di Filomena Cillo
Esiste in meccanica un concetto molto affascinante che è quello di gioco per cui lo scarto dimensionale tra due componenti accoppiate crea uno spazio di movimento non trasmesso (o di scorrimento nel caso in cui non ci sia trasmissione di movimento) che permette il funzio- namento dell’ingranaggio. La tolleranza [1] tra le componenti è, quindi, un’imperfezione nell’incastro delle parti senza la quale la macchina non funzionerebbe.
Molti dei sistemi di conoscenza, culturalmente plasmati e plasmanti, riescono ad adattarsi e sopravvivere proprio grazie a dei giochi interni. In questo articolo verranno analizzate le zone di tolleranza presenti nella medicina occidentale e si cercherà di individuare i processi di trasformazione e rinegoziazione delle categorie di salute e malattia. Nello specifico, si vorrà sottolineare che la componente della storia individuale della persona (sia nella sua dimensione narrativa che agita) ha una rilevanza tale nei processi di cura da rientrare nei determinanti di salute.
La riflessione sulle potenzialità del sistema di conoscenze biomediche muove dai successi ottenuti nel corso della storia che rendono sempre meno netta la definizione di che cosa sia la salute. Abbandonata la semplicistica distinzione di salute come assenza di malattia, oggi sempre meno la salute è uno stato e sempre più è il risultato di una pluralità di fattori di natura eterogenea. Vinta la guerra dei microbi [2], che ne ha segnato l’autorevolezza come sistema di cura, la medicina è chiamata a rispondere delle conseguenze a lungo termine prodotte anche dal suo intervento. Se è vero, infatti, che “in virtù del suo concentrarsi principalmente sulle dimensioni anatomico-fisiologiche dell’organismo individuale […] ha potuto elaborare tecniche di intervento terapeutico capaci di produrre significative trasformazioni nella realtà” [3], oggi i prodotti di queste stesse tecniche creano un nuovo scenario cui rispondere e in questo contesto la medicina deve combattere una battaglia non più solo contro la morte ma per la qualità della vita. Due condizioni fanno emergere l’importanza di nuove strategie adattative per rispondere a questa sfida: da un lato il confronto con visioni del corpo e sistemi di cura altri, propri della società globalizzata, dall’altro il mutare qualitativo della malattia che da mortale diventa sempre più cronica. La domanda da cui muove questo articolo è: esiste attualmente nella medicina [4] uno spazio di tolleranza su cui investire per assicurare il successo complessivo del sistema?
Nel 2011 e nel 2012, nel corso di una ricerca di campo presso l’ospedale S.Orsola Malpighi di Bologna, mi sono posta la stessa domanda, partendo da esigenze speculari che ho riscontrato essere sempre più ridondanti nell’ambiente medico: la necessità di umanizzare le cure e l’esigenza di ridurre gli eventi di burn out legati, spesso, alle dinamiche aziendalistiche della professione. Per definire il campo di ricerca, alcuni elementi sono stati significativi: il tempo di degenza della persona in ospedale, il tipo di intervento del curante e la problematizzazione del know how professionale in termini di efficacia tarata sul paziente. L’ evidente differenza di approccio con la persona malata, la possibilità di osservare sia i brevi ricoveri legati alla fase acuta della malattia che le lungodegenze provenienti anche da altri reparti (uno su tutti quello oncologico), hanno fatto della chirurgia pediatrica il campo di ricerca.
Sono partita dalla visione che il sistema ha della complessità assistenziale:
«Si ha complessità quando diversi elementi che costituiscono un tutto sono inseparabili ed interdipendenti tra loro. […] l’assistenza alla persona può definirsi complessa in quanto è rivolta alla persona, la quale è al contempo essere biologico, psichico, sociale, affettivo, razionale, spirituale ed è inserita nella società che a sua volta comprende dimensioni storiche, economiche, sociologiche, politiche, religiose. La complessità assistenziale è determinata da tre dimensioni proprie della persona: la prima è caratterizzata dal binomio salute/malattia; la seconda riguarda la capacità della persona di definire le proprie necessità e di scegliere consapevolmente i comportamenti idonei e infine, la terza è caratterizzata dalla possibilità di agire autonomamente ed efficacemente rispetto allo stato di salute o di malattia» [5].
