di Luigi Lombardo
In un canto dell’Odissea (XXIII, vv. 183-204) Ulisse, adirato verso la consorte, che ancora non lo riconosce, nonostante abbia vestito abiti regali, così la rimbrotta stentoreo:
«O donna, davvero é penosa questa parola che hai detto! Chi l’ha spostato il mio letto? sarebbe stato difficile anche a un esperto, a meno che un dio venisse in persona, e, facilmente, volendo, lo cambiasse di luogo. Tra gli uomini, no, nessun vivente, neanche in pieno vigore, senza fatica lo sposterebbe, perché c’è un grande segreto nel letto ben fatto, che io fabbricai, e nessun altro. C’era un tronco, ricche fronde, d’olivo, dentro il cortile, florido, rigoglioso; era grosso come colonna: intorno a questo murai la stanza, finché la finii, con fitte pietre, e di sopra la copersi per bene, robuste porte ci misi, saldamente commesse. E poi troncai la chioma dell’olivo fronzuto, e il fusto sul piede sgrossai, lo squadrai con il bronzo bene e con arte, lo feci dritto a livella, ne lavorai un sostegno e tutto lo trivellai con il trapano. Così, cominciando da questo, pulivo il letto, finché lo finii, ornandolo d’oro, d’argento e d’avorio. Per ultimo tirai le corregge di cuoio, splendenti di porpora. Ecco, questo segreto ti ho detto: e non so, donna, se è ancora intatto il mio letto, o se ormai qualcuno l’ha mosso, tagliando di sotto il piede d’olivo ».Il letto di Ulisse è ben saldo a terra, le sue radici lo fissano e lo ancorano alla stabilità del pavimento, al punto che diventa un tutt’uno con lo stesso suolo e le sue profondità segrete. Per spostarlo bisogna disancorarlo da terra, recidendo le radici profonde che trasmettono ancora linfa vitale a quel luogo.
Quel letto coniuga natura e cultura. Le radici sono ancora vive; vivo è il tronco, perché Ulisse lo strappa alle leggi della natura, è un “artificio”, modellato con perizia di mani artigiane, intarsiato con tarsie d’oro e d’avorio. Egli lo descrive fin nei minuziosi particolari, tra manifesta sofferenza e decisa protesta. Attorno ha costruito la sua casa, così che il letto non è arredamento, ma è la casa stessa, oikos, attorno a cui le mura sono vero ornamento, recinto protettivo dell’adyton sacrale. Né più né meno degli antichi altari di fondazione, che i Greci elevavano all’atto del processo di urbanizzazione di una località. Un simbolo, il luogo degli affetti fondamentali, dei legami coniugali, dei rapporti di sangue e di onore. Spazio generante, prolifico, axis mundi, centro del mondo, snodo di confluenza delle forze magiche che preservano i rapporti umani, primo fra tutti il vincolo matrimoniale.
Dall’antichità attraverso i secoli il letto ha svolto la sua centralità nell’arredo della casa, per divenire, in epoca cristiana, luogo dove si consuma l’atto di riproduzione, da cui scaturisce la famiglia, assunta dalla morale cattolica, in particolare, a cifra connotativa del vero praticante. Il medioevo cristiano amplifica questo ruolo centrale nella casa, sia come arredamento, sia come connotante la coppia prolifica.
Il letto nel Medioevo siciliano
Da uno studio dei Bresc [1] sugli atti notarili del XIII secolo in Sicilia ricaviamo utili elementi per delineare il letto di famiglie di ceto medio, fra l’alta aristocrazia e le classi popolari. Molti termini portati in evidenza da Bresc spesso continuano a sopravvivere nei secoli successivi, come avremo modo di far rilevare.
