fino al 1934, quando furono decretate dal regime fascista specifiche misure di profilassi antimalarica su larga scala [14], fra cui le campagne di disinfestazione con DDT. Tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene che, più che a queste ultime, il successo sull’abbattimento dei casi di malaria si debba ascrivere alla realizzazione della bonifica dei territori acquitrinosi e agli investimenti estensivi nel settore agricolo, all’utilizzo capillare dei farmaci antimalarici (chinino) e al miglioramento dell’assistenza sanitaria e dell’igiene pubblica, all’alfabetizzazione e alla scolarizzazione [15]. Per quanto concerne l’utilizzo estensivo del DDT, va rammentato che la Sardegna fu oggetto fra il 1946 e il 1950 del Sardinian Project, sostenuto dall’International Health Division della Rockefeller Foundation insieme all’Ente Regionale per la Lotta Anti-Anofelica in Sardegna. L’operazione fu una sorta di esperimento sanitario che ebbe come finalità ufficiale l’eradicazione della malaria endemica [16].
Nel corso di un decennio – come vedremo fra poco le testimonianze del passaggio del DDT arrivano ai primi anni Sessanta – vennero irrorati con l’insetticida «case, edifici pubblici, scuole, fabbriche, fienili, le superfici interne dei ponti, i fortini militari, i pozzi minerari, le cave, le grotte, i tombini […]. In tutti i luoghi trattati vennero impressi numeri di contrassegno» [17]. Girovagando nei territori un tempo ad alto tasso di incidenza malarica, di tanto in tanto capita di imbattersi ancora oggi in scritte murarie che rammentano questi anni ormai lontani [18]. Accade soprattutto a chi è abituato a frequentare con occhio attento frazioni, borgate e paesi in totale abbandono, lasciati al proprio destino magari esattamente “sul più bello”: negli anni del boom economico. Mi è capitato di fotografare l’inconfondibile scritta “D.D.T.”, sempre seguita dall’anno di passaggio del disinfestante, sugli stipiti delle porte d’ingresso di case in rovina in varie parti d’Italia: a Carello, nel comune di San Giovanni in Fiore (CS), irrorato nel 1961, e a Tocco Claudio Vecchio (BN), bonificato più volte dal 1956 al 1963, nel villaggio minerario di Monte Narba presso San Vito (CA) e a Su Bullone vicino a Erula (SS), risanati rispettivamente nel 1950 e nel 1962.
Soprattutto, però, in terra sarda le scritte murali delle opere di bonifica sono ancora individuabili in varie città e paesi non abbandonati, con relativa frequenza e si presentano spesso ben conservate. Se ne possono incontrare a Desulo (NU) [19], a Sassari [20], a Cagliari [21].
Tuttavia, in questo ambito la palma della vittoria spetta indubbiamente Bosa (OR), che è straordinariamente ricca di iscrizioni riportanti la dicitura “D.D.T.”. Bosa, il maggiore centro abitato della Planargia, sorge lungo le sponde del fiume Temo, non distante dal mare. Generalmente il turista vi arriva percorrendo la Strada statale 129 Trasversale Sarda (SS129bis). Egli le dà una prima occhiata dall’alto, venendo immediatamente colpito dalla sagoma del castello dei Malaspina, dal quartiere delle antiche concerie (Sas Conzas) nate lungo il corso fluviale navigabile e attive fino ai primi del Novecento, e dalle esuberanti, molteplici colorazioni delle case del centro storico (sa Costa). Addentrandosi, poi, per le vie del borgo, che, come lunghi nastri paralleli interrotti da curve strette e in rapida salita, salgono verso il colle di Serravalle su cui sorge il castello duecentesco, lo stesso turista viene fatalmente catturato dalle varietà pittoriche delle facciate delle abitazioni, sia da quelle più sfarzose che, allo stesso modo, da quelle più dimesse.
Pur vivacizzata da tanto tripudio di colore, però, anche il viaggiatore più distratto riesce a percepire che Bosa è contraddistinta da un’armonia vagamente malinconica che non si spiega facilmente a parole e che comunque lo seduce. In passato pesca, pastorizia e agricoltura erano le attività prevalenti della popolazione che venne profondamente vessata dai casi di febbre palustre fino a che non vennero realizzate le campagne di eradicazione negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Nel periodo storico attuale, la tarda estate del 2020, annus horribilis in cui ha e sta infuriando ancora l’epidemia del xxi secolo, durante le ferie estive, mi sono trovato a visitare, insieme a Giulia [22], proprio Bosa, certamente con occhi diversi rispetto ad altre vacanze trascorse in passato nella terra dei nuraghi. Occhi affaticati per essere stati, per lavoro, entrambi impegnati in prima linea nei reparti Covid della nostra città (Pistoia), ma occhi anche molto felici e grati alla sorte per esserci potuti concedere un periodo di turistica serenità che solo fino a pochi mesi fa sembrava impensabile.