I corollari operativi di questa definizione sono due: ad un’alta instabilità del quadro clinico si associa una bassissima discrezionalità decisoria dell’operatore e del paziente, mentre una ridotta capacità decisionale del paziente è implementata da una elevata e specifica competenza educativa/relazionale dell’operatore. Queste valutazioni definiscono il range dell’agentività di curante ed assistito incidendo direttamente sulle pratiche degli attori coinvolti nella cura.
Nello specifico il paziente pediatrico rientra di default nel secondo quadro ponderato in cui il rapporto di cura è sbilanciato a favore dell’operatore in virtù di una ridotta capacità decisionale del paziente. La ricerca di campo ha messo in luce come culturalmente, l’idea occidentale d’infanzia collochi il bambino in uno stato di indefinitezza che non lo qualifica in quanto attore sociale vero e proprio ma più che altro lo definisce come un “non ancora”. Ai fini della ricerca è stato indispensabile e propedeutico problematizzare la categoria d’infanzia. Dalle interviste semistrutturate rivolte ad operatori e genitori, è emersa una lacuna nella definizione di enfant. Alla domanda «Qual è la sua idea di bambino?» nessuno degli intervistati ha dato una risposta diretta, la maggior parte ha elencato una serie di attività infantili quali il gioco, o di attributi pseudoessenzialistici come l’innocenza, l’allegria, la gioia di vivere; solo alcuni hanno definito il bambino asserendo che non si tratta di un piccolo adulto. Questo dato, affiancato dall’analisi delle fonti storiche e storiografiche [6] ha portato all’evidenza quanto non esista l’infanzia ma semmai le infanzie, alludendo con questo temine a due cose.
Nel mondo esistono differenti modi di relazione e di accudimento del bambino che sottintendono diverse idee di infanzia [7] e l’idea di infanzia occidentale non è universale ma forgiata dalla religione cristiana e dal pensiero illuminista. L’una ha costruito una concezione di bambino come esempio innocente dell’umanità perfetta in virtù della sua prossimità a Dio, l’altro ha supposto una immaturità del soggetto fondata su uno stato di minorità intellettiva. Le due visioni collimano nell’obbligo che la società ha di proteggere il bambino e nell’onere di proiettare su di lui le aspirazioni del futuro uomo. Questo quadro concettuale ha per lungo tempo provocato un’eclissi dell’infanzia dal contesto storico–sociale definendo il bambino come un voiceless.
Le pratiche biomediche stesse, sono, nell’ambito pediatrico, connotate da una teleonomia che risente del sentimento per l’infanzia [8] culturalmente incorporato: più che alla guarigione fisica in senso stretto, l’intervento persegue la guarigione sociale che si può ottenere solo curando il corpo, senza tralasciare l’integrità della categoria infantile. Gli stessi operatori intervistati hanno “giustificato” la maggiore disponibilità verso il bambino con una necessità di pensare delle risposte che tenessero conto di alcune caratteristiche strutturali del paziente: la scarsa comprensione del linguaggio di settore, lo stato silente rispetto all’espressione verbale dei bisogni e delle esigenze e l’assoluta inesperienza rispetto ad un evento come la malattia. Questi tratti sono gli stessi portati all’attenzione dagli “umanizzatori di cure”. In definitiva, l’osservazione dell’assistenza pediatrica problematizza in maniera esplicita un generale stato infantile [10] attribuibile a chiunque viva l’esperienza di malattia e le rinegoziazioni sul piano del significato e delle pratiche possono offrire spunti per migliorare l’assistenza anche con il paziente adulto.
La prima necessità clinica emersa dalle interviste con gli operatori sanitari è stata quella di entrare in relazione con il paziente. Medici e infermiere hanno espresso l’unanime parere nella naturale necessità di porre attenzione all’aspetto comportamentale del bambino facendo uno sforzo ermeneutico nel ricercare le cause della sua risposta all’ambiente medico nella convinzione che non si può nemmeno cominciare ad aiutare il bambino nelle sue principali difficoltà se non ci si rende conto di quanto siano reali i suoi sentimenti, di quanto è umano e simile a noi, di quanto siano teneri i suoi affetti, di quanto è acuta la sua rabbia o il suo terrore, di quanto è disperato il suo dolore e il suo senso di impotenza [11].