Il letto medievale si componeva di trispides (in siciliano trìspiti) di legno, di tavole, i tauli ô liettu, e di una cannara o gissaria, di cui non vi è traccia nei secoli successivi, almeno per l’area orientale della Sicilia: si tratta di una sorta di stuoia che fa da base al materasso (u matrazzu). Questo era in genere riempito di lana, con fodere di stoffe varie come il “burdo purpurigno” o il “burdo xilandrato”, un particolare tessuto di cotone; le lenzuola erano di tela bianca, o di seta, il cuscino era a due (duo plomacia, dui cuxinella, riempiti di piume), o unico, chiamato traverserium. Delle coperte la chalona non si è conservata nei secoli a venire, mentre la carpita, ampiamente documentata fino ai giorni nostri, a livello popolare avrà grande diffusione, per essere un pesante copriletto di lana a disegni geometrici, largamente attestata a Lentini e zona iblea (in particolare Buccheri in provincia di Siracusa). Venne impiegata anche come tappeto da muro [2]. In questo uso equivaleva al bancali, abbastanza diffuso in epoca moderna, a Sortino in particolare.
La più comune delle coperte da letto era ed è ancora oggi la coltre (a cuttra), su cui si polarizza l’arte delle tessitrici (careri): quelle medievali sono ad undas, ad refusam, ad luppinellum, a rami o «tissuta a brisca di meli» [3]. Raro nel ‘300 è il cortinaggio (curtina) [4] che sarà la novità dei secoli successivi, comune a tutte le classi, escluse le più povere, i miserabiles: spesso completato dal sopracielo, chiamato imburlachium. Un tappeto fissato alla testiera costituisce l’avantilectu. Seguono i mobili da camera, che qui si tralasciano. Nel corso dei secoli, e a partire dalla metà del ‘400 (meglio documentato), il padiglione (paviglioni) divenne elemento centrale e caratterizzante della camera degli sposi. A Vizzini il termine imburlachium, che abbiamo visto designare il sopracielo chiuso dal “cappello”, diventa imburleccu.
Questo arredo dai tratti marcatamente simbolici, costituiva la parte più importante del paramentum cammerae [5], cioè l’insieme dei tessuti che componevano l’arredo della camera. Non poteva mancare, sia nelle fasce alte che basse della società, la cassa nuziale [6] (archibancum), sontuosa, riccamente dipinta e ornata di sculture, quella dei ceti alti; di faggio e semplice quella povera (a cascia, ma anche casciabbancu nelle famiglie medie). Essa stava a lato del letto o, nelle case umili, sotto il letto stesso, nascosta, con la funzione di custodire il corredo, ovvero il tesoretto non della coppia, ma della donna, che ne conservava la proprietà, anche dopo la morte del marito, il quale non ne poteva disporre, al pari di tutti gli altri beni dotali.
Il letto tra Quattro e Cinquecento
Il letto era designato, fin dal primi decenni del Quattrocento, col termine littera, continuato fino ai giorni nostri. Si intendeva un letto grande, appunto quello degli sposi: si soleva dire dalle nostre donne cunzari na littera per indicare un lettone capiente e in grado di ospitare grandi e piccoli. Il termine compare in atti notarili della prima metà del XV secolo: il 20 aprile 1442 Giuseppe Amato, a nome di Antonio Luna, aveva elencato i beni trovati nel castello di Bivona, cioè quattro balestre, tre di legno e una di osso, una vecchia littera, un vecchio archibancum [7]; a Siracusa nel 1496: «item licteram unam lignaminum cum soi trispiti et tavuli cum suo banco et banchitellu dinnanti» [8].
Lo ritroviamo a Lentini nel dotario di Agata de Mino e De Richardo, vidua relicta, sposa di Lorenzo de Cardillo, atto rogato il 13 settembre 1564: «uno mataraccio novo, uno sacco di letto novo, uno paro di linzola novi, uno pavigluni usitato, una littera, dui avanti letti, una carpita di lana, dui chumazzi» [9].
I dati archivistici si fanno più consistenti nella seconda metà del ‘400. Per la Sicilia Sud Orientale, Noto ha il notaio più antico, cioè notar Musco, i cui primi atti risalgono al 1446: in data 5 novembre è registrato un inventario di beni, dove si notano «cultram unam ad undam, fraczatam unam livi [...]», cioè la coltre tessuta con disegno «ad ondam» [10] e una frazzata «a livia», disegni che ritroviamo documentati fino ai giorni nostri. Ancora nel 1462 a Noto mastro Leonardo Xurtino dota alla figlia «cultram unam ad undam, aliam cultram allazzu e a gigli», con una specificazione precisa della coltre con disegni a fiori e con frinza “allazzata”[11].
