di Luigi Lombardo
Ancora una volta ero alla Casa Museo, anziché pensare alla mia tesi di laurea in Letteratura Greca su Eubulo di Atene e la Commedia di Mezzo, ero là a dare una mano ad Antonino Uccello, data la palese ostilità delle autorità comunali e regionali, che non solo non avevano capito il senso di quel Museo, ma addirittura lo osteggiavano palesemente. Era, credo, il 1974, autunno inoltrato, che tirava quella tramontana secca che dalle nostre parti si chiama ancora Muncipiddaru, perché proveniva dal monte Etna. Era circa l’una, e Antonino mi invitò a restare a “prendere un morso”, poiché già Anna, la signora Anna, aveva portato a tavola una fumante minestra di fave, borraggini e pancetta di maiale, che aveva istillato in tutti non l’appetito, ma la fame, quella di una volta, vorace e benefica.
Quando suonò il campanello, e io, tra me e me, pensai «Eccolo l’ospite inatteso!», che era facile che si presentasse all’ultimo momento, come spesso accadeva a Casa Uccello. Anna si affrettò a vedere chi era, affacciandosi dal solito balcone che dava sull’ingresso del Museo: «Ci sono visitatori», fece, tra il fastidio e il compiacimento, guardando il marito come a dire «Veditela tu!». «Luigi, che ci vai tu? » «Va be’, che ci vuole, sarà una visita rapida». «E no! (l’intercalare classico) vedi un po’ di fare bene perché le persone meritano rispetto. Se no ci vado io!»
E scesi. Vidi due persone, un uomo e una donna, vestiti di scuro, la donna con un cappellino e veletta, e un cappotto di astracan rigorosamente nero, che sembrava uscita dalle pagine di Grand Hotel, lui il classico chaffeur (credo fosse tale). Li accompagnai e vedevo che la donna annuiva alla traduzione che faceva il suo accompagnatore in inglese; era molto interessata, e davanti ai pupi sorrise e chiese al suo accompagnatore di indicarle Orlando. Lo feci io, raccontando la storia del puparo catanese che sbottò contro il pubblico che lo dileggiava con la classica «Va rati u culu a valata» («date il sedere alla pietra della vergogna»), spiegando di che si trattava.
Ella rise e disse al suo amico, “Wonderful” e altre parole che non capii. Ma fu nella Casa ri stari che la vidi restare a occhi sgranati mentre io muovevo la naca a bbuolu (la culla), ripetendo gesti per me uguali, ma che per lei avevano probabilmente tanti altri significati. Finimmo e li invitai a firmare. La signora firmò e scrisse «Wonderful, Marlene Dietrich».
Sarà l’attrice? pensai e mi rivolsi all’accompagnatore, il quale confermò. La conoscevo per averla vista in un film, ma non è che la cosa mi interessasse più di tanto, non facendo parte del mio immaginario o del mio mondo culturale. Certo, l’accompagnai con più sussiego alla porta; e lei salutò con un grande sorriso che sapeva di altri tempi, che non avevo conosciuto, ma il mio pensiero volava a quel trancio di pancetta di maiale che ancora fumava nella pentola.
Finito il pranzo Antonino mi chiese, chi fossero i visitatori e da dove venissero. «Credo fossero dei tedeschi, una si è firmata Marlene Dietrich!», e lo dissi con un misto di soddisfazione e di timore. E qui Uccello scattò dalla sedia, come soleva fare quando si incazzava di brutto e corse giù per controllare il registro delle firme, ritornando paonazzo: «Bestia, mi fece, era Lei, la mia attrice preferita quella della mia gioventù». E corse in macchina, che non sapeva guidare. «Andiamo a cercarla!».
La cercammo, al Teatro Greco, ai Santoni, in trattoria, niente era ripartita per Noto, come ci disse il ristoratore dove i due avevano rapidamente mangiato. E così sfumò per il professore l’occasione di conoscere un suo idolo, e per me la possibilità oggi di esibire un autografo della diva (cosa che per la verità era mille miglia lontano dalla mia cultura di “giovane proletario di sinistra”, che allora mi compiaceva, ma che oggi non so che diamine significasse).
