di Elisabetta Dall’Ò e Giovanni Gugg
1. Tribolazioni della Marmolada
Il 3 luglio 2022, a 3.250 metri d’altezza sul massiccio della Marmolada, tra Trentino e Veneto, è stata registrata la temperatura record di 10,3° alle ore 14. In quegli stessi minuti una grossa porzione del ghiacciaio si è staccata, provocando un’enorme frana che ha travolto il percorso della più frequentata via di salita per quella zona delle Dolomiti, mentre vi erano decine di escursionisti. Le imponenti operazioni di soccorso sono state svolte in condizioni molto difficili, sia per l’area impervia, sia perché continuava a incombere la minaccia di nuovi crolli. Dopo alcuni giorni di ricerche e di analisi del DNA per identificare alcuni corpi, il bilancio è stato di 11 morti e 7 feriti.
Successivamente, il 17 luglio, un nuovo crollo ha formato un crepaccio di circa 200 metri di larghezza e 25 metri di spessore sul ghiacciaio della Marmolada, ma in questo caso non vi si trovavano escursionisti perché la zona era stata chiusa subito dopo la tragedia di inizio mese. Nell’area alpina sono tanti i ghiacciai sorvegliati costantemente, perché, per come sono fatti, alcuni loro pezzi potrebbero staccarsi e crollare, ma quello della Marmolada non era uno di questi: a memoria storica, non era mai successo che un grosso pezzo del ghiacciaio cadesse come è avvenuto il 3 luglio. Secondo l’ISP, l’Istituto di Scienze Polari del CNR, il crollo è stato imprevisto, per cui sono stati necessari alcuni studi specifici per comprendere la dinamica di ciò che è successo. Come spiegato dagli scienziati (ilPost.it 2022), «la presenza di molta acqua liquida sul ghiacciaio ha fatto staccare, ha spinto e poi ha fatto scivolare a valle una estesa porzione di ghiaccio, quasi un terzo di una placca con una superficie di 26mila metri quadrati». Prima ancora, però, questa meccanica è stata messa in moto dalla somma di due eventi negativi: «le temperature particolarmente alte a inizio estate accompagnate da un alto grado di “scopertura” del ghiaccio», ossia di scarse precipitazioni nevose durante l’inverno precedente, uno dei dieci più secchi e più caldi dal 1921. In altre parole, il ghiacciaio della Marmolada è stato sottoposto a uno stress enorme che può essere ricondotto all’aumento dei “fenomeni estremi” legati al cambiamento climatico.
Quando la Marmolada «non era sofferente e rappresentava un luogo di avanguardia per sci e alpinismo», come ha commentato Luigi Sardi (2022), era definita la “Regina delle Dolomiti” ed era il Regno dei Fanes, un popolo leggendario mite e alleato con le marmotte che, tuttavia, dopo la sostituzione della raffigurazione di una marmotta con quella di un’aquila all’interno del loro stemma, da parte di un re straniero, cominciò un’era di guerre con amazzoni, nani, stregoni e altre figure del meraviglioso della tradizione orale ladina (Palmieri 1996). La Marmolada, però, è sede anche dei racconti drammatici, come quelli sulla Prima Guerra Mondiale di Gunther Langes (2015), primo scalatore della parete nord di quella montagna, nonché militare austriaco (e poi italiano) di una vera e propria “guerra nel ventre dei ghiacciai”.
Il 2 agosto scorso, un mese dopo la tragedia della Marmolada, Diego Andreatta (2022) ha raccolto su “Avvenire” la testimonianza di un sopravvissuto, Mauro Baldessari, dirigente di banca e alpinista trentino, fondatore della sezione di Albiano della SAT (il sodalizio trentino associato al CAI), il primo a dare l’allarme al 112. Trovandosi in escursione insieme a un gruppo di appassionati di montagna, l’uomo ha spiegato che, dopo la sosta per il pranzo, si erano fermati ad aspettare un amico per rientrare a valle insieme: «Quell’attesa di un quarto d’ora ci ha cambiato la vita». Questo mutamento, racconta Baldessari, ha una declinazione molto intima e spirituale: «Dopo quanto è successo mi sento un po’ più vicino al Signore. Spesso in questo mese lo ho pregato e ringraziato anche lassù, davanti alle croci delle montagne dove sono tornato ad andare». Il cambiamento, tuttavia, sembra coinvolgere anche una dimensione collettiva ed ecosistemica, dal momento che aggiunge: «Mi dispiace pensare che quest’evento drammatico, come altri crolli, sta modificando le montagne. Penso che le nuove generazioni non potranno goderne come noi; devono tener conto che la montagna è splendida, ma ad una certa quota e in certi ambienti può essere anche “cattiva” con eventi imprevedibili come quello di trenta giorni fa».
Naturalmente, si comprende lo sconcerto di un uomo che è scampato alla morte per puro caso, dacché è intuibile in che senso usi il termine “cattiva” (non a caso scritto tra virgolette) in riferimento alla montagna; tuttavia, è utile ricordare che il timore reverenziale verso la natura c’è sempre stato, spesso tramandato nella cultura popolare con figure specifiche. Ad esempio, sul “Corriere della Sera” del 5 ottobre 1933 Dino Buzzati – anch’egli profondo appassionato delle Dolomiti e, in particolare, della Marmolada – scrisse: «Una grave perdita indubbiamente subirono le Dolomiti con la scomparsa degli gnomi. [La loro presenza] salvaguardava le montagne dagli indiscreti. Non lasciando avvicinar curiosi, essi garantivano alle crode la solitudine e la quiete. Erano ottimi guardiani» (Buzzati 1998: 1369).