Il 9 aprile 1463 Pino de Guarnaccia come amministratore registra i beni della madre, tra cui spicca la solita coltre questa volta «ad rosas et allaxata» [12]. Questi motivi floreali sono molto diffusi nelle coltre dell’epoca: possono essere «a giglu allazzatu», «a rosa allazzata», «a fogla», «a giglu allazzatu» [13]. A Buccheri nel ‘500 prevalgono i disegni «ad rosa», «ad unda», «a ramo» [14]. Il lavoro ad undas era consueto a Siracusa dove si arricchiva di altri disegni: come vediamo nell’atto di costituzione di dote di Eulalia Brancato del 25 novembre 1478:
«cultram unam ad unda et ad una banda ad pamphina di aranciu et l’altera ad buctunelli et rosis; item manutergia 4 ad unu filu ad ramu genistre; item thobaliam unam anteconam isfilatam per totum cum intaglis et sua supcona cum capitibus isfilati; item coxina unam ad ramu genuistra facta ad ferzi cum suo cappelo quandam guarnacham corporis dicte sponse panni di maiorca viridi novam [...]» [15].
Il letto era parte fondamentale della dote delle spose, fossero esse di alto ceto che appartenenti alle classi popolari ed umili: in un modo o nell’altro la consuetudine andava rispettata. Il letto era accompagnato dalla rauba blanca, la biancheria, e da alcuni mobili di arredo che componevano la camera da letto, quando gli sposi potevano disporne. Da notare che in alcuni atti il letto risulta dotato anche a metà.
Siracusa offre gli esempi documentari più antichi e più completi, per avere due notai che rogano nella seconda metà del ‘400, cioè Vallone e Piduni. Appunto il notaio Vallone in data 2 novembre 1478 ci fornisce uno dei documenti più completi di un dotario dell’epoca, da cui possiamo estrapolare i riferimenti al letto della sposa e al corredo di riferimento (cuscini, lenzuola, coperte, tendaggio e cortinaggio [16], padiglione, tappeti e mobili di pertinenza, come la “caxa” nuziale), oltre ad alcuni oggetti di arredo come la cona o altare ligneo con le relative coperte. Si tratta della dote di Bernardina de Noto di Siracusa che sposa Antonino Cassuni. In questo documento, come nei tanti altri consultatati, non si fa riferimento a “tauli e trispiti”, ma si inizia sempre con uno o due materassi pieni di lana [17] o di piume, su cui pare che si stendeva una tela per isolare il materasso. I cuscini in numero di due erano ripieni di lana o di piume:
«par unum cuxinellorum alborum plani; item par aliud cuxinellorum isfilatorum per totum cum jummis in capitibus sereci viridis et frinzis circum circa sereci celestri; item par aliud cuxinellorum intagliati per totum cum frinzis sereci rosei et celestri circum circa».
Assieme ai cuscini veniva dotato anche un traverserium, che già abbiamo incontrato nel ‘300, che via via si perderà nei secoli successivi. Le siracusane, che sposavano spagnoli, castigliani, catalani o valenziani, portavano ricchi dotari (inconsueti nel ceto medio spagnolo). Come è il caso di Margherita Jommartino che nel 1480 sposa il valenziano Francisco de Aroles [18].
La tilella e il letto a padiglione
Non sappiamo di preciso come fosse e a cosa servisse questo tessuto. Probabilmente si trattava del più antico cortinaggio che precede il pavigliuni e serviva ad ornare il letto vero e proprio, quando questo era sistemato (a liettu fattu) e dunque faceva da pendant con il resto del cortinaggio. Era anche questo costituito da falde (ferzi):
«item tilellam unam tele ad ferzi idest novi ferzi plani cum frinziis di filo in medio et per longu unceas 15; item tilella aliam intagliatam per totum consistentem in octo ferziis incordellis sereci nigri in medio et frinziis sereci viridis et rosei per longu unceas 4».
