L’Albania di oggi è sicuramente un Paese ben diverso da quello reso celebre negli anni ’90 dai barconi carichi di immigrati che tentavano la traversata dell’Adriatico. Quella fu la prima, consistente ondata migratoria che colpì l’Italia, l’avvio di un fenomeno che in pochi decenni avrebbe trasformato completamente la nostra penisola.
La fuga disperata di migliaia di albanesi fu l’esito di un periodo di estrema turbolenza che l’Albania attraversò a seguito della fine del regime comunista. Enver Hoxha fu prima partigiano combattente contro l’invasione fascista, e in seguito guidò il partito comunista alla vittoria elettorale, reggendo in una morsa di ferro il Paese dal 1946 al 1985 [1]. Alla sua morte, i suoi successori tentarono di raccogliere la sua eredità proseguendo l’esperienza comunista, ma violente proteste contro il clima di oppressione provocato dalla dittatura portarono alla concessione delle prime elezioni libere del Paese nel 1991. Tuttavia il termine del Comunismo e l’elezione del primo governo libero non portarono ad un miglioramento immediato delle condizioni di vita della popolazione. Al contrario i primi anni successivi alla caduta del regime furono particolarmente duri, con situazioni di povertà estrema diffuse su buona parte del territorio nazionale. La transizione dalla gestione statale di tutti i beni alla proprietà privata e all’economia di mercato non avvenne in modo indolore, ma al contrario fu un processo lungo e sofferto, accompagnato anche da violente rivolte. Gli anni ’90 furono quindi quelli della fuga di migliaia di albanesi, che tentavano di scappare dalle condizioni disperate in cui versava l’Albania, in bilico fra povertà estrema e guerra civile, e guardavano all’Italia come ad una sorta di terra promessa.
Da allora l’Albania ha avviato un difficile percorso di riforme economiche che ne hanno cambiato parecchio la fisionomia, trasformandola, secondo i criteri di classificazione del Fondo Monetario Internazionale, da Paese del Terzo Mondo a Paese in Via di Sviluppo. L’Europa sta iniziando a prestare maggiore attenzione a questo Paese che, tra tutti quelli orbitanti attorno al blocco comunista, è rimasto per maggior tempo confinato in un isolamento quasi assoluto, troncando addirittura i rapporti non solo con le nazioni occidentali ma anche con tutti gli altri Paesi comunisti [2]. La zona dei Balcani risulta di grande rilevanza strategica per l’Unione Europea, soprattutto per quanto riguarda le prospettive politiche ed economiche che potrebbero derivare da possibili partnership con le giovani democrazie in via di formazione in quell’area. Nel caso dell’Albania, negli ultimi dieci anni sempre più fondi del Ministero degli Affari Esteri italiano, e della cooperazione internazionale sono stati destinati a progetti finalizzati alla promozione e allo sviluppo dell’economia nazionale, nella prospettiva del rafforzamento di legami commerciali con il nostro Paese. A questo si aggiunge il fatto che da giugno 2014 l’Albania è anche ufficialmente candidata all’entrata in Europa, cosa che rafforza ancora di più lo stretto legame che la unisce al nostro Paese. Tuttavia il percorso di avvicinamento all’Unione Europea non è stato per nulla semplice, soprattutto a causa dell’instabilità politica interna al Paese, che, nel 2010 aveva portato il Consiglio dell’UE a non ritenere l’Albania ancora pronta per la candidatura all’entrata in Europa [3].Questa mancata opportunità fu causata essenzialmente dai difficili rapporti allora esistenti tra Governo ed opposizione, e solamente grazie al ritrovato dialogo tra parti politiche e all’avvio di importanti riforme economiche, l’Europa è arrivata oggi a concedere all’Albania lo status di Paese candidato.
L’Albania di oggi si trova quindi in equilibrio tra slancio verso il futuro, e legami ancora fortissimi con un passato ancora recente. Le città, Tirana prima fra tutte, sono state rapidamente sconvolte da un boom edilizio incontrollabile, mentre il resto del Paese continua a vivere in condizioni prevalentemente rurali. Le zone di montagna mantengono ancora le tracce di una vecchia Albania, che nonostante tutto stenta a scomparire. L’emigrazione ha mietuto le proprie vittime praticamente in ogni angolo del Paese, e per rendersi conto dell’entità del fenomeno basti pensare che gli albanesi residenti in Albania oggi sono circa tre milioni, mentre quelli che vivono all’estero, includendo anche le seconde generazioni, sono oltre sei milioni. Ma i villaggi abbarbicati sulle montagne al confine con il Kosovo e con il Montenegro hanno forse pagato il dazio maggiore.