2. Geografie del sacro
Il legame tra comunità, ghiacciai e territorio si coniuga anche attraverso la complessa sfera del sacro e del soprannaturale: i culti popolari, i pellegrinaggi, gli spazi sacri, le ritualità magico-religiose ci permettono di cogliere i meccanismi dialettici attraverso i quali le comunità sacralizzano lo spazio e ritualizzano gli eventi —anche quelli climatici e disastrosi— che segnano il loro destino. Nei territori di montagna possiamo tracciare una mappa ideale che permette la ricognizione di una particolare e antichissima “geografia del sacro” grazie a una diffusa presenza di segni e simboli sacralizzati e alla devozione popolare: dalle incisioni rupestri all’utilizzo di simboli apotropaici a protezione delle case dalle valanghe, dalle piccole edicole votive, spesso lungo i percorsi destinati ai pellegrinaggi, alle cappelle dei villaggi, dagli eremi isolati ai santuari di alta montagna. Questi simboli, che punteggiano e attraversano il territorio, sono testimonianza e memoria di come la relazione con il “sacro” si intrecci indissolubilmente con l’esigenza umana di arginare e di fare fronte ai rischi e ai pericoli, e in ultima analisi alla dissoluzione della morte. Rocce, lastre, pose, edicole, croci, sono state spesso utilizzate come segni, come marcatori di “senso” di allerta e di pericolo, e hanno al contempo preservato nel tempo la caratteristica di “luoghi sacri”; si tratta di quei luoghi, come avrebbe detto Fabietti, in cui il rito “fa” la religione. E il rito è sempre e comunque un modo di rapportarsi con oggetti, spazi, luoghi, materia: tutte cose che rendono estremamente concreta l’esperienza religiosa.
«Queste cose, manufatti, materia anche bruta come la terra delle rocce, sono ciò entro cui “precipita” talvolta il senso della pratica religiosa, dove il rito (gesto, preghiera, e vocazione, manipolazione gli elementi di varia natura) fa la religione, la rende cioè “concreta”, comprensibile e comunicabile agli occhi stessi di coloro che vi si riconoscono» (Fabietti 2014: 153).
All’indomani del Concilio di Trento, in relazione alle necessità della Chiesa cattolica di affermare, in contrapposizione alla Chiesa riformata, la legittimità del culto della Vergine Maria e dei santi, ma anche in relazione alle mutate condizioni sociali e demografiche, si è riscontrato sul territorio alpino un vero e proprio proliferare di costruzioni e dedicazioni di piccoli edifici sacri, cappelle, oratori e santuari dedicati alla Vergine e ai santi. Tramite questi intercessori le comunità invocavano la protezione divina contro le drammatiche, e assai frequenti, calamità naturali: in primis alluvioni, valanghe e frane. Testimone di questa ritualità è la presenza di numerosi edifici votivi, spesso posti a margine di centri abitati, o in prossimità dei torrenti, dei canaloni di discesa delle valanghe, o lungo sentieri franosi, o ai piedi dei ghiacciai. Molto comune, e pure molto antica, è ad esempio la dedicazione di santuari e cappelle a san Defendente, santo martire della Legione Tebea, venerato in tutta Italia come protettore contro i lupi e gli incendi e, nelle valli alpine, soprattutto contro valanghe, frane e inondazioni.
Ai piedi del Monte Bianco, alla base del ghiacciaio della Brenva in Val Vény, sorge il santuario mariano di Notre-Dame de la Guérison: i primi segni di culto risalgono al XVI secolo, periodo in cui era stata collocata una croce nel punto esatto su cui ora si trova il santuario, in un luogo chiamato berrier, toponimo che nel patois franco-provenzale significa roccia, pietra. Testimonianze fondamentali di questo intreccio tra sacro, morte, devozione, e protezione dai rischi naturali, sono gli ex-voto conservati nel santuario: cronache figurate, a volte anche sorprendentemente dettagliate e circostanziate, che permettono di ricostruire la dinamica di alcuni eventi e disastri avvenuti nel tempo. Sono comuni dipinti, tele, e oggetti che raffigurano scene di santi e apparizioni mariane nell’atto di intervenire deviando corsi d’acqua e sciogliendo valanghe a protezione delle comunità, dei pascoli, dei terreni e dei viandanti. Il luogo sacro, qui, questa “frontiera” tra ghiacciaio (luogo pericoloso, incerto, minaccioso) e società (il luogo dei viventi, delle attività, della cultura) connette e riconnette i significati locali – storici e antropologici – dell’esperienza religiosa con le pratiche attraverso le quali “si fa” religione.
3. Castigo, scienza, esorcismi
E mentre gli abitanti delle Alpi guardavano ai cambiamenti – climatici e morfologici – del loro ambiente come a delle maledizioni o a dei castighi divini, edificando santuari e invocando l’intervento del soprannaturale, la scienza settecentesca, alle prese con gli stessi grandi misteri, muoveva i primi passi al di fuori del “sacro”. Le teorie del sollevamento e dell’erosione, per quanto banali possano sembrare oggi, nel Settecento erano ancora in discussione; e se a livello teorico questi principi erano già compresi e condivisi, la loro applicazione era frenata dalla Bibbia, per cui l’affermazione che in un certo momento il globo fosse stato sommerso dalle acque veniva accettata senza discussione. Il “sistema di conoscenze” della società dell’epoca, di cui religione e scienza erano parte fondamentale e imprescindibile, mostra bene come la condivisione e l’adesione alle “credenze” siano da sempre, e storicamente, tutt’altro che omogenee e meccaniche: ogni sistema religioso, ci ricorda Goody (2000), contiene degli spazi per l’incertezza, l’incredulità, il dubbio, o per lo meno per l’indifferenza, l’«adesione puramente formale e superficiale». Ogni religione prevede una serie di quadri generali di ordinamento e di interpretazione della realtà, all’interno dei quali si muove il comportamento e si effettuano le scelte e le strategie dei singoli (Comba 2008). Quanto ai ghiacciai, si può dire che costituissero la sfida scientifica del secolo; molte, e cruciali, erano infatti le domande che sollevavano.