In questo dotario di Margherita Xaccotta figlia di mastro Simone (ceto medio produttivo) notiamo che la tilella è posta tra i materassi e le lenzuola; seguono in ordine di stesura sul letto:
«cultram unam nova a lu imbellutatu onc. viii; cultram aliam a lu bruccatu [si tratta dell’ammurgata presente nelle doti delle popolane tra Otto e Novecento]; item cuxixinellorum tele plane et par aliud intagati per totum cum cordella sereci».
Segue il cortinaggio vero e proprio:
«Cortinam unam ad ramu genuistre consistentem in ferziis sanis xviii et in ferziis intaglatis xviiii cum suo supracelo consistenti in ferziis tribus planis et duabus intaglatis cum sua girlanda intra et unam intaglata cum frinziis sereci nigri et rosei».
L’inventario [19] prosegue secondo una sequenza che altro non è se non il modo come la dote si presentava agli occhi dei parenti dello sposo e del resto delle famiglie. A seguire è elencata la serie delle tovaglie: di faccia (facitergia in tocco), tovaglie da tavola (mensalia ad ramu genistra cum listis majuti), tovaglie per mani (manutergia), asciuga coltelli (stuja cutelli), infine le cosiddette “antecone”, cioè tovaglie di raffinatissima fattura che coprivano i quadri devozionali.
La tilella ha frinze molto elaborate, quasi sempre «a castelluzzo», come troviamo nel dotario di Bianca Montalto figlia del barone Giuseppe di Milocca, feudo di Siracusa: «item tilellam novam di cuctinina murisca cum frinziis xi idest vi planiis et quinque laboratis a punto ructo serico nigro in capitis solitis … serico albo et nigro a castelluzzo de pede» [20].
Fino a tutto il ‘500 è una coperta da letto assai comune, mentre a partire dal secolo successivo diventa più rara, tanto che, quando è presente, viene qualificata come «all’antica». Particolarmente elabo- rate sono le lenzuola e, come detto, le tovaglie che coprono l’altare o cona con il relativo «sopracielo»: «item thobaliam unam ante conam intagliata per totum cum sua tobalia super conam cum capitis isfilatis et et frinzis sereci cilestri in capitibus; item tobalia alia ante cona alba isfilata in capite cum sua supracona alba». La «cona cum sopracielo» è una sorta di altarino privato simile a quello allestito nel periodo di Natale nel Catanese, chiamato significativamente a cona.
La “porta di Tripoli”
Le coltri [21] erano il pezzo forte del dotario della sposa di qualsiasi ceto, era la componente fondamentale del letto: nel già citato dotario di Bernardina de Noto di Siracusa del 1478, leggiamo di un disegno che si ripeterà spesso, cioè «ad portam Tripuli» e «ad pampina di aranju» con rose in mezzo: «item cultram unam ad portam tripuli novam per uncias x; item cultram aliam novam ad pampina di aranju cum rosis in medio [...]», che ha una variante a Palazzolo nel 1479 dove compare una «cultram unam novam ad undam et a li bandi ad pampina di aranciu et rosi» [22]. La “porta di Tripoli” fa pensare a un disegno mediorientale, presente soprattutto nei tappeti.
Di estremo interesse, sempre nello stesso dotario siracusano del 1478, è il riferimento ad una «cultram aliam novam magnam cum lavuri di lu bruccatu [...]»; cioè con disegno tipico della popolarissima cutra ammurgata [23]; altro motivo assai popolare è quello «ad unda et ad una banda ad pamphina di aranciu et ad l’altera ad buctunelli et rosis» [24], cioè da un lato a foglia d’arancio dall’altra a zagara e rose; o ancora la «cultram laboratam ad stilli seu rosis magnis et liliis in latheribus novam; item aliam cultram novam ad lavuri di lu imbillutatu magnam» [25]: cioè a rose, gigli e stelle. Una sola volta compare il termine chalona, una particolare coperta di lana di chalon, cui accenna il Bresc per il ‘300 (v. supra).