Certo, la Casa Museo in quel momento per me, e per altri ragazzi che la frequentavano, era il mondo, anzi il centro del mondo. Io ero convinto che non bisognasse abbandonare quei luoghi, quelle persone, quella terra che ci aveva generato, nonostante avvertissi l’insufficienza degli strumenti formativi che quell’ambiente mi offriva. Sognavo la ricerca archeologica sulla scia di Ranuccio Bianchi Bandinelli, o l’antiquaria sulle scie del mio maestro Giacomo Manganaro, che mi istillò l’amore per Rostovzev e il tardo antico, ma poi la frequentazione di Antonino Uccello mi portò verso la ricerca demologica, che praticai con strumenti critici forgiati dalla formazione umanistica e letteraria.
Un giorno che era venuto Luigi Lombardi Satriani, Antonino mi propose di andare a Napoli a fare da assistente (volontario) al grande Luigi, per me un mito e un modello. Dovevo decidermi, ma ancora una volta le pietre mi richiamarono, e decisi di rimanere attaccato allo scoglio come un mitile, sempre più innamorato della mia terra, sempre più convinto che la Rivoluzione (culturale) fosse a portata di mano. Iniziarono le battaglie per la difesa del centro storico di Palazzolo, delle sue peculiarità urbanistiche, della sua realtà di spazio urbano peculiare segnato da epoche artistiche e architettoniche che lo hanno forgiato: la cultura greco-romana, il medioevo dei signori Alagona, ma soprattutto l’età moderna, che ha visto succedersi un’intelligente classe politica borghese, artefice di quel gioiello che è oggi Palazzolo, città patrimonio dell’Unesco.
La battaglia per il centro storico fu estenuante, difficile, logorante politica- mente: ci siamo fatti tanti nemici, e politicamente siamo rimasti “quattro gatti”, emarginati e irrisi dai “potenti” delle federazioni provinciali e regionali del partito (allora PCI), dai signori del voto, dai satrapi della sinistra operaista e settaria. Ma in parte è stata vinta, se è vero che siamo arrivati, negli anni successivi, ad approvare (ero consigliere comunale nel 94-98) il piano particola- reggiato di recupero del centro storico, unici forse in Sicilia. Così un piccolo paese, oggi tra i borghi più belli d’Italia, è stato al centro di un interesse diffuso da parte di artisti, intellettuali, raffinati politici, che transitavano per Palazzolo per incontrare Uccello e la sua Casa, che dal 1971 era un Museo. Tutto girava attorno a quel palazzo, a quel quartiere (Mandrazze-Lenza-Orologio), oggi quasi irriconoscibile.
Se ritorno alla Casa Museo (e ci vado spesso) mi soffermo nei vari ambienti e a volte mi capita di visualizzare ricordi di 40 anni prima: la grande sala da pranzo col tavolo rotondo dove rivedo Tono Zancanaro e la sua risata gracchiante, o Renato Guttuso col suo sorriso beffardo e tutto palermitano, al quale invano cercai di strappare un ricordo grafico, sottoponendogli un foglio da schizzare e firmare; la casa i massaria dove una sera cenammo con Domenico Rea, che ci raccontò storie inverosimili della sua Napoli di Gesù fate luce; o il gabbiano Dory Bignotti che spesso sedeva sulle gambine fragili di Antonino, lei alta ma estremamente leggera, lui piccolo ma resistente e compiaciuto.
Rivedo quegli ambienti pieni di vita e di passione, e li paragono all’oggi, freddo e incolore. Ma poi mi convinco che oggi quel luogo è un museo, mentre prima era una Casa, quella casa che avevo perso quando, nel 1968, i miei decisero di abbattere per costruirne una alla moda, linda e pulita, ma senza anima, dalla quale sparì per primo il forno e poi il braciere (a conca), sostituiti dal forno elettrico e da stufette a cherosene, che a volte sembrava di essere alla Sincat di Priolo. Non era come prima. Ma alla Casa Museo, alla Casa Uccello, era un’altra cosa. Era la casa della mia infanzia, pur se si trattava di palazzo nobiliare (della nobile famiglia De Ferula), e la mia era una casa popolare con tre ambienti e tre magazzinelli tra cui la putia di mio padre calzolaio.