Come si erano formati? Perché si muovevano? E a che velocità? Qual era la causa delle morene che si accumulavano ai loro margini, e al centro? Perché avanzavano e si ritiravano in modo tanto inesplicabile? E, cosa più importante, avevano forse qualcosa a che fare con le cosiddette rocce “erratiche”? Ovvero quei massi, totalmente estranei al paesaggio nel quale giacevano, che si incontravano disposti ad altitudini inspiegabili in tutto il Nord Europa, e in modo particolare in Svizzera e sul massiccio del Monte Bianco. Per la maggior parte di queste domande erano state formulate varie risposte, e anche se il passaggio dall’interesse per i ghiacciai a quello per i fenomeni ad essi connessi (i cambiamenti climatici) era ancora di là da venire, si stavano gettando le basi delle scienze climatiche e meteorologiche (Dall’Ò 2019). I ghiacciai erano dunque la chiave per accedere ai segreti del clima, una considerazione alla quale era giunto sorprendentemente nientemeno che Kant, con straordinario anticipo rispetto alle teorie glaciali apparse solamente diversi decenni più tardi [1].
La metafora del “ghiaccio vivo” (Camanni 2010), dotato cioè di una qualche forma di “agency”, o “volontà” di azione generalmente distruttiva, è entrata negli immaginari popolari alpini con vigore già a partire dalla fine del ‘500. Le Roy Ladurie (1982) evidenzia come proprio in quegli anni i ghiacciai abbiano dato i primi segni visibili di una inesorabile avanzata, fenomeno che negli immaginari mitico-religiosi dell’epoca, venne associata al castigo per i peccati commessi dalle popolazioni locali. Fin dagli inizi della PEG (la “piccola era glaciale”, approssimativamente dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo), il problema più evidente e catastrofico, oltre che il meglio documentato, fu la relazione tra espansione glaciale e alluvioni: i ghiacciai che scendevano verso valle ostruivano i corsi d’acqua che vi si generavano, provocando degli invasi e dei laghi di sbarramento destinati a tracimare travolgendo tutto quanto si trovasse a quote inferiori. Sul versante francese del Monte Bianco, nel Seicento, per scongiurare l’avanzata glaciale e le alluvioni, gli abitanti di Chamonix misero in atto diversi riti in emergenza: dalle richieste di “visite pastorali di conforto”, agli esorcismi dei ghiacciai. Nel 1644 gli amministratori della cittadina savoiarda pregarono il monsignore Charles de Sales di esorcizzare il Glacier des Bois (il ghiacciaio dei boschi) che incombeva sul fiume Arve, e che avrebbe potuto sbarrarne il corso travolgendo e radendo al suolo l’intero paese. Il rito venne poi ripetuto nell’ottobre del 1664 e nell’agosto del 1669, e ancora nel 1690, in occasione di alcuni preoccupanti episodi di avanzata glaciale.
4. Requiem per un ghiacciaio
Nella seconda metà del XVIII secolo i ghiacciai erano diventati uno dei soggetti preferiti della pittura occidentale durante l’Illuminismo, rappresentando un passaggio essenziale nella storia della pittura paesaggistica, particolarmente evidente durante il Romanticismo (Drahos 2014). Come i vulcani, anche i ghiacciai affascinavano sia sul piano estetico che scientifico: la loro struttura ed evoluzione nel tempo, la loro velocità di movimento e i loro effetti sul territorio circostante erano di grande interesse. Il primo artista a studiare sistematicamente i ghiacciai alpini fu il pittore svizzero-tedesco Caspar Wolf, che dipinse il ghiacciaio di Lauteraar nel 1776, una delle sue opere più emblematiche, in cui si vedono piccole figure che si interrogano sulla costituzione delle rocce con la maestosa visione del ghiacciaio in lontananza. Altro esempio importante è “Le Glacier du Rhône”, il cui dipinto del 1778 mostra un ghiacciaio pedemontano senza neve sulle rocce, dacché si evince che la scena si svolge in primavera o in estate, sebbene l’artista decida di far occupare l’intera larghezza del quadro alla massa di ghiaccio, permettendo all’osservatore di scorgere le crepe in via di formazione lungo gli ultimi tratti rocciosi dove si sono rifugiati due viaggiatori e il loro cane.
Nel corso del tempo, tanti altri hanno ulteriormente indagato e sviluppato la pittura glaciologica, come agli inizi dell’Ottocento Caspar David Friedrich e Carl Gustav Carus, spesso definibili sia artisti che scienziati: la loro arte ha permesso di avere dei documenti visivi ricchi di informazioni scientifiche, per cui rappresentano delle preziose testimonianze sullo “stato di salute” dei ghiacciai alpini prima dell’avvento della fotografia, dei veri e propri “ritratti” in cui distinguere le varie parti più caratteristiche dei ghiacciai (la zona di accumulo, la linea di equilibrio e la zona di ablazione), ma anche il loro colore (quanto più è cristallino, più il ghiaccio è giovane e fresco), le condizioni dei serracchi (dei grandi blocchi di ghiaccio formati dalla frattura di un ghiacciaio), dei blocchi erratici, delle morene e così via.
