Oggi l’Armenia è una piccola Repubblica presidenziale ma con una lunga e tragica storia, intersecata, per alcuni vissuti comuni, con quella dei curdi, altro popolo senza territorio. La questione territoriale curda, come quella degli armeni, risale almeno alla fine dell’Impero ottomano il quale, già ridimensionato col Trattato di Londra del 1913 a conclusione delle guerre balcaniche, alla fine della prima guerra mondiale, con il Trattato di Sèvres dell’agosto 1920, si trovò ridotto ad un modesto Stato all’interno della penisola anatolica, privato di tutti i territori arabi e della sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Il Trattato, inoltre, prevedeva ampie tutele per le minoranze nazionali (armene e curde) presenti in Turchia e garantiva ai curdi la possibilità di ottenere l’indipendenza all’interno di uno Stato i cui confini sarebbero stati definiti da una commissione della Società delle Nazioni designata ad hoc. Il Trattato fu fortemente osteggiato da Mustafa Kemal Pasha, meglio noto come Ataturk (Padre dei turchi), il quale costrinse le ex potenze alleate a tornare al tavolo della negoziazione per ratificare un nuovo Trattato a Losanna nel luglio 1923, che cancellava ogni concessione ai curdi, agli armeni e ai greci. Lo storico territorio curdo si trovò diviso fra diversi nuovi Stati.
Fra gli anni trenta e gli ottanta del Novecento, l’Armenia faceva parte dell’Unione sovietica e i Curdi erano riconosciuti con lo status di minoranza protetta. Nel 1945 si formò, con l’appoggio dell’Unione Sovietica, il partito democratico curdo e il 22 gennaio 1946, in territorio iraniano, venne proclamata la formazione di una Repubblica popolare curda, con capitale Mahabad. Con il ritiro delle forze sovietiche, le truppe iraniane riconquistarono il territorio, condannando a morte i vertici politici, compreso il Presidente QaziMuhammad.
Il termine Kurdistan, vasto altopiano situato nel Medio Oriente e più precisamente nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia, che include l’alto bacino dell’Eufrate e del Tigri, indicava la regione geografica abitata in prevalenza da curdi. Oggi, i curdi, che si ritiene discendano dagli abitanti dell’antico regno di Corduene, sono una nazione ma non uno Stato indipendente e sono dislocati negli attuali Stati di Turchia, Iraq, Siria, Iran e in misura minore in Armenia. È una nazione ma non uno Stato indipendente. Dal 2003, soltanto il Kurdistan iracheno ha una certa autonomia politica, come regione federale dell’Iraq, in seguito alla fine del regime di Saddam Hussein. Anche il Kurdistan siriano ha acquisito autonomia politica di fatto dall’inizio della guerra civile siriana. Ma i curdi, come gli armeni, vivono anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afganistan e Pakistan. Inoltre, un certo flusso migratorio si è diretto verso gli Stati Uniti e il Nord Europa (Scandinavia e Germania). Una vera e propria diaspora come quella armena.
Altro elemento di comunanza dei curdi con gli armeni, oltre la questione territoriale e la diaspora, è il fatto che la popolazione curda, all’inizio del XX secolo, ha subìto una politica di discriminazione razziale tra le più spietate e violente da parte della Turchia, Iraq e Siria, con il fine di negare persino l’identità e l’esistenza stessa del popolo curdo utilizzando tutti i mezzi a disposizione (mass-media, esercito, polizia e istituzioni scolastiche) fino alla più grande repressione del biennio1987-1988, in cui le autorità irachene usarono armi chimiche, indice di un preciso disegno politico teso all’eliminazione dei curdi iracheni.
Ciò ha configurato di fatto un’ipotesi di genocidio, come quello del 1915 perpetrato dai turchi contro gli armeni, se si assume la definizione di genocidio adottata dall‘ONU: «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Orrore nell’orrore, i due popoli vittime sono stati, talvolta, l’un contro l’altro armati. I curdi parteciparono al genocidio turco contro gli armeni e, dopo la fine dell’Unione Sovietica, i curdi dell’Armenia furono spogliati di tutti i loro privilegi culturali e la maggior parte di loro fuggì dalla Russia in Europa Occidentale.