Qualche volta vediamo usata la seta come fodera nei cuscini, o addirittura nei materassi [26]. Come detto, rispetto al Trecento si afferma, prima nelle famiglie aristocratiche poi nella media e piccola borghesia, il padiglione (pavigliuni), che comprende la “cortina”, il cortinaggio, con le porte, il “sopracielo” e il “cappello”: «item cortinam unam ad ramu genistre cum ferzis isfilatis et portis isfilatis cum frinzis fili albi a li porti cum suo supracelo ad ramo ginuystre cum ferza isfilata in medio et sua girlanda isfilata in totum circum circa et frinzis fili albi». Qui i motivi sono quasi sempre «ad ramu di genistre [ginestra]», con frinze intorno e una “girlanda”, probabilmente un rifascio di coronamento, in alto, con decorazioni a motivi a ghirlanda e con frangie di filo bianco: «item quamdam girlandam di cortina isfilata per totum cum frinzis fili albi».
Sempre per la seconda metà del ‘400 agli atti del notaio Piduni di Siracusa è riportato il dotario di Francesca Zavatteri [27], dove tra l’altro compare una cortina con frange con motivo a ramo e con passamaneria di seta celeste, altre frange di seta celeste ornano le cimase da cui scendono drappi intagliati e la solita “girlanda” di coronamento:
«cortinam unam ad ramum cum cordella sereci chilestri in medio di li ferzi et in lenciis intaglati a li porti et frincie serici chelestri in capitibus dictarum lenciarum cum supracelo cum lencia in medio intaglata et cum girlandis dintra e di fora intaglatis et frincis serici chilestri in capitibus pro unciis viginti».
Il prezzo ci dice che si tratta di un letto di particolare valore. Notevole è anche il documento relativo al matrimonio di mastro Lamberto lu Monacu di Noto con una vedova siracusana: nel dotario si rileva una ricca dote che la vedova portava con sé dal precedente matrimonio, vi è compresa la solita tilella e una «cortinam cum portis et suis gherlandis intagliati cum frinzis fili albi et suo cappello cum ferza intagliata in medio» [28]. In questo caso la cortina indica, pars pro toto, tutto il letto a “padiglione”, delle classi medie: lo sposo è un ricco mastro. Altra descrizione del pavigluni troviamo in documenti più tardi, ma che non portano grandi novità a quello che era il letto già a metà del ‘400: 24 luglio 1548, per il matrimonio dell’onorato mastro Salvatore de Ansalone con Margherita Alagona vedova di Antonino de Fina, il fratello magnifico Gio. Antonio de Alagona dota alla sorella tra l’altro «un paviglioni di tila di sei carlini in ferzi 21 cum frinzi di filo in mezo e a li porti randi di filo con so cappello» [29].
Il documento è interessante perché prova come questo letto di pertinenza aristocratica, arrivi alle classi inferiori: lo sposo infatti è un magister, mentre la sposa è una nobile rampolla della potente famiglia Alagona. Già nella seconda metà del ‘500 lo troviamo nel dotario di spose di ceto medio e piccolo borghese:
«Settembre 1584, per il matrimonio di Mariano Brusca di Palazzolo con Matthiula de Rodo di Siracusa. Allo sposo la madre dota una casa terranea con cisterna e pozzo sita a Palazzolo in contrada “de lo Castello” confinante con casa de la Buzuana e con case di Carlo Grazi e via pubblica, inoltre dota 110 vascelli di miele di cui 45 pieni e 65 vuoti, inoltre un letto, cioè due materazzi, cinque lenzuola nuove, mezzo padiglione con cappello, due tilelle, una tovaglia di coprire e tre di tavola, 4 cuscini e due tovaglie di piedi. Lo zio mastro Sebastiano La Liotta dota alla sposa onze 10 in pecunia e un gippone imbottito e una frazzata bianca nuova» [30].