Successivamente, l’arte visuale (in tutte le sue declinazioni tecnologiche) ha continuato a prestare attenzione ai ghiacciai, ma più di recente si è aggiunto anche il contributo sonoro, sebbene in declinazioni diverse. In particolare, l’artista multimediale canadese Julia Calfee ha esposto nel 2010 il suo progetto “The Last Songs of the Glaciers” all’Art Basel Fair e al Verbier Green Pioneering Summit, sempre in Svizzera. Il lavoro era un dialogo tra registrazioni e fotografie dello scioglimento dei ghiacci, riprese per mesi sul ghiacciaio Länta, tra i cantoni dei Grigioni e del Ticino, a 2.100 metri sul livello del mare, abitando in una baracca in condizioni rudimentali e archiviando 300 brani audio accompagnati da fotografie in bianco e nero. Nel 2014, Calfee ha pubblicato una selezione di immagini in un libro, insieme a un disco in vinile con una “sinfonia” «composta dalle registrazioni audio dello scioglimento del ghiacciaio», della durata di 20’24”, intitolato “A Glacier’s Requiem” (2016).
Similmente, dall’ottobre 2013, per un anno, i due artisti visuali statunitensi John Walker e Ben Canales hanno compiuto cinque missioni di registrazione nelle grotte Snow Dragon e Pure Imagination del Sandy Glacier in Oregon, realizzando “Requiem of Ice” [2], un progetto visivo e sonoro che documenta il deterioramento e il crollo del sistema di grotte glaciali intorno al monte Hook. La voce narrante del filmato recita una sorta di orazione del ghiacciaio stesso:
«My end is near. Time will shape my legacy. […] I speak the language of water and air. My breath twists and curls across the mountain summit. […] Water drips and seeps into open veins through scalloped tunnels of time. I am tortured with roots to a mountain that can no longer sustain me. I feel weak. […] I retreat deeper into the shadow of the mountain. What will become of me? […]» [3].
Un altro “Requiem for a Glacier” [4], invece, è il titolo della sinfonia che Paul Walde ha composto ed eseguito nel 2013 in cima al ghiacciaio Farnham del British Columbia, nel Canada occidentale, per due ragioni: sensibilizzare sul riscaldamento climatico e protestare contro un progetto che prevedeva la costruzione di una stazione sciistica sul vicino ghiacciaio Jumbo. L’opera è stata diretta da Ajtony Csaba, maestro della Central European Chamber Orchestra e della University of Victoria Symphony, ed eseguita da 30 strumentisti e da un coro di 40 elementi. Non ci sono stati spettatori, se non una trentina di tecnici del suono e delle immagini, oltre che alcune guide alpine e sherpa, i quali hanno documentato la performance per realizzarne un’installazione che, negli anni successivi, è stata presentata in varie istituzioni, come il Langham Cultural Centre (a Kaslo, in British Columbia), l’Oxygen Art Center (a Nelson, sempre in BC) e la Galerie des Arts Visuels dell’École d’Art dell’Université Laval (nella città di Québec, nel Canada francofono).
L’opera di Walde è stata realizzata in collaborazione con la gallerista Kiara Lynch e le comunità Kootenay dell’area, e tecnicamente è un oratorio, cioè un concerto che, a differenza dell’opera lirica, è senza rappresentazione scenica o personaggi in costume. “Requiem for a Glacier” è organizzato in quattro movimenti, ciascuno dei quali ha uno specifico focus narrativo: la storia del ghiacciaio, l’avvento dell’elettricità, il cambiamento climatico e l’annuncio del governo della British Columbia per la costruzione di un resort sciistico aperto tutto l’anno. Come ogni requiem, inoltre, il libretto del coro è in latino, che in questo caso è la traduzione del comunicato stampa con cui nel 2012 le autorità della provincia canadese avevano annunciato l’approvazione dei lavori del complesso turistico intorno al ghiacciaio Jumbo. Musicalmente, inoltre, la composizione si caratterizza per un ritmo lento, ma crescente, una scelta che allude all’aumento delle temperature del posto negli ultimi decenni, secondo i dati scientifici forniti dal centro meteorologico dell’università locale.
Il più celebre componimento musicale per la salvaguardia dei ghiacci, tuttavia, è del 2016: “Elegy for the Arctic”, scritto da Ludovico Einaudi per una campagna di Greenpeace a tutela dell’Artico dallo sfruttamento e dai cambiamenti climatici. Il video del brano, disponibile sul canale YouTube dell’artista [5], è particolarmente suggestivo e drammatico, dal momento che Einaudi è ripreso su una piattaforma galleggiante dove suona il brano al pianoforte, mentre in lontananza si scorgono dei crolli da un ghiacciaio Wahlenbergbreen, nelle isole Svalbard (Norvegia). Come ha dichiarato lui stesso, «l’Artico non è un deserto, ma un luogo pieno di vita, di cui ho potuto apprezzare la purezza e la fragilità», per poi esortare tutti ad una presa di coscienza sulle «minacce che subisce a causa del riscaldamento globale, dacché dobbiamo comprendere l’importanza dell’Artico per proteggerlo prima che sia troppo tardi» [6].
Come la pittura due secoli fa, così oggi la musica e, più ampiamente, le arti sonore provano a descrivere i ghiacciai nel loro scioglimento goccia dopo goccia, ispirandosi alla scienza, anzi usandone i suoi dati sul clima e le relative misurazioni, ma anche fornendo una chiave interpretativa che non è meramente descrittiva e didascalica, bensì emozionale ed empatica. Quarant’anni fa, Marcia Herndon e Norma McLeod scrissero che:
«La musica, come ogni altra varietà del comportamento umano, può avere il compito di sottolineare l’importanza di un determinato evento. Quando un gruppo si siede a un banchetto di nozze, la musica è necessaria per definire speciale quell’avvenimento. Le esibizioni che segnano i momenti cerimoniali della vita sono comuni, ma molte società usano la musica come collante sociale di qualche tipo» (Herndon, McLeod 1982: 100).