Ho voluto ricordare brevemente la questione curda per le assonanze che ho rilevato con quella armena, leggendo il libro di Maria Immacolata Macioti: L’Armenia, gli armeni, cento anni dopo (Guida editori 2015). Un libro da segnalare per la ricchezza di contenuti, per la ricostruzione meticolosa e per la indagine rigorosa e puntuale di una storia infinita di lacerazioni, guerre, eccidi, culminati nel genocidio del 1915. Ed è proprio per ricordarne il centenario che l’autrice, da tempo studiosa della questione armena, s’interroga su «come si è arrivati a un genocidio nella distrazione se non nell’indifferenza delle potenze europee» e sul perché sia stato a lungo ignorato e misconosciuto. Il genocidio, pure aleggiando come una presenza costante, è l’occasione per la Macioti per ripercorrere la storia e la cultura armena, una storia lunga e pregna di tragicità, che risale a prima della fondazione di Roma, con riferimenti addirittura al monte Ararat, il monte più alto dell’Anatolia, già parte dell’Armenia e ora in territorio turco, come mitico luogo dove sarebbe approdata l’Arca di Noè. Un’Armenia erede dell’antico regno di Cilicia, che terminò nel 1375, vinto dai Mamelucchi d’Egitto.
Dopo la presa di Costantinopoli, da parte dei turchi nel 1453, gli armeni fecero parte dell’Impero ottomano e nel 1863 approvarono la Costituzione nazionale che regolava la vita all’interno della comunità nell’Impero. Tra il 1894 e il 1896 cominciarono le prime repressioni e massacri di massa, con arresti di vescovi e conversioni forzate. Si è parlato di circa 300 mila vittime. Con la rivoluzione dei “giovani turchi” del 1908, la cui ideologia si presentava come liberale ed emancipatrice, gli armeni sperarono in una vita migliore, ma in verità le repressioni s’intensificarono con arresti di notabili e intellettuali armeni e culminarono nel genocidio del 1915. La Turchia ha sempre negato il genocidio e ciò ha prodotto, a partire dal 1975 (60° anniversario del genocidio), un periodo di attentati terroristici da parte della FRA (Federazione Rivoluzionaria Armena) e dell’ASALA (Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia) che dichiaravano di parlare a nome della diaspora armena e che hanno colpito, non solo in Turchia, ma anche in Libano, Grecia, Germania, Italia e Francia, con l’obiettivo di richiamare l’attenzione sulla questione armena, rompendo così il muro del silenzio e informando l’opinione pubblica occidentale.
Oggi l’Occidente, sostanzialmente, riconosce il genocidio armeno. Il primo riconoscimento è avvenuto, da parte dell’ONU, il 29 giugno 1985, cui è seguito nel 1987 quello del Parlamento europeo e poi via-via, da parte di diversi Stati europei, del Parlamento del Canada e di altri Paesi extraeuropei. Tuttavia, come per gli ebrei, ancora esiste un certo negazionismo. Nonostante ciò che hanno subìto, per molti armeni, la Turchia è stata la loro patria anche se ormai la loro presenza in questo Paese si è tragicamente ridotta. I tragici eventi del genocidio hanno determinato una grande diaspora. I superstiti abitano per lo più nell’area tra la Transcaucasia e la Mesopotamia, ma si calcola che circa 8 milioni vivano sparsi nel mondo, con una presenza elevata in Russia e negli Stati Uniti. In Europa, una comunità consistente di armeni si trova in Francia, la quale ha assolto un ruolo importante nella salvezza dopo il genocidio e dove si è sviluppata una rilevante letteratura della diaspora. Ultimamente, si sono verificati flussi migratori di gruppi di armeni in fuga alla guerra dalla Siria verso la Repubblica d’Armenia e anche verso Karabakh.
Questa presenza diffusa degli armeni in diverse zone della terra è tale da dare quasi l’immagine che ogni comunità sia una sorta di ologramma che contiene in sé tutta la sofferta storia comune. In qualunque parte della terra si trovino, sostengono ancora oggi con autotassazioni e rimesse la Repubblica di Armenia, accomunati dalla consapevolezza della loro storia e delle loro tradizioni, dalla fede cristiana e dal culto della memoria, in una consonanza e in una condivisione identitaria di cultura e di lingua.