Tuttavia, per quanto le abitudini giornaliere (il ritmo sonno-veglia, le tempistiche degli spostamenti, i gesti, i pensieri e le parole, le scelte alimentari, ecc.) siano state evidentemente improntate alla ricerca del riposo e della tranquillità, i segni della pandemia sono stati comunque compagni presenti durante il nostro viaggio. La vacanza è stata fatalmente adombrata dal ricordo dei recenti avvenimenti vissuti e da vari effetti di essi. Alcuni li svelerà il tempo, altri li riesco a citare già oggi: ad esempio, la nuova mimica facciale di un volto costantemente mezzo nascosto che, giocoforza, destina ancora maggior potere espressivo allo sguardo; quella sorta d’intimo imbarazzo provato verso gli estranei incontrati lungo la via, specialmente nei luoghi chiusi o nei passaggi stretti all’aperto; il fastidio provato di fronte al comportamento superficiale, quando non apertamente “negazionista”, di individui imprudenti; il timore degli oggetti toccati poco prima da qualcun altro e la relativa attenzione assiduamente (quasi ossessivamente) prestata all’igiene delle mani; le mille aromatizzazioni inebrianti e nauseanti per la quota alcoolica dei gel disinfettanti per le mani posti all’ingresso di ogni museo, negozio, supermercato, hotel, bar, ristorante o altro esercizio al chiuso.
Riflettevo, spinto a immaginare impossibili parallelismi dalla strana miscela di storia evanescente e di viva attualità che si percepiva durante la visita di Bosa, mentre mi aggiravo per i suoi vicoli, fotocamera alla mano, cercando di cogliere immagini buone per questo articolo. Ponevo l’attenzione alternativamente alle architetture paesane e al mutato stile di vita che esibivano le nuove posture, le nuove abitudini, l’ostentazione delle mascherine più o meno “alla moda”.
A tratti mi pareva che i volti camuffati che incontravo, soprattutto quelli più giovani, avvertissero ancora più intensa la necessità di mettersi in mostra per lasciare almeno un fugace segno di sé nel mondo; a tratti, invece, altri visi, segnati dal tempo, sembravano quasi rasserenati all’idea di dover dare sfoggio delle proprie rugosità soltanto a metà. In ogni caso risultava palese che la grande paura del virus-mostro, risalente solo a pochi mesi fa, fosse quasi del tutto scomparsa o, per meglio dire, fosse stata oramai assimilata nel vissuto quotidiano della comunità (quella dei residenti e quella dei villeggianti), subendone così un processo di apparente “normalizzazione”.
Da viaggiatore in un luogo che iniziava a conoscere flussi turistici rilevanti quando io venivo al mondo, negli anni Settanta, cioè ormai durante la parabola discendente del miracolo economico italiano, provavo a immaginare quali potessero essere timori e speranze della popolazione bosana nei primi anni del Novecento, in un’epoca in cui molte malattie, come la tubercolosi, la malaria, la sifilide, il colera, la poliomielite, attualmente di scarsa serietà nel mondo occidentale [23], erano invece ancora fuori controllo e causavano un numero notevole di morti. Mi ritrovavo turista in un luogo che non conosceva certamente ancora il turismo di massa nella prima metà del Novecento, un mondo in cui, come nel secolo precedente, il soggiorno marino era prerogativa solo delle classi sociali molto agiate [24].
Tornando all’oggi e all’esperienza della pandemia da Covid-19, mi viene in mente che toccano ormai molto meno la sensibilità collettiva i vari scatti fotografici, dati in pasto ad Internet, inerenti ai brutti momenti vissuti dai pazienti e dagli operatori sanitari degli ospedali in affanno nel marzo-aprile scorso. Sono poche ancora le immagini che fanno davvero scalpore. Questo mi spinge a parlare nuovamente di fotografia. Ventiquattro ore dopo e a cento kilometri di distanza da Bosa, ho potuto immortalare un’anziana orgolese in abito scuro e con il fazzoletto nero in testa, tipico delle vedove.