I requiem per i ghiacciai permettono di sentire più chiaramente e più intimamente il processo epocale che stiamo vivendo, intensificano il senso di connessione con gli altri – umani e non umani – e con l’ecosistema, ma soprattutto creano un sostrato favorevole all’elaborazione sentimentale e all’interpretazione cognitiva di un fenomeno – il cambiamento climatico – che, ad oggi, non riusciamo ancora a comprendere nella sua interezza con la sola razionalità, né a gestire con il solo accumulo di dati e informazioni, per quanto siano essenziali. D’altra parte, il dibattito stesso sul concetto che indica la nostra era – Antropocene (Crutzen 2000) – è particolarmente vivace e denso (che per molti può risultare disorientante), infatti la sua definizione non trova ancora consenso unanime tra gli studiosi e i ricercatori che si occupano di questioni ambientali ed ecologico-politiche (Barca 2018, Iovino 2020). Per fare un esempio delle critiche più interessanti e promettenti, la tesi sul Capitalocene di Moore (2016) ha sostenuto come il capitalismo non “avrebbe” un regime ecologico, ma di fatto “sarebbe” un regime ecologico, ovvero un modo specifico di organizzare la natura. In quest’ottica, pur ammettendo che quello di Antropocene sia un concetto importante, specie se riferito ai mutamenti in atto, Moore lo ritiene problematico, perché rischia di essere impiegato come una “parola alla moda” che finisce per negare «la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo» (Moore 2016: 31), mentre invece i responsabili dei problemi creati dal capitale sarebbero in definitiva tutti gli esseri umani. Francesco Remotti, invece, osserva che la manipolazione violenta della natura e degli ecosistemi, la sottomissione dei fenomeni e dei processi naturali all’intervento umano, sono atteggiamenti che appartengono non solo al capitalismo, ma anche, e più marcatamente, al comunismo (Remotti 2020).
Con tutta evidenza, nella corposità e porosità del confronto e delle preoccupazioni attuali, forse la musica può rappresentare quell’ingrediente cruciale che può aiutarci a navigare nell’oceano sociale e ad orientarci nel movimentato e turbolento ecosistema che stiamo riscoprendo; più nello specifico, l’esecuzione pubblica della musica, tanto su un ghiacciaio in agonia quanto nella sala multimediale di un museo contemporaneo, probabilmente può rivelarsi una pratica semplice ma profonda attraverso la quale riusciamo non solo ad esprimere, ma anche ad alleviare le tensioni in cui siamo immersi.
5. Funerali di ghiaccio
Se la musica è considerabile un “social glue” (collante sociale), è anche vero che molto dipende dal contesto in cui questo avviene. A questo proposito, uno dei suoi ecosistemi più favorevole è senza dubbio il rito, dove la musica e il canto sono elementi essenziali all’interno di un complesso di parole e gesti culturalmente codificati, ovvero radicati e condivisi da tutti i partecipanti. Francesco Della Costa spiega che i riti «rappresentano il dispositivo di base che l’uomo utilizza, in alcuni momenti e situazioni specifiche, per trascendere l’insensatezza della realtà, per stabilire la propria presenza e rifondare il mondo e la sua storia» (Della Costa 2022: 5). I riti, cioè, fanno riferimento a uno specifico “ethos”, a un tesoro di rappresentazioni riconosciute e, più in particolare, i riti del cordoglio sono un complesso di pratiche e valori trasmessi attraverso la storia che, dice Ernesto de Martino, servono a superare il «rischio di perdere la presenza»; sono, in altre parole, l’insieme del «lavoro speso per tentare la guarigione» dopo il trauma (de Martino 2008: 15).
Con definizione forzata, ma mediaticamente efficace, in varie località del pianeta negli ultimi anni sono stati effettuati “funerali” per i ghiacciai, in cui, oltre al corteo “funebre” e alle orazioni per il “defunto”, sono stati eseguiti anche dei “requiem” appunto. È il caso di una serie di iniziative promosse in Italia da Legambiente e altre associazioni dal 27 al 29 settembre 2019, quando sono state organizzate delle escursioni su diversi ghiacciai alpini: dal Lys (Aosta) al Monviso (Cuneo), dallo Stelvio (Bolzano) alla Marmolada (Trento e Belluno) e altri ancora. Il progetto ha presentato ciascuna camminata come una “veglia funebre” e, nel concreto, è consistita in un trekking di alcune ore (con relativa attrezzatura), in una spiegazione naturalistica da parte di esperti (accademici, tecnici e attivisti) e, infine, in un’esecuzione musicale (in genere con violino o con corno delle Alpi), in modo da permettere un «un avvicinamento emotivo e un’osservazione diretta» a quello specifico ghiacciaio e, di conseguenza, per «toccare con mano la drammaticità dei cambiamenti climatici e gli effetti visibili sul nostro pianeta» [7].