La Repubblica armena, rinata provvi- soriamente il 28 maggio del 1918, ha avuto una vita breve, durante la quale sono state compiute una serie di scelte progressiste, in primis il voto alle donne. Nel già citato Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 si parlava di uno Stato armeno comprendente la parte orientale dell’ex territorio ottomano e di un Kurdistan autonomo. Ma, come già detto, il Trattato di Losanna del 1923 rinnegò le dichiarazioni di Sèvres e ha segnato anche la fine dell’indipendenza dell’Armenia occidentale. Intanto, dopo alcuni anni dalla rivoluzione russa del 1917, l’Armenia è stata inglobata nell’Unione Sovietica e, dopo la dissoluzione avvenuta con la caduta del muro di Berlino del 1989, è risorta come Stato indipendente e autonomo il 21 settembre del 1991 su un territorio di circa 10 chilometri quadrati, con circa 3 milioni di abitanti, situata tra il Mar Nero e il Mar Caspio e stretta tra la Turchia e l’Azerbaigian. Una enclave cristiana in mezzo a una maggioranza di religione musulmana. Inoltre, inserita nell’Azerbaigian, c’è la regione di Nogorno Karabakh, popolata di soli armeni, teatro di guerra tra la Repubblica di Azerbaigian e la Repubblica di Armenia, che ne perora l’indipendenza e la sostiene economicamente. Nel 1994 è stata siglata la cessazione del conflitto, ma la questione rimane ancora aperta e con frontiere sorvegliate, in quanto si contrappongono due concezioni giuridiche diametralmente opposte: L’Azerbaigian si appella al principio internazionale di inviolabilità delle frontiere e non è disposto ad andare al di là della concessione di un’ampia autonomia al Karabakh; l’Armenia, invece, si richiama al principio opposto dell’autodeterminazione dei popoli e sostiene l’indipendenza della piccola Repubblica.
Oggi la Repubblica di Armenia, oltre a fruire delle rimesse degli emigrati, ha rapporti privilegiati con la Russia che la difende nei confini con la Turchia e dalla quale dipendono alcune tra le principali infrastrutture, dalle ferrovie all’elettricità e al gas. Programmi di sviluppo economico sono finanziati anche dall’Unione Europea e dagli USA.
L’ultimo capitolo del libro di Maria Immacolata Macioti è dedicato alla presenza armena in Italia, i cui rapporti sono risalenti all’antica Roma e alle guerre mitridatiche, concluse con la vittoria di Pompeo nel 66 a.C., dopo la quale il regno armeno divenne un protettorato romano. Un documento apocrifo riferisce di un viaggio a Roma, tra S. Gregorio l’Illuminatore, a cui si deve la conversione dell’Armenia al Cristianesimo, e l’imperatore Costantino, durante il quale si sarebbe stretto un patto d’amicizia perpetua tra Roma e l’Armenia. Il culto di S. Gregorio è diffuso da Venezia a Bari. A Nardò in Puglia, dove viene custodita una reliquia del santo nella Cattedrale, si venera tutt’ora San Gregorio. Ma non solo. Tracce visibili della presenza armena si trovano in varie città italiane, come, per esempio, nel quartiere di Napoli che si chiama appunto S. Gregorio armeno. A Roma sono diversi i segni del loro passaggio, come il Pontificio collegio armeno. Tuttavia, la posizione italiana, anche per i rapporti commerciali intrattenuti con l’Azerbaigian (primo partner) e per l’accordo tra ENI e Socar per l’esplorazione, lo sviluppo e la produzione di idrocarburi al largo di Baku, è di sostanziale equidistanza tra Azeri e armeni, così da operare una transazione tra il principio d’integrità territoriale e quello di autodeterminazione.
Un libro, quello di Maria Immacolata Macioti, davvero utile e denso, con ogni capitolo corredato di una puntuale cronologia degli eventi più importanti. Attraverso la questione armena, riper- corre la storia dei Paesi del M. O. ma anche quella internazionale. Un prezioso strumento di consultazione di eventi del mondo antico e dello scenario più recente. Un lavoro certosino, frutto di una lunga opera di ricerca nelle biblioteche, soprattutto in Francia e in Armenia dove l’autrice si è recata anche più volte per studiare la storia di quel popolo. Una ricerca appassionata e partecipata, in cui il pathos che ha ispirato la Macioti coinvolge il lettore nella descrizione empatica della sofferenza di donne e bambini che vagano in cerca di cibo e di riposo: memorie che richiamano le immagini quotidiane dei profughi di oggi. Emblematici, a tal proposito, il racconto che fa l’autrice della storia di un armeno, divenuto medico in Italia, e la sua riflessione su «come sia difficile l’inserimento in un paese diverso dal proprio. Un paese dove la maggior parte delle persone è di un’altra cultura, di un’altra religione, dove sono diversi la storia, i valori» e come «il percorso dell’integrazione sia un percorso difficile, specie per coloro che non intendono l’integrazione come assimilazione ma come processo di intercultura».
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).
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