La cortese signora, che si recava di fretta a prender la messa serale, mi ha concesso la sua attenzione e ha acconsentito a farsi ritrarre. Non può non spiccare la mascherina chirurgica che sbuca da sotto al copricapo. Continuando a giocare con i parallelismi impropri (ma forse poi non così tanto), l’immagine richiama alla mia mente quelle degli indigeni dell’Amazonia, decimati dal Sars-Cov-2, che televisioni e giornali ci hanno spesso offerto in questi mesi. Anch’essi appaiono per lo più ritratti nei loro variopinti costumi tradizionali, “violati” dai dispositivi di protezione anti Covid-19.
Mentre volgo questo scritto a conclusione, il sito del Johns Hopkins Coronavirus Resource Center [25] segnala che la pandemia ha raggiunto i 23 milioni e 926.683 casi nel mondo, mietendo 820.209 vittime, 35.445 delle quali solo in Italia. Cercando aggiornamenti e conferme in rete su un aspetto a me già noto per esperienza lavorativa diretta, quello della fascia di età più colpita, mi imbatto per caso in un articolo edito dal quotidiano online CN24TV a firma dello storico e sociologo Vito Barresi. Il titolo del pezzo giornalistico mi fa trasalire: «Ammazza la vecchia col Flit? No, fa peggio il Corona Virus che stermina a tappeto la nazione più anziana del mondo» [26].
Lo scritto è già “vecchio” (la data di pubblicazione è addirittura il 14 marzo 2020!), ma i dati riportati nel virgolettato di Silvio Brusaferro, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), sono sempre validi [27] e particolarmente significativi: la media dei morti per coronavirus supera gli 80 anni di età con un picco tra gli 80 e gli 89. Ad oggi 29.134 ultra settantenni sono deceduti a causa o per concausa del Covid-19, come se l’intera popolazione di un comune come Bra, Desenzano del Garda, Poggibonsi, Mondragone o Aci Catena fosse volata via. Un’ampia fetta di memoria storica nazionale è, dunque, improvvisamente scomparsa, un patrimonio prezioso di storie e di vissuti che si è perso repentinamente, nella grande maggioranza dei casi senza avere il tempo di dare l’ultimo doveroso saluto ai loro protagonisti.
Ringrazio l’anziana signora orgolese che ha scelto di posare per me. E tutto questo con buona pace del pensiero negazionista che si appella alla freddezza dei numeri, citando i tassi di letalità di altre pandemie, ben più elevati della malattia da coronavirus 2019, compiendo così paragoni storici impropri forse più di quelli fatti in questo scritto!
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Il motivetto ha origini d’oltreoceano poco nobili e affonda le radici nel ragtime, un genere musicale nato, a fine Ottocento, per allietare i clienti dei locali a luci rosse delle cittadine del Missouri e della Luisiana. La melodia fu composta da Charles Hale nel 1899 nella sua At a darktown cake walk. Sembra che la frase «Ammazza la vecchia col Flit» possa essere nata, quindi, come facezia rivolta verso la tenutaria del bordello, generalmente una donna di età avanzata, la quale, polverizzatore alla mano, passava a rinfrescare gli ambienti dopo l’uso.
[2] Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis, Amblin Entertainment – Touchstone Pictures, 1988.
[3] Vedasi anche https://tinyurl.com/y68mphzg.
[4] D.D.T. è un acronimo e il nome con cui viene comunemente identificato l’1,1-bis(4-cloro-fenil)-2,2,2-tricoloroetano. Sintetizzato già nel 1874, ma utilizzato come insetticida soltanto a partire dalla quarta decade del secolo scorso, il DDT è una sostanza chimica non diluibile in acqua, ma facilmente solubile negli oli e nei grassi. Per approfondirne la conoscenza si può consultare https://tinyurl.com/yxtjnyx8.
[5] Tratto da https://tinyurl.com/y4o7yn7e.
[6] Ad intuire la capacità insetticida del composto fu il chimico svizzero Paul Hermann Müller, premio Nobel per la medicina nel 1948 conseguita “per la scoperta dell’alta efficienza del DDT come veleno contro molte specie di artropodi”. Infatti esso è stato utilizzato nel controllo dei vettori di vari agenti eziologici, fra cui quello del tifo, del colera, della febbre gialla e della malattia del sonno, oltre che di quello della malaria. Per quest’ultimo molto valida è la sintesi storica offerta al seguente link: https://tinyurl.com/y6ft6ezo.