In questi territori, dove la natura è al tempo stesso bellissima ma anche aspra e selvaggia, e il calendario è ancora segnato dai ritmi dell’agricoltura, la vita ancora oggi è estremamente dura, e l’inverno spesso con la neve porta anche l’isolamento dai centri urbani per mesi interi. Se ci lasciamo alle spalle la città di Scutari, basta una mezzora di auto verso le montagne per riportarci indietro in un’Albania d’altri tempi, dove la globalizzazione arriva con la voce di skype, attraverso cui le famiglie locali parlano con i propri parenti emigrati, ma al tempo stesso l’assenza di una seppur minima rete di trasporti pubblici, impedisce a molti ragazzi la frequenza delle scuole superiori ubicate a poche decine di chilometri fuori dalle vallate.
Qui ancora oggi sopravvive il Kanun, un vero e proprio codice di comportamento non scritto, che permea le pratiche quotidiane delle comunità locali. L’origine del Kanun si perde nel tempo, anche se la tradizione lo fa risalire al 1444, anno in cui Lekë Dukagjini, condottiero albanese famoso per la sua tenace resistenza all’Impero Ottomano, ne avrebbe sistematizzato i contenuti. Fino ai primi anni del Novecento il Kanun è stato tramandato esclusivamente a livello orale, e per secoli ha rappresentato il punto di riferimento principale per la regolamentazione di tutti gli aspetti della vita sociale delle comunità locali. Il testo scritto attualmente disponibile è il risultato dell’opera di ricostruzione filologica realizzata da un frate francescano originario del Kosovo, Shtjefën Kostantin Gjeçov, che, dopo l’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano nel 1912, provò a trascrivere le disposizioni del Kanun, organizzandole in forma sistematica. Tuttavia la versione di Padre Gjeçov non è il Kanun nel significato più ampio del termine, in quanto le disposizioni del codice, tramandate oralmente per secoli, variavano da feudo a feudo, ed è quindi impossibile ricostruirle nella loro completezza.
Il Kanun è l’espressione massima del sentimento di reciprocità tribale tra membri dei Fis, il corrispettivo albanese dei clan, i quali erano legati tra loro da vincoli di sangue. Nel Kanun non vi è distinzione tra diritto pubblico e privato, in quanto i concetti fondanti, cioè la fiducia, l’onore e il legame di sangue, infondono trasversalmente le norme che stanno alla base di entrambi gli ambiti. Esso regolamenta tutti gli aspetti dell’ordine sociale e delle pratiche quotidiane della comunità, trattando fattori che vanno dalla divisione dei terreni all’organizzazione del sistema famigliare. È un codice che esprime appieno il sentimento albanese di indipendenza dai dominatori, e che rispecchia la fiera durezza delle montagne e del carattere e delle popolazioni che le abitano. Nel Kanun il valore fortissimo attribuito al sangue lo rende quell’elemento unificante che fa schierare il popolo albanese coeso contro gli invasori. L’Albania è da sempre stata una terra di conquista, eppure il suo territorio impervio l’ha resa nei secoli difficilmente accessibile agli stranieri. Le norme del Kanun e i valori simbolici e sociali che ne stanno a fondamento permettono la fusione dell’identità individuale con la coscienza collettiva di un popolo che resiste alle pressioni esterne. Il regime comunista di Enver Hohxa, che tentò di importare in un ordinamento sociale basato su rapporti tribali di sangue un modello di Stato centralizzato, compì sforzi enormi per sopprimere il Kanun e, pur con significativi risultati, non riuscì a sradicarlo completamente, tanto che, una volta caduto il regime comunista, il codice è tornato nuovamente visibile, e le sue applicazioni persistono ancora oggi nelle pratiche quotidiane delle popolazioni del nord del Paese.