Uno dei “funerali” più partecipati è stato quello per il ghiacciaio del Lys, in Valle d’Aosta, il 27 settembre 2019, quando almeno un centinaio di persone sono salite ai 2.400 metri di altezza delle Sorgenti del Lys e, dopo due ore di marcia e diverse riflessioni sul clima, hanno potuto ascoltare un concerto di Martin Mayes, suonatore svizzero di corno delle Alpi. Le sue melodie, che rientrano in «una lunga tradizione di corni legati a riti antichissimi» presso tutte le culture montane, hanno creato un’atmosfera delicata ed ovattata per cui, ha aggiunto la cronista Vanessa Vidano, «il ghiacciaio sembra ascoltare quelle musiche in solenne risposo» [8]. Si è trattato di un “rito” dalle tante sfaccettature. È stato presentato come un “rito di cordoglio”, tuttavia il ghiacciaio è – per fortuna – ancora al suo posto, sebbene sia in precarie condizioni; ma è inquadrabile anche come un “rito di emergenza” (Gugg 2014), perché è una modalità con cui la comunità (locale, degli scienziati, degli ambientalisti…) si stringe dinnanzi ad una crisi in atto e particolarmente preoccupante, quale è infatti il cambiamento climatico; tuttavia è interpretabile anche come un “rito di contenimento” (Ali 2021), ossia come un’azione volta a mitigare gli effetti di quel determinato avvenimento nefasto, soprattutto attraverso la sensibilizzazione e la presa di coscienza collettiva.
Stando alle statistiche più recenti, solo un italiano su cinque va a messa regolarmente, eppure la quasi totalità dei funerali continua a essere religiosa. Come osservano Asher Colombo e Barbara Saracino (2022), «i dati mostrano la persistenza di elementi cerimoniali propri di una lunga tradizione, tra cui spiccano i ricordini [cioè le immaginette del defunto], e le processioni, anche solo in forma ridotta e parziale». È probabile, dunque, che l’efficacia dei “funerali dei ghiacciai” possa poggiare proprio su questa larga e diffusa presenza nel Paese di cerimonie funebri religiose. Sebbene quelle per i ghiacciai morenti non siano delle “liturgie” prettamente religiose, né principalmente spirituali, il richiamo ad un patrimonio di conoscenze tradizionali, fatto di uno specifico linguaggio e di certi gesti, garantisce non solo un buon livello di partecipazione, ma anche una ragguardevole copertura mediatica, considerando la presenza di giornalisti e di testate locali e nazionali [9].
L’ispirazione dell’iniziativa, tuttavia, è venuta da più lontano, perché poco più di un mese prima, il ghiacciaio del Lys, in Valle d’Aosta, il 27 settembre 2019 (il ghiacciaio del monte Ok), il primo dell’isola ad aver perso il suo status, quando nel 2014 fu dichiarato ufficialmente “morto”. L’occasione era stata organizzata dagli antropologi statunitensi Cymene Howe e Dominic Boyer, che volevano apporre una placca commemorativa del ghiacciaio Okjökull, su cui nel 2018 avevano realizzato il documentario “Not Ok”, che ripercorreva i suoi 700 anni di età [10]. Consci che «la fine di questo ghiacciaio ci dice qualcosa sui cambiamenti catastrofici che stiamo vedendo intorno ai bacini glaciali ovunque sul pianeta», i due studiosi avevano organizzato il “funerale” con l’obiettivo di dare ulteriore visibilità alla tematica, anche lasciando una traccia concreta: «Le lapidi testimoniano cose che gli umani hanno fatto, realizzazioni, grandi eventi.
Anche il decesso di un ghiacciaio è un’azione umana, anche se molto discutibile, in quanto è il cambiamento climatico antropogenico ad aver indotto questo ghiacciaio a sciogliersi» [11]. Questa pratica potrebbe rientrare nell’espressione “memorie dei ghiacciai”, con cui si fa riferimento non solo all’ambito delle scienze geologiche in cui è comunemente utilizzata in relazione ai campionamenti glaciali [12], ma anche ad alcune innovative ricerche di ambito antropologico che mettono in relazione questi oggetti o, anche, le loro dimensioni culturali, con le forme di umanità che li hanno abitati, attraversati, studiati, immaginati, mitizzati (Le Roy Ladurie, Vasak 2010; Orlove et al. 2008; Carey 2007; Dall’Ò 2019; Fangan 2000; Holzhauser, Zumbühl 1999).
Alla cerimonia avevano partecipato la prima ministra islandese Katrin Jakobsdottir, il ministro dell’Ambiente Gudmundur Ingi Gudbrandsson e l’ex presidente irlandese Mary Robinson, con tanti scienziati, attivisti e cittadini, i quali, una volta risalito il vulcano a nord-est della capitale Reykjavik, avevano apposto una targa su una roccia, con il testo dello scrittore islandese Andri Snaer Magnason per le generazioni future:
«Ok è il primo ghiacciaio islandese a perdere il suo status di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni tutti i nostri principali ghiacciai avranno lo stesso destino. Questo monumento è un riconoscimento che sappiamo cosa sta succedendo e cosa deve essere fatto. Solo voi sapete se l’abbiamo fatto».
In chiusura della lettera ai posteri, oltre alla data della cerimonia è presente anche il livello di concentrazione di anidride carbonica nell’aria a livello globale: 415 parti per milione. Si è trattato di un momento simbolico, ma il mutamento sociale ed ecologico si alimentano anche di questa dimensione, oltre che di “promemoria” che evitino di “normalizzare” determinati eventi storici. Come poi Magnason ha ulteriormente argomentato nel suo libro Il tempo e l’acqua (2020):
«Se le previsioni degli scienziati sul futuro del mare, dell’atmosfera, del clima, dei ghiacciai e degli ecosistemi costieri di tutto il mondo si riveleranno esatte, mi domando con quali parole potremo descrivere una questione di tale portata. Quale ideologia potrebbe abbracciare eventi come questi? […] Nei prossimi cent’anni si verificheranno dei cambiamenti fondamentali nelle caratteristiche dell’acqua del nostro pianeta. Molti ghiacciai al di fuori delle calotte polari si scioglieranno vistosamente, il livello degli oceani si innalzerà, la temperatura della Terra salirà causando periodi di siccità e inondazioni, e il grado di acidità dei mari cambierà più di quanto sia avvenuto negli ultimi cinquanta milioni di anni. E tutto succederà nell’arco della vita di un bambino che nasca oggi e arrivi ai novantacinque anni, l’età che ha adesso mia nonna» (Magnason 2020: 12-13).