I comportamenti infantili poco complianti, quelli che in un contesto quotidiano vengono additati come capricci, sono interpretati come segnali di una ribellione scaturita da una condizione di doppia vulnerabilità esistenziale che il sistema, con le sue pratiche protocollari, mette in evidenza. La malattia, infatti, provoca una crisi della presenza cioè di quella tensione che spinge ad operare e che si esprime nella capacità di azione e trasformazione del mondo e nel mondo. Nel bambino, oltre a frantumarsi la capacità di oggettivazione della realtà, esiste un vuoto semantico causato proprio da quella cornice culturale che lo esclude come attore sociale. La cura inizia con il riconoscimento dell’autenticità dei sentimenti della persona, questo presuppone una differente concezione del paziente: egli non è più solo una macchina corporea da sondare per individuare una disfunzione organica, ma diviene il soggetto che vive l’esperienza di malattia. In altre parole la dimensione del malessere si arricchisce della componente di vita incarnata: dell’illness.
Sul piano pratico è necessario agire per ridurre il senso di sospensione e cesura con la vita normale. Nel caso del paziente pediatrico lo sforzo è quello di creare un ambiente generoso di calore ed affetto, di occasioni di attività, e questo si realizza concedendo una certa permeabilità del luogo di cura anche a figure non strettamente cliniche: la famiglia in primis, ma anche associazioni di volontariato che strutturano delle attività per il tempo libero [12]. Questa dimensione sociale delle esperienze di malattia fa dell’ospedale stesso un luogo di cura collettivo in senso lato, realizzando una presa in carico da parte della comunità del malato e della sua malattia e introducendo nella relazione tra curante e malato la nozione di tessuto sociale. Pizza, infatti, definisce la cura come «una tecnica dell’attenzione, dell’ascolto e del dialogo, basata sulla dialettica fra la prossimità e la distanza, fra la parola e il silenzio, sulla consapevolezza dell’impossibilità di separare nel gesto l’aspetto tecnico da quello simbolico ed emozionale» [13].
A giustificare la presenza del nucleo familiare, oltre che una espressa volontà legale, è anche l’utilità riscontrata dal professionista: «-[…] un bambino può capire la serenità del curante non la sostanza delle sue parole. La sostanza viene filtrata dai genitori» [14]. Eppure, il senso comune ci dice che, a prescindere dall’età del paziente, molte volte chi vive l’esperienza di malattia o teme di viverla, si fa accompagnare da un affetto affinché egli “capisca” le parole del curante e filtri per lui un linguaggio incomprensibile che inciderà direttamente sulla sua esistenza. La relazione di cura non è più duale ma coinvolge gli affetti. Pertanto, la comunicazione assume un ruolo centrale ai fini della complianza del paziente poiché la famiglia malata potrà influenzarne le decisioni e determinare o meno il consenso. Il tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione diventa a tutti gli effetti tempo di cura [15].
La presa in carico della famiglia malata ha lo scopo di rispondere alla priorità di saper costruire una serenità intorno al paziente mirando a proteggere la qualità della vita del bambino in ospedale prima ancora che la sua guarigione fisica. I genitori concorrono, con la conoscenza del bambino, a influenzare le pratiche di cura, fornendo informazioni all’operatore e mediando tra il sistema e il paziente. In senso generale, l’idea di competenza si estende oltre il corpo di professionisti modificandosi qualitativamente: essere competenti non vuol dire solo essere abili tecnicamente ma avere l’abilità di applicare dei modelli di assistenza equi in cui la famiglia e la rete sociale sono parte attiva. Il milieu affettivo, vivendo l’individuo prima dell’esperienza di malattia, rappresenta una propaggine della sua agentività; rende presente la persona a se stessa, la ri-conosce e le restituisce un’integrità che il malessere ha compromesso. Questo esercizio di presenza si muove all’interno di un complesso equilibrio che deve da una parte sostenere il malato, dall’altro non giustificarlo.