Ecco, quella Casa di Uccello, che era anche Museo, era la mia, la nostra Casa, quella di una piccola minoranza che l’aveva voluta, assecondando la famiglia del professore che ne sopportava i disagi di vedere la propria casa trasformata in museo. Insomma quel Museo era luogo di esposizioni di collezioni etnografiche, ma insieme spazio dell’intrecciarsi di relazioni, passioni, lotte, speranze di una generazione, quella mia e quella di pochi altri, che sognava altro da quello che poi è venuto concretizzandosi.
Insomma quel museo potremmo definirlo un museo “caldo”, partecipato, vivo. Per la verità ho sempre avuto dubbi circa la distinzione fatta da illustri museografi tra musei caldi e musei freddi, poiché a mio avviso, in qualche modo, ogni museo nasce “caldo”, è sempre il frutto dell’azione di un autore, di un gruppo, di una comunità che lo vive e lo vivacizza, lo anima e lo sente proprio, parte della storia della crescita umana e culturale dei suoi fondatori. Salvo poi col tempo e col venir meno dei suoi fondatori, la vita si fa routine, l’impegno si standardizza, la quotidianità prende il sopravvento e quel museo diventa freddo, si burocratizza, e non può che essere così. Io stesso me ne sono reso conto quando, dopo la morte di Uccello, il Museo è passato alla Regione: tutto è cambiato. Ora vedo che c’è chi vuole regionalizzare musei privati: a questi dico di rimanere nel privato, di restare musei autoriali, fin quando è possibile, di affidare ad associazioni, a gruppi, a cooperative giovanili i luoghi, poiché il passaggio al pubblico implica molto spesso lo snaturamento di questi delicati musei.
Nell’ottobre del 1979 con flebile voce Antonino Uccello mi chiedeva di battere a macchina le sue memorie, che sarebbero confluite nel libro La Casa di Icaro, curato da Salvatore Nigro. Lo feci e ogni giorno che passava vedevo che il professore non ce la faceva più e che il segno di correzione diveniva sempre più tremolante. Un giorno gli gridai quasi: «Ah, se non fosse per questo male!». E lui con voce cavernosa, ma decisa: «Tu non sei un marxista, il marxista non conosce i “se”».
No professore, non ero un marxista, ma un sognatore, come lo eri tu, altrimenti non ti saresti messo in un’avventura che ti ha logorato, sempre in tensione nervosa, risentito contro il mondo intero, deluso, sconfortato fino al punto di decidere di vendere tutto alla Regione siciliana, laddove avrebbe desiderato tutt’altra soluzione. Nonostante tutto, io continuo a sognare. Ho avanzato anche proposte per rivitalizzare la Casa Museo, quale quella di acquisire l’intero immobile per esporre il resto delle collezioni, oggi visibile in un confusionario giro che, se fa vedere oggetti, non li rende comprensibili, in quanto privi di contestualizzazione ambientale e scientifica.
Continuo ad andare alle manifestazioni promosse dai vari responsabili che nel tempo si sono succeduti (e sono stati tanti): architetti, archeologi, funzionari generici, pochi etnoantropologi. Quella che è mancata, e lo dico senza spirito polemico, è stata una gestione più spregiudicata, rischiosa certo, ma l’unica, fondata sulla collaborazione di quanti quel museo avevano messo su come collaboratori di Uccello, istituzionalizzandone la partecipazione e il ruolo all’interno di una Fondazione-Casa Museo, un po’ come è avvenuto per l’INDA a Siracusa. In questo modo si sarebbe avuta una struttura meno burocratica e fondata sulla partecipazione. Ma questo è un discorso da Giovanni che predica nel deserto, vox clamans in deserto.
Non so perché sono finito in questo noioso discorso, quando invece volevo raccontare la Casa Museo vista da uno che c’è stato, un testimone vivente, consapevole che i luoghi sono la nostra storia, la materializzazione dei nostri sogni, che non esistono cose oggetti luoghi senza una memoria, un sogno che li sostiene, senza un discorso, una narrazione che li renda vissuti, vivi, di volta in volta “riscaldandoli”, per riaccenderli tante volte quante sono i sogni messi in campo.