Uno dei valori fondanti del Kanun è la parola albanese “besa”, per la quale non esiste un temine traducibile nelle altre lingue. La parola italiana che maggiormente si avvicina al termine albanese è fiducia, ma nell’accezione di fiducia in un ordine conosciuto e accettato da ogni membro del gruppo sociale, fiducia nella coesione tra coscienza individuale e senso di appartenenza alla collettività. Sulla besa si fondano i legami sociali importanti, quelli che permettono al popolo albanese di preservare l’integrità della propria comunità locale, nonché il principio dell’ospitalità, che per un albanese è sacra e va sempre rispettata, e quello di onore. Quest’ultimo punto è particolarmente importante perché introduce un tema di cui tanto spesso si sente parlare in relazione al Kanun, ovverosia quello delle vendette di sangue. Il Kanun regolamenta del dettaglio i casi in cui un uomo che perde l’onore debba vendicarsi, e in quale modo tale vendetta vada eseguita, soprattutto qualora l’onore sia stato oltraggiato attraverso il versamento di sangue. Nel codice la vendetta non è mai fine a se stessa, ma mira sempre a ristabilire la giustizia che è stata infranta dallo spargimento di sangue. Secondo il Kanun solo il sangue può pagare il sangue, pertanto per ripristinare l’ordine sociale della comunità è fondamentale che la vendetta venga compiuta. Questo meccanismo appare vitale in un contesto in cui vi è l’assenza di un’autorità superiore in grado di imporre obbedienza attraverso ricompense e sanzioni, quale ad esempio l’autorità statale. È necessario quindi che le norme del Kanun siano interiorizzate nella coscienza dei membri della comunità, in modo che vi sia un legame di devozione tale ad esse e alla comunità stessa da permettere il mantenimento dell’ordine sociale senza bisogno dell’intervento di un’autorità esterna. Il modo in cui il Kanun regolamenta le pratiche di esecuzione della vendetta di sangue è estremamente dettagliato. È ad esempio previsto che siano coinvolti solo gli individui maschi della famiglia, escludendo quindi le donne. Inoltre la vendetta può essere eseguita solo quando la persona interessata si trova fuori dalla propria abitazione. È anche contemplato l’atto del perdono, attraverso una cerimonia ben precisa che mette fine allo spargimento di sangue e ristabilisce l’armonia della comunità.
In questo senso la vendetta di sangue sancita dal Kanun si differenzia sostanzialmente dalla faida. Tuttavia oggi il fenomeno delle faide famigliari è pericolosamente diffuso nel nord dell’Albania, e viene giustificato dall’importanza che ancora oggi il Kanun assume per la difesa dell’onore dei membri delle comunità locali. Lo Stato sembra non riuscire ad incidere in modo decisivo su questa piaga sociale, e ad oggi nella zona di Scutari ci sono centinaia di famiglie, i cui membri maschili (e non solo) vivono come reclusi in casa per anni interi per sfuggire alla morte. Le istituzioni sembrano disinteressarsi completamente del fenomeno, tant’è che non vi sono progetti di legge in corso o provvedimenti legali che puntino al suo sradicamento. Al contrario, lo Stato sembra tollerare questa sorta di “giustizia fai da te”, cosa che appare come un sintomo preoccupante del vuoto politico in cui certi temi vengono lasciati, in un Paese dove purtroppo ancora oggi l’ampia corruzione e un sistema giudiziario lento e inaffidabile lasciano spazio eccessivo all’auto-organizzazione dei singoli cittadini. E le vittime delle faide, giustificate dalla difesa dell’onore secondo il Kanun, rimangono destinate ad una condizione perenne di marginalità.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
[1 ]Anche se le prime elezioni si tennero sul finire del 1945 ed il nuovo Governo si insediò ufficialmente nel 1946, di fatto il Paese era già sotto l’influenza comunista a partire dal 1944, anno in cui ebbe termine l’occupazione tedesca dell’Albania.
[2] Durante il periodo del regime, Enver Hohxa aveva notevolmente raffreddato i rapporti innanzitutto con l’URSS, uscendo dal Patto di Varsavia nel 1968, ma interrompendo ogni dialogo sia con i vicini Paesi balcanici, tra cui la stessa Jugolavia, sia con la Cina. In questo modo l’Albania rimase confinata per decenni in un isolamento quasi totale.
[3] La bocciatura avvenne nonostante quello stesso anno entrasse in vigore l’entrata senza visto nell’area Schengen per i cittadini albanesi.
Riferimenti bibliografici
Kadarè, I., Aprile spezzato, Longanesi Milano 2008
Resta, P., Il Kanun di Lek Dugajini. Le Basi Morali e Giuridiche della Società Albanese, Besa Nardò 1997
Resta P., Pensare il sangue. La vendetta nella cultura albanese, Meltemi Roma 2002
Vickers, M., The Albanians. A Modern History, I.B.Tauris & Co., 2014
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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