I genitori, ma potremmo dire gli affetti, non devono perdere il senso dell’opportunità e delle proporzioni [16], ciò vuol dire essere autorevoli e impedire che il malessere, da occasione per rinegoziare i termini della propria esistenza, si traduca in vittimizzazione della persona. Nel caso del bambino, il rischio è molto più evidente poiché culturalmente l’illness costituisce una falla nel sistema di protezione e proiezione che struttura la genitorialità e si esprime in un sentimento di colpa e responsabilità inadempiente. La destituzione delle gerarchie affettive e il conseguente permissivismo verso la persona malata, sono un’altra strada che conduce alla distruzione del mondo interno e all’invisibilità. Il confronto con gli altri deve restituire al paziente una visione coerente con l’esperienza di malattia guidandolo in un ri-conoscimento di se stesso come parte attiva dalla cura. Sul piano delle pratiche terapeutiche questa priorità si traduce, in un lavoro sul senso che, partendo dalle risorse individuali del paziente, mira ad un loro rafforzamento e parallelamente agisce per strutturare dei percorsi che siano co-costruiti.
Quello che può sembrare un surplus di lavoro per il curante è in realtà uno dei motivi che spinge ad esercitare in pediatria. Nel corso della ricerca un dato non voluto si è imposto in tutto evidenza: la maggior parte dei professionisti intervistati aveva lavorato in un reparto adulti e, registrando un alto grado di stress e di insoddisfazione professionale, aveva deciso di ricollocarsi nella pediatria. Interrogati sulle ragioni in relazioni alle criticità assistenziali, tutti hanno rimarcato che la preminenza della relazione con il bambino e la sua famiglia è uno dei motivi di senso della professione e permette il pieno espletamento di quel saper fare e saper essere previsto dalla deontologia.
Nella relazione di cura il professionista deve mediare tra il sistema, che autorizza la sua presenza, e il paziente, che è il (s)oggetto delle sue pratiche. Egli compie un’opera non solo di trasmissione ma di trasduzione. Infatti, per assicurare che il lavoro di interpretazione di senso del paziente venga inglobato all’interno del sistema di cura e si concretizzi in pratiche, deve propedeuticamente rinegoziare le proprie categorie. In altre parole, il curante è nervo, dispositivo, che assicura che vi siano le condizioni tali per cui chi vive l’esperienza di malattia possa esercitare la propria agency. Questo lavoro parte dalla consapevolezza che le categorie mediche, in quanto immagini storiche di interpretazione della sofferenza e della malattia, organizzano le modalità attraverso cui viviamo quei particolari stati d’essere [17]. Per creare uno spazio di negoziazione e di co-costruzione è indispensabile confrontarsi con le rappresentazioni del malato e attribuirgli dignità. Anche da questo punto di vista, l’ambito pediatrico rappresenta un caso esplicito. Il bambino ha la capacità di esercitare le sue modalità espressive, di agire la cultura all’interno delle logiche cliniche, “costringendo” il sistema ad adattarsi alle sue necessità. La relazione di cura non può prescindere dalla conoscenza delle risorse proprie del paziente poiché esse strutturano e determinano la risposta dell’enfant. Per fare un esempio concreto, l’illness assume una dimensione presente nell’interpretazione sia sul piano pratico che su quello simbolico. Il bambino, infatti, tende a condividere la sua esperienza con il gruppo dei pari, tanto che nei sogni riproduce l’esperienza vissuta e rielabora i ruoli ponendo come antagonista non una figura autorevole ma un altro bambino [18].