In questi letti a padiglione sono sempre descritte le parti in stoffa, ma mai si fa accenno alla struttura lignea. In un testamento di una signora di Lentini (SR) datato 21 novembre 1564 la testatrice lascia in eredità la propria dote, dove si annota
«un pavigluni un poco minatu cum porti disinnati; uno mataracio maiuto chino di lana barbarisca; una cultra; uno tornaturi di tila imburdata cum soi frinzi di sita; uno avanti letto cum tri lenzi sfilati; uno cuscino lavorato di sita russa ; un altro cuxino lavorato di sita nigra; uno paro di cuxina sfilati; dui tuvagli di fachi una sfilata e un’altra sana; dui tuvagli di tavula ad ramo cum li frinzi e l’altra cum li listi in menzo; uno paro di linzola cum li frinzi; ottu stujabucchi; una frazata jalina; uno timpagno [31] di carpita minato cunzatu a dui bandi» [32].
Sempre a Lentini troviamo ben descritto il padiglione nella dote di Disiatella Lanza sposa del nobile Alfio de Tironio:
«Un paro di linzola novi di canni octu palmi dui raccamati a li capi et quintanella a torno et a li cu.xini et frinzi di filo a torno, on. 3,6; item uno altro paro di linzola novi raccamati a li capi di canni octo et frinzi di filo et randi in mezo, on. 2; item uno altro paro di linzola novi di canni octo palmi sei randi a li capi et in mezo et frinza di filo atorno, on. 2; item uno pavigluni novu a pezi 18 cum lo cappello intaglato a li porti et per ogni custura et similmenti lo cappello et frinzi di filo, on. 6,18; item li porti di lo supra.tto pavigluni di raso russo carmixino di palmi 12 et frinzi et foderato di tila zola et frinzi di sita russa, on. 1,21; item uno altro pavigluni alcutanto sitato cum li porti intaglato et ad torno lo cappello randa in mezzo et frinza a li porti di canni 17, on. 4,18; item una frazata russa nova cum listi, on. 2,12; item una cutra nova ad quattro timpagni et mezzo di canni ? e palmi 4 fra fachi et duczana chincu di cuttuni, on. 4; uno avantilecto novo di palmi quattro e di canni dui di tila intaglato ad novi scachi et con pisa infucti intaglata et frinza di filo a torno, 1,14; un avantilecto novo di landa di palmi 14 cum novi lenzi di raso russo carmixino et quanto pisa in ? et frinza di sita russa a torno, 1,18; uno paro di coxina di raso russo carmixino di canna uno con soi imbesti chini di lana, 1,18; uno altro paro di coxina di landa laborati di sita carmixina cum sua ? et imbesti gialni chini di lana, 3,6 [...]» [33].
L’indicazione del valore in onze di ciascun capo ci consente di verificare che il pavigluni era il più costoso. Naturalmente nella dote della sposa il pavigluni si consegnava in “tocchi” o in “ferzi”, come vediamo nel dotario di Maria Calafato [34] dove si registrano, tra gli altri beni dotali,
«uno pavigluni senza inpichigato in ferzi decidotto sottili con li porti lavorati di punto a spiga di sita nigra, vale onze 14,11; uno pavigluni novo in ferzi sedechi in parti intaglato e non amminutato alto canni doi senza cappello on. 5,18; uno pavigluni altro con una randa a li porti a li porti avrirsi quattro fila et so cappello randa simile et so frinza a Sali mento de filo in mezzo, per on. 6,19».
Componenti essenziali dunque erano le due porte laterali a tendaggio, molto lavorate con «frinzi di seta carmixina domaschina russa, cordelli di sita nigra» [35]. Spesso si specificava che doveva essere “murisco”, cioè all’orientale, con cordelle rosse e cappello e «tuttu guarnutu», cioè decorato. Le frange che decorano il cortinaggio di tela sono allacciate «a castilluzzo». Il numero di “ferzi” varia e determina la ricchezza del manufatto: quello a 18 è fra i più costosi: «un pavigluni di tila in ferzi 18 cum frinzi in menzo a salmento et a li porti randato cum randi a 18 et frinzi a catilluzzo cum suo cappello simili» [36]. A volte il pavigluni era semplicemente un torniaturi di lettu, cioè un largo rifascio attorno al letto, comprensivo di frìdani o fodere di cuscino ripieni di lana barbarisca.