Da allora, “funerali dei ghiacciai” sono stati “celebrati” in molte altre zone, oltre a quelli già citati organizzati da Legambiente: in Svizzera per il ghiacciaio del Pizol (settembre 2019) [13], in Italia sul Gran Sasso per il ghiacciaio Calderone (ottobre 2019) [14] e sulle Alpi Orobie per il ghiacciaio del Gleno (agosto 2020) [15], in Oregon (USA) per il ghiacciaio Clark (ottobre 2020) [16]. Evidentemente, il linguaggio simbolico può aiutarci a sentire e a capire, perché «non tutto ciò che è spiegabile è per ciò stesso comprensibile» (Ligi 2009: 62), nel senso che non necessariamente certi atteggiamenti sono dovuti a ignoranza dei fenomeni o a un’inadeguata preparazione scolastica, quanto invece da una sorta di «blocco di senso» derivante dall’enormità della questione.
6. I ghiacciai nella storia del clima e dell’umanità
Pensando alle grandi questioni legate all’Antropocene, l’era in cui “noi”, come specie, siamo diventati veri e propri “agenti” di impatto ambientale, David Quammen individua tre grandi problemi da affrontare immediatamente: il pericolo di nuove malattie pandemiche, i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità. Come ha spiegato lui stesso al Salone del libro di Torino il 14 maggio 2020:
«Questi tre problemi sono come tre fiumi che scorrono paralleli tra loro, ma tutti si originano dallo stesso ghiacciaio sulla stessa montagna, e tutti hanno la stessa destinazione ultima: la distruzione degli ultimi ecosistemi vergini da parte dell’umanità».
In un periodo storico e culturale segnato da profondi sconvolgimenti, la metafora del ghiacciaio appare come un’immagine potente, illuminante, in grado di mostrarci le interconnessioni tra scale e dimensioni locali e globali, umane e non-umane, e di restituirci il senso di un percorso anche sociale e culturale di ricerca che pone la montagna al centro del dibattito sul clima e sull’ambiente. La montagna e le “Alpi dell’Antropocene” (Dall’Ò 2021) si configurano sempre più come un promettente “terreno” di ricerca per l’antropologia e per le scienze sociali in generale; un punto di osservazione privilegiato per dar voce a interlocutori inediti — come le “memorie dei ghiacciai” — e per comprendere gli impatti culturali e sociali dei mutamenti climatici e dei disastri ambientali di breve e di lungo corso in atto.
Il clima, accanto a una modellizzazione scientifica, è anche un insieme di rappresentazioni culturali e storiche che assumono diversi significati in relazione a diversi attori (Van Aken 2020), e «non c’è altra disciplina come l’antropologia che si posizioni in modo così cruciale da farsi carico del peso dell’esperienza umana in ogni sfera dell’esistenza, che si interroghi su come poter modellare un mondo abitabile per le generazioni future» (Ingold 2020, 89). Nella lettura antropologica anche i ghiacciai si prestano a diventare una – tanto inedita quanto fondamentale – chiave di lettura, utile per comprendere gli impatti culturali dei cambiamenti climatici sul presente e sul futuro delle persone. E, come osserva Mark Carey, «ice never acted alone. And people never simply responded to glacier dynamics. Rather, there was a constant intermingling of numerous historical agents (science, technology, culture, social movements, policy, the physical environment, and climate, among others)» (Carey 2007: 500).
L’antropologia che si occupa di questo recente filone di ricerche analizza gli adattamenti sociali e culturali al clima, ovvero del come le persone percepiscono, interagiscono, sperimentano e fronteggiano i mutamenti del mondo in cui vivono, e del come lo hanno fatto nel passato. “Interrogare i ghiacciai” nell’Antropocene, ovvero porre a questi oggetti, questi “testimoni” nuove domande, e dar loro voce attraverso differenti approcci disciplinari, significa porsi in una prospettiva di ricerca che tenga in considerazione una periodizzazione storica, culturale, e geofisica in cui l’umanità si è fatta, seppur con significative differenze nella distribuzione delle responsabilità e delle conseguenze, una vera e propria “forza geologica” (Chakrabarty 2018, Arias-Maldonado 2020). I ghiacciai divengono così protagonisti anche di una “storia del clima con l’umanità”, o, per dirla con Le Roy Ladurie, di una “storia umana del clima” (Le Roy Ladurie, Vasak 2010). Lo storico francese li descrive come attori del clima: veri e propri “personaggi” che si muovono imponenti sul palcoscenico della storia e che incarnano il cambiamento climatico grazie alla loro progressiva e sempre più evidente scomparsa; una lenta e oramai inesorabile “uscita di scena” di cui l’umanità è al contempo artefice e testimone.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
[*] L’articolo è frutto di un processo di elaborazione condivisa tra i due autori; in particolare, vanno attribuiti a Elisabetta Dall’Ò i paragrafi 2. “Geografie del sacro”, 3. “Castigo, scienza, esorcismi” e 6. “I ghiacciai nella storia del clima e dell’umanità”, e a Giovanni Gugg i paragrafi 1. “Tribolazioni della Marmolada”, 4. “Requiem per un ghiacciaio” e 5. “Funerali di ghiaccio”.