Un’altra importante risorsa personale, mediante cui il paziente porta la malattia nel suo mondo e non viceversa, è la fantasia. Se nella quotidianità essa è percepita come un’appendice temporanea, nel contesto clinico diventa una risorsa vera e propria. Da un lato permette al bambino di vincere i conflitti intellettuali e affettivi e di normalizzare la percezione che ha di se stesso, dall’altro ha dei risvolti pratici (in termini di disposizione alla cura). Il bambino valuta l’operazione fatta sul corpo, senza fare una distinzione tra interno o esterno, per cui l’azione del medico viene interpretata nel quadro più generale del tipo di fantasie che essa riesce a risvegliare [19]. Questo processo di trasferibilità simbolica è qualitativamente simile a quello riconducibile alle simbologie del corpo di molti pazienti migranti: in ambedue i casi c’è una diversità strutturale con il modello referenziale delle etichette biomediche. La diversità dei codici interpretativi è tale da non poter essere tralasciata dal curante. Sul piano delle pratiche la fantasia – come le simbologie della corporeità – ha una funzione sintetica in quanto può fornire un modo di collegare certi nostri bisogni e finalità con possibili mezzi per attuarli [20], banalmente diventa un modo di agire. Lo strumento di azione del paziente pediatrico è il gioco. Nonostante il tentativo di alcuni lavori scientifici [21], prevale ancora, nel senso comune, la convinzione che i bambini non sanno nulla se non quello che apprendono dagli adulti; la relazione di cura, invece, sembra cogliere l’aspetto “serio” della pratica ludica messo in luce da alcune etnografie sul gioco [22]: è una forma di conoscenza e competenza pratica fondamentale per la costruzione identitaria e ci dice qualcosa sul paradigma di inserimento sociale che è alla base. Il bambino, infatti, non solo interiorizza la cultura di cui è partecipe ma, oltre a riprodurla, è in grado di contribuire attivamente al cambiamento mediante una strategia di riproduzione interpretativa [23].
L’influenza enfantin in ambito clinico si esprime a vari gradi. Il primo e il più evidente è la differenziazione estetica dello spazio di cura. Questa macro differenziazione ci ricorda che il valore simbolico è attribuito anche allo spazio dove viviamo e nel quale il corpo agisce. La conoscenza dell’altro, che è alla base del processo identitario, viene, sin dall’infanzia, strutturata come una consapevolezza degli altri mediante lo spazio. Pertanto, in una condizione di malattia, in cui il soggetto vive un momento di estrema vulnerabilità esistenziale, è indispensabile permettergli di avere quello che Loux chiama un moraceau d’univers personnel [24]. Le storie raccontate sui muri del reparto ripropongono al bambino un mondo in cui è competente e personalizzano l’ambiente. La medesima funzione hanno le donne di Monet che arricchiscono il reparto di ginecologia e ostetricia del S. Orsola. Distese nel prato con i loro libri ricollegano le vicende personali di chi vive il reparto (professioniste e non) alla condizione storica di lotta della donna; avvicinando la condizione di vulnerabilità della malattia ad uno stato di vulnerabilità sociale del genere femminile [25].
Se alcune buone pratiche infantili sono state trasmesse anche al di fuori del mondo pediatrico, esiste un’influenza specifica che, per ora, rimane appannaggio solo dell’assistenza al bambino: la rinegoziazione della componente tecno- morfa e procedurale. Un caso per tutti è quello delle cure oncologiche. Tempo fa, in una formazione post-laurea [26], ho conosciuto un medico, ai tempi ancora specializzando del S.Orsola, che ha cercato di portare modifiche positive in uno dei settori di maggior scacco della medicina, l’unità oncologica di radioterapia. A fronte, infatti, di una impossibile certezza di guarigione fisica e nel quadro di una procedura, quella radioterapica, che spesso è molto invasiva e rifiutata dal paziente, il Dott. Tontini, in collaborazione con altri professionisti, ha contribuito a portare l’infanzia nel mondo del cancro.
La radioterapia prevede una serie di fasi: dopo la prima visita, nella quale vengono raccolti i dati riguardo alla malattia e viene informata la famiglia su quello che sarà il successivo iter terapeutico con rischi e benefici legati al trattamento, vengono definitivi altri aspetti legati alla procedura tecnica quali ad esempio la scelta di anestetizzare il paziente. La pratica di esposizione radioterapica prevede l’assoluta immobilità del bambino per individuare con esattezza i volumi della massa e conseguentemente le aree del corpo da irradiare e quelle da schermare. Il corpo del paziente è mantenuto nella medesima posizione ad ogni seduta di terapia da specifici immobilizzatori, questa tecnologia è indispensabile al trattamento.