Notiamo nel corso del ‘500 l’affermarsi dello sfilato siciliano o “cinquecento” nei tessuti, compreso il pavigluni, come è documentato nella dote di Dianella Amadore di Palazzolo del 1579:
«[...] una cultra di tila subtili alquanto usata laurata a foglia plena di cuttuni; un pavigluni di tila mazarina consistenti in pezzi dicidotto consunto con rande di filo in mezo e soi porti intagliati e frinzuni di filo sfilato con suo cappello; un altro pavigliuni di tila di casa con frinzi di cottuni in mezzo e suo cappello [...]» [37].
Parecchio sfilato avevano i pavigluni di donna Lucrezia Scammacca sposa di don Valerio Morra, figlio del barone Morra di Buccheri, tra cui uno stimato 74 onze. Localmente, cioè nei vari centri minori degli Iblei, appaiono specificità locali e particolari tessuti, che si perpetueranno fino all’epoca moderna. A Buccheri è la carpita a conservarsi nel tempo tanto che nei dotari delle spose buccheresi si riscontra quasi sempre:
«Buccheri 2 maggio 1540: [si restituisce la dote ad Angelica Foti] uno sacco di letto; uno travisceri chino novo [...] una carpita di lana pinta listata; una tilella di tila di manni con soi frinzi di filo in menzo e a li capi; uno davanti letto di lana pinto di diversi pinturi et lani novo; una cortina nova tessuta a lo camaro seu ad ramo cum suo sopracelo; dui chiumazzi di lana pinti di di diversi lani [...]» [38].
Oltre alla carpita c’era la carpitella, cioè piccolo tappeto da mobile: «una carpitella di tavola di lana russa; una carpitella per uso di muro di lana pinta; un’altra per uso di caxi di lana pinta; una per uso di guastelli di lana blesa» [39]. A Modica per esempio la cortina nel 1555 è tessuta «a lo ramo cum li porti sfilati e intagliati», e compare come parte di essa «lo imborlaczo», da identificarsi con il sopracielo, mentre per la cultra si confermano i soliti lavuri con qualche novità come un disegno a “cardunazzo”, cioè a carciofo: «una cultra ad unda cu li capi a pampini d’arancio e a cardunazzo [40]. Sempre a Modica nell’inventario dei beni di Giuseppe de Manzio del 3 ottobre 1560 il pavigluni è di
«tila di manni [canapa] mazarini cum frinzi in menzo de culuri blanco e a li porti frinci e cum lo cappello; un altro pavigluni di tila di manni mazarini cum frinci di filo e con suo cappello» e poi un «avanlettu di tila mazarina in sei peczi cum cordelli in menzo di sita nigra cum frinzi abaxo di sita nigra e blanca; item una matarazza seu sacco di letto pleno di pagla; uno torniaturi di letto di lana di Sichilia ialno pinto; item uno ordituri di filato mazarino di circa canni sidichi», dove colpisce la presenza molto rilevante di tessuti filati, cioè sfilati, e la specificazione che nel caso della lana essa è siciliana, per distinguerla dalla più comune detta barbarisca [41].
Anche i paviglioni, quelli almeno più ricercati, spesso sono indicati per luogo d’origine, poichè qualche volta provengono da fuori Sicilia:
«item un paviglione di Napoli di diversi culuri con suoi frinzi di seta bianca torchina e gialna in tre pezzi con il cappello e giraletto e soprabuffetta del proprio drappo con li suoi frinzi conforme è il padiglione con una cultra incottunata di una parte di taffità gialna, e dall’altra di taffità turchino».
L’alcova
L’alcova non necessitava di ulteriori tendaggi per nascondere il letto, fatta eccezione per una tenda o cortina, che la separava dal resto della camera. L’intimità in questo modo diventava più marcata e la camera da letto si sdoppiava, riservando la parte più segreta e appartata agli sposi. Se il letto in precedenza era luogo dell’intimità, ma paradossalmente aperto agli sguardi, al controllo sociale, alle “visite”, questo luogo preparava l’intimità che sarà dei secoli successivi: il letto come luogo di incontri d’amore, anche segreti, il letto luogo di piacere. Anche l’alcova aveva i suoi particolari cortinaggi «di seta verde con suoi portaloni» [42]. Con l’affermarsi dell’alcova, anche a livello di classi medie, il letto si semplifica fino a perdere le parti di arredo (in legno, in ferro, di stoffa). Ma fino all’incirca a tutto l’Ottocento il letto si presenta nelle forme sontuose che aveva a partire dal secolo XV. In Sicilia si afferma un nuovo conio per indicarlo [43]: trabacca.