Note
[1] Il filosofo tedesco, nelle sue lezioni di geografia fisica tenute all’Università Albertina di Königsberg e pubblicate nel 1798, sosteneva già allora che la presenza di archi morenici paralleli nei pressi delle fronti glaciali fosse riconducibile a probabili, ripetuti, avanzamenti dei ghiacciai avvenuti durante “fasi climatiche” fredde (Bonardi 1998)
[2] Il video di “Requiem of Ice” di John Waller e Ben Canales è disponibile sul sito della loro casa di produzione “Uncage the Soul” (https://uncagethesoul.com/portfolio/requiem-of-ice/) oppure sul loro canale YouTube: https://youtu.be/loYOkEYJPUE (consultati il 5 dicembre 2022).
[3] Traduzione in italiano: «La mia fine è vicina. Il tempo darà forma alla mia eredità. [...] Parlo il linguaggio dell’acqua e dell’aria. Il mio respiro si contorce e si arriccia sulla cima della montagna. [...] L’acqua gocciola e si infiltra nelle vene aperte attraverso le gallerie smerlate del tempo. Sono torturato dalle radici di una montagna che non può più sostenermi. Mi sento debole. [...] Mi ritiro più a fondo nell’ombra della montagna. Che ne sarà di me? [...]» (Il testo completo è disponibile nella descrizione del video su YouTube, di cui alla nota precedente).
[4] Un’esemplificazione del “Requiem for a Glacier” di Paul Walde, nonché dell’installazione video-sonora che ne è derivata, è nel video “La Fabrique Culturelle – Requiem pour un glacier” dell’Université Laval, disponibile su YouTube: https://youtu.be/2OGgRJuCfyw (consultato il 5 dicembre 2022).
[5] Il video di “Elegy for the Artic”: https://youtu.be/2DLnhdnSUVs (consultato il 5 dicembre 2022).
[6] La dichiarazione di Einaudi è tratta dall’articolo redazionale “Ludovico Einaudi al Polo Nord. Il pianista italiano ha girato un video tra i ghiacci dell’Artico per Greenpeace”, in “RSI – Radiotelevisione svizzera”, 20 giugno 2016: https://www.rsi.ch/news/vita-quotidiana/cultura-e-spettacoli/Ludovico-Einaudi-al-Polo-Nord-7641920.html (consultato il 5 dicembre 2022).
[7] “Requiem al Ghiacciaio Lys. Veglia funebre per i nostri ghiacciai che stanno morendo”, in “Change Climate Change”, settembre 2019: https://www.changeclimatechange.it/azioni/eventi/requiem-per-un-ghiacciaio/ (consultato il 5 dicembre 2022).
[8] Vidano V., 2019: “Gressoney-La-Trinitè, requiem per il ghiacciaio. Musica potente del corno e riflessioni sul clima”, in “La Sentinella”, 30 settembre: https://lasentinella.gelocal.it/ivrea/cronaca/2019/09/30/news/gressoney-la-trinite-requiem-per-il-ghiacciaio-1.37566082 (consultato il 2 dicembre 2022).
[9] Tra le altre, anche la trasmissione televisiva “Propaganda Live” su La7, con un servizio del conduttore, Diego Bianchi: “Requiem per un ghiacciaio: il reportage di Diego dalla valle del Lys”, 27 settembre 2019: https://www.la7.it/propagandalive/video/requiem-per-un-ghiacciaio-il-reportage-di-diego-nella-valle-del-lys-27-09-2019-284522 (consultato il 2 dicembre 2022).
[10] Luckhurst T., 2019: “Iceland’s Okjokull glacier commemorated with plaque”, in “BBC”, 18 agosto: https://www.bbc.com/news/world-europe-49345912 (consultato il 2 dicembre 2022).
[11] Ibidem.
[12] In particolare, si veda il progetto internazionale “Ice Memory”, che coinvolge numerosi dipartimenti di ricerca universitari tra Italia, Francia e Svizzera nell’elaborazione dei dati climatici sul passato del Pianeta: https://www.ice-memory.org/organization/scientific-partners/ (consultato il 5 dicembre 2022).
[13] “Requiem pour un glacier suisse”, in “Paris Match”, 22 settembre 2019: https://www.parismatch.com/Actu/Environnement/Requiem-pour-un-glacier-suisse-1648214 (consultato il 5 dicembre 2022).
[14] “Requiem al Ghiacciaio del Calderone – Gran Sasso”, in “Legambiente”, 4 ottobre 2019: https://www.legambiente.it/articoli/requiem-al-ghiacciaio-del-calderone-gran-sasso (consultato il 5 dicembre 2022).
[15] “Requiem al ghiacciaio del Gleno per sensibilizzare sullo scioglimento”, in “Bergamo News”, 11 agosto 2020: https://www.bergamonews.it/2020/08/11/requiem-al-ghiacciaio-del-gleno-per-sensibilizzare-sullo-scioglimento/387931/ (consultato il 5 dicembre 2022).
[16] “Mourners Hold a Funeral for a Dead Oregon Glacier”, in “Gizmodo”, 20 ottobre 2020: https://gizmodo.com/mourners-hold-a-funeral-for-a-dead-oregon-glacier-1845426351 (consultato il 5 dicembre 2022).
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Elisabetta Dall’Ò dottoressa di ricerca in Antropologia culturale e sociale, conseguito all’Università di Milano-Bicocca, è assegnista di ricerca e professoressa a contratto presso il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino. Ha inaugurato nel 2020 il primo Laboratorio universitario di Antropologia dei cambiamenti climatici. Da quest’anno è parte del progetto “Grandi Sfide-Clima” del Politecnico di Torino, e insegna nel Corso “Evidenze, modelli e percezione del cambiamento climatico”. Le sue ricerche si incentrano sugli impatti dei cambiamenti climatici sulle comunità di montagna, sulla percezione del rischio, e sui processi di transizione ecologica.
Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale, assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) ed è docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario.
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