Uno degli obiettivi del dottor Tontini è stato quello di migliorare il più possibile il periodo trascorso dai bambini all’interno del reparto di radioterapia e, in questo senso, gli immobilizzatori sono stati trasformati in vere e proprie maschere personalizzate. È nato all’interno del reparto di radioterapia un book per le maschere che sono concretamente realizzate dai tecnici specializzati del reparto su indicazione dei pazienti. Nel corso del 2011 sono stati trattati all’interno della U.O Radioterapia 27 pazienti di età compresa tra i 12 mesi e 18 anni, di questi 20 hanno potuto completare la radioterapia senza ricorrere a mezzi costrittivi (farmacologici e non).
Oggi il dottore Tontini continua la sua buona pratica in un’altra struttura [27] e, quando gli ho chiesto se avesse mai ritenuto insostenibile il peso del suo lavoro, mi ha risposto: «No, non ho mai avuto dubbi. Solitamente ho a che fare anche con pazienti adulti, ma devo dire, senza esitazione, che il bambino rende tutto più facile. È semplice parlargli, è diretto e ti lascia entrare nei suoi dubbi e nelle sue paure concrete, aiutandoti a fare al meglio il tuo lavoro» [28].
In conclusione, la lezione enfantin è quella di una problematizzazione matura del sistema e delle sue pratiche, alla luce della consapevolezza che la medicina è una scienza rilevatrice e non rivelatrice e, pertanto, si arricchisce in modo sperimentale e mai in maniera definitiva. All’interno di questo gioco strutturale esistono degli spazi di tolleranza per realizzare un’etica relazionale in cui gli operatori sanitari, insieme ai pazienti e ai soggetti per loro significativi, si impegnano nel processo di ricostruzione di un mondo significativo [29], al fine di agire per la migliore qualità di vita possibile e garantire, alla persona malata la possibilità di poter ancora «tornare a riempire il mondo con la propria umanità» [30].
Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] Si definisce tolleranza (t) il massimo scarto dimensionale ammissibile di un pezzo e il suo valore è stabilito dalla differenza tra la dimensione massima e la dimensione minima ammissibili.
[2] Il contributo delle conoscenze biomediche nel debellare le malattie quali il vaiolo e la peste sono in questo senso determinati
[3] A.Young, Antropologies of Illness and Sickness, in «Annual Review of Antropology», 1982, vol.XI: 257-285
[4] Si userà il termine in sostituzione di medicina occidentale
[5] http://oldsite.aniarti.it/documentazione/intervento
[6] Si veda: Allison James, Alan Prout, Constructing and reconstructing childhood: contemporary issues in the sociological study of childhood, RoutledgeFalmer, 2002; e Bienne Marie, Les enfants terribles, «La psychiatrie infantile au secours de la famille: la consultation du professeur Georges Heuyer en 1950», Revue d’histoire de l’enfance «irrégulière» [En ligne], Numéro 6|2004, mis en ligne le 31 mai 2007, URL: http://rhei.revues.org/index737.html
[7] Benedict R., Antropologia e infanzia. Sviluppo, cura ed educazione:studi classici e contemporanei, Milano, Cortina Raffaello, 2009.
[8] Ariès P., Padri e figli nell‘Europa medievale e moderna, 1960, trad. it. Garin M., Bari-Roma, Laterza,1999
[9] Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la necessità di considerare il peso della componente culturale nel paziente straniero.
[10] L’etimologia della parola infanzia deriva dal latino infans che significa muto, che non può parlare. Il termine infans, infatti, deriva dal verbo fari, presente nel latino arcaico e prima ancora nel greco antico con il medesimo significato di parlare; soprattutto in senso solenne. Congiunto al prefisso in, che in latino ha valore di negazione, il termine descrive appunto quella situazione in cui si è impossibilitati a parlare.
[11] Isaacs S., L’infanzia e dopo saggi e studi clinici, Firenze, La Nuova Italia, 1975 [corsivo mio].
[12] È significativo che le associazioni abbiano uno spazio fisico proprio all’interno del reparto.
[13] Pizza G., Antropologia medica, Roma, Carocci, 2005: 229.
[14] Da un’intervista al dottor G. medico chirurgo Ospedale S. Orsola.
[15] Art. 5 della Carta di Firenze, redatta da alcuni dei principali esperti del settore medico-sanitario e presentata il 14 aprile 2005, propone una serie di regole che devono stare alla base di un nuovo rapporto, non paternalistico, tra medico e paziente.