[7] Per un approfondimento rimando a https://tinyurl.com/y43hxetd.
[8] Solo nel 2018, su 228 milioni di casi riportati nel mondo, si sono avuti 405.000 decessi, il 67% dei quali erano bambini nella fascia di età inferiore ai 5 anni, come riportato in https://tinyurl.com/yxzaky4r.
[9] Vedasi https://tinyurl.com/y4v6cgkn.
[10] Fu in particolare il volume Silent Spring, scritto dalla biologa Rachel Carson, edito nel 1962, a decretare l’inizio della fine del DDT, rivelando ai numerosi lettori americani i potenziali gravissimi danni di un uso diffuso del prodotto nell’ambiente. In merito, vedasi ancora https://tinyurl.com/yxtjnyx8.
[11] C. Rehwagen, WHO recommends DDT to control malaria, in «British Medical Journal», vol. 333, n. 7569, settembre 2006: 622.
[12] D’altra parte la lezione non è stata certamente nemmeno recepita al giorno d’oggi. Rimanendo nell’ambito dei “veleni” ambientali, il DDT ha avuto successori tecnicamente ben più perfezionati e affidabili per un’agricoltura di tipo intensivo, ma che risultano, tuttavia, killer ancora più pericolosi sia per l’ecosistema in generale sia direttamente per l’uomo.
[13] https://tinyurl.com/y4t4tm7h. Nello stesso sito e dello stesso Autore, Vincenzo Medde, vedasi anche la prima parte del ricchissimo saggio: https://tinyurl.com/y2nkabyd e la seconda: https://tinyurl.com/y69bsqu2.
[14] https://tinyurl.com/y6ft6ezo
[15] Idem.
[16] Vedasi ancora https://tinyurl.com/y4t4tm7h. Ricercando video sul Sardinian Project in rete si trova, poi, il seguente documentario del 1949 in lingua inglese: https://tinyurl.com/y6df8k3f.
[17] Idem.
[18] La registrazione e lo studio delle testimonianze storiche fornite dalle scritture che si trovano sui muri delle case – certamente non solo quelle in abbandono – è un’attività di ricerca che meriterebbe di essere approfondita in uno spazio ben più ampio di questo. Oltre ai segni delle bonifiche antimalariche, vanno senza dubbio citati i motti fascisti, sempre più rari da trovare ormai, dipinti sui muri di abitazioni e palazzi spesso in posizione strategica. Essi rappresentavano un altro strumento di propaganda politica per il regime. Ne fa una vasta raccolta, ad esempio, il sito https://www.ventenniooggi.it/.
[19] https://tinyurl.com/y35j7ymn.
[20] https://tinyurl.com/y28t3yhk.
[21] https://tinyurl.com/y4ot7gam.
[22] A Giulia Melani sono debitore per l’idea di fondo di questo scritto.
[23] Per semplificare il discorso, tralascio (ma non ignoro) qui il sempre più consistente ritorno di alcune di esse. Vedasi su questo aspetto, ad esempio, quanto annotato da Mario Pappagallo sul Corriere della Sera: https://tinyurl.com/yxwgm4pd.
[24] A proposito dell’invenzione della spiaggia come luogo di relax si legga il saggio di Daniela Blei sul sito dello Smithsonian Magazine, al link https://tinyurl.com/uyytp9n.
[25] https://coronavirus.jhu.edu/map.html (dati aggiornati a mercoledì 26 agosto 2020).
[26] https://tinyurl.com/yy33vaze.
[27] Lo conferma il sito epicentro dello stesso Iss: https://tinyurl.com/y5hxyqq5.
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Luca Bertinotti, medico, fotografo, appassionato della ricerca in più campi, spinto dalla curiosità per luoghi, personaggi, tradizioni, eventi, spesso fuori dall’ordinario, ha fondato nel 2012 l’Associazione ‘9cento, di cui è attualmente presidente. Ha pubblicato Croci del Mistero. Origine, sviluppo e declino delle Croci della Passione, Gli Ori, Pistoia 2015 e ha curato la raccolta di saggi Da borghi abbandonati a borghi ritrovati, Aracne, Roma 2020. È inoltre autore di numerose esposizioni fotografiche, fra cui “Un lungo viaggio nell’abbandono”, mostra che ha preannunciato il convegno “Da borghi abbandonati a borghi ritrovati”, primo evento a carattere nazionale sul tema dei paesi totalmente spopolati della Nazione italiana. Vari suoi scritti sono stati pubblicati su Dialoghi Mediterranei.
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