[16] Isaacs S., L’infanzia e dopo saggi e studi clinici, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
[17] Quaranta I., L’incorporazione individuale dei processi sociali: il contributo dell’antropologia, “Storie di Invisibili, Marginali ed Esclusi”, Bologna 1-3/2/2012.
[18] La rielaborazione onirica dell’adulto, invece, recupera sempre le angosce in modo indiretto, l’esperienza non è mai riconoscibile e il confronto avviene con una figura autorevole che può essere il padre o un adulto. Per approfondimenti si veda Deutsch.H., Some Psychoanalytic Observation on Surgey, Psychosom. Med., vol.4, 1942.
[19] Freud A. e altri, L’aiuto al bambino malato, Torino, Boringhieri, 1987.
[20] Hartmann H, Psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento, in Anna Freud, L’aiuto al bambino malato, Torino, Boringhieri, 1987: 169.
[21] Nel 1883 Eugène Rolland pubblica Rime et jeux de l’enfance: si tratta di formule raccolte in diverse regioni francesi che rappresentano la prima vera documentata esistenza di un sapere infantile che si trasmette di generazione in generazione. Nel 1931, Jean Baucoumont, ispettore dell‘insegnamento primario nella speranza di far conoscere in modo più profondo la vita e il carattere dei bambini, promuove l‘avvio tra i maestri di un‘inchiesta sul folklore enfantin tout entier. Circa dieci anni dopo Arnold Van Gennep in un lavoro sottolinea come gran parte dell‘apprendimento e dell‘educazione infantile si fondi soprattutto sul rapporto con i pari. Sulla stessa linea di pensiero si colloca una ricerca inglese svolta da I e P. Opie nel 1959 sui giochi di strada e durante la ricreazione scolastica.
[22] Delalande J., Culture enfantine et règles de vie, Terrain[ en ligne], 40I 2003, mis en ligne le 12 septembre du 2008. URL: http://terrain.revues.org /15555: 3, consultato il 3 dicembre 2011: 3.
[23] Corsaro W. A., Le culture dei bambini, Bologna, Il Mulino, 2003.
[24] Loux F., Traditions et soins d’aujourd’hui: Anthropologie du corps et professions de santé, Paris, Inter Editions,1983.
[25] Promotrice di questa trasformazione del reparto è un’ex infermiere di sala operatoria pediatrica da me intervistata durante la ricerca di campo.
[26] Corso di Alta formazione in cure palliative pediatriche Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa, Università di Bologna.
[27] Il dottor Tonitini oggi lavora presso l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo studio e la cura dei tumori, e porta avanti il “Progetto Radioterapia Pediatrica”, che ha lo scopo di diffondere il servizio di Radioterapia Pediatrica in Romagna dove di fatto non c’è mai stato. Il progetto è supportato dallo -IOR Istituto Oncologico Romagnolo- e dalla Fabbrica del Sorriso.
[28] Intervista al Dott. Tontini Luca (Specialista in Radioterapia, in servizio c/o U.O Radioterapia IRST Meldola) del 6/02/2016.
[29] Gadow S., Existencial advocacy: philosophical foundation of nursing, in S.F. Spiker, S.Gadow, Nursing: images and ideas, Springer, New York, 1980:79-101.
[30] Bartoccioni S., Bonadonna G., Sartori F., Dall’altra parte, a cura di Paolo Barnard, Milano, Rizzoli, 2006: 128.
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Filomena Cillo, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia con un lavoro di ricerca dal titolo: Regole infantili per un’assistenza matura. Un’analisi antropologica in contesto pediatrico, ha conseguito una successiva specializzazione in Cure Palliative Pediatriche presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa di Bologna. Tra i temi di ricerca approfonditi: la salute del migrante con particolare attenzione all’ambito pediatrico e femminile; i processi di costruzione identitaria attraverso l’analisi dei significati assunti dalla manipolazione del corpo nei riti tradizionali e moderni; la dimensione sociale e politica del trauma nelle narrazioni dei richiedenti asilo nonché le dinamiche di appropriazione dello spazio urbano.
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