La trabacca
Il letto così come lo vediamo e lo usiamo oggi è ben diverso da quello che nel corso dei secoli si andrà affermando. Testiera e avantiletto sono le sopravvivenze dell’antico letto a padiglione. Esse infatti eliminando le colonne portanti del tendaggio, hanno aperto il letto alla vista, rendendolo un mobile, essenziale nella camera degli sposi. In particolare il letto a spondi si afferma con l’uso delle alcove nelle camere da letto.
Rispetto al padiglione, la trabacca presenta quattro colonne e dei travetti (trabeas, da cui trabacca?), i quali ultimi sostengono il cortinaggio. È simile al baldacchino, ma meno sontuoso, mancando spesso il sopracielo e il tendaggio essendo ridotto al minimo.
In provincia di Ragusa, in contrada Buttino, si trova la “grotta delle trabacche”, un ipogeo caratterizzato dalla presenza di una tomba che ricorda un letto a baldacchino, chiamato localmente appunto trabacca, a testimonianza della diffusione del termine a tutti i livelli. Troviamo il termine per la prima volta nel 1529 nel ricco dotario di Margherita de Canaris, andata sposa a don Alfio Sgalambro di Lentini. Ritroviamo il termine nel 1534, citato tra i beni che don Ieronimo Lagunna, barone di Passanitello, sempre di Lentini, che riceve, per conto della sposa, dai tutori della medesima, dove si registra, oltre a due pavigliuni, di cui uno moresco, anche «una trabacca di tila in tri peczi cum lenzi et frinczi»; e ancora nell’inventario del 7 novembre 1534 si registra «item una trabbacca cum pirtusi cum cappello intramati cum lenzi et soi frinzi». Ne discende che anche la trabacca aveva, all’inizio della sua esistenza, il suo cappello, che chiudeva il cortinaggio in alto: probabilmente si tratta di pars pro toto, cioè con il nome di una parte si indicava l’intero sistema letto.
Solo a partire dai primi del ‘600 si descrive meglio la trabacca, che appare come un vero e proprio mobile, guarnito di cortinaggio. Nell’inventario dei beni [44] lasciati in eredità dallo scultore Giuseppe Gagini in data 26 ottobre 1610, tra i tanti beni mobili si registra «una trabacca di noce alla moderna», mentre in analogo inventario [45] di Nabilio Gagini del 1607 si registrava «una trabacca di nuci con suo cortinaglio di panno turchino vecchio». Ci sembra di poter registrare qui un esempio di ammodernamento di un mobile, la trabacca, che nel primo caso si è adeguato alla moda nuova, nel secondo persiste nella consueta tipologia. La differenza risiede probabilmente in una semplificazione con riduzione del cortinaggio, eliminazione del cappello e del “sopracelo”. Nell’inventario dei beni del siracusano Ieronimo Galego del 23 settembre 1603 si annota:
«un torniaturi virdi di sita et capichola; item una trabacha [trabacca] di nuci deorata con soi pomi et frixi», cioè con pomelli e fregi decorativi. Già si delinea meglio questo nuovo mobile-letto, fatto a colonne decorate in oro con pomelli in cima [46].
Si afferma il mestiere di mastro di trabacche, dal momento che nel sistema letto la parte strutturale prende il sopravvento sull’ornamento a cortinaggio: la sua progressiva eliminazione o semplificazione accentuava l’esigenza di dare eleganza alla struttura. Interessante questo documento, probabilmente il primo che documenta questo lavoro:
«9 marzo 1621, mastro Antonio Rizzo di Messina si obbliga a mastro Ieronimo Campo di Siracusa «deorarci sei trabacchi piccoli e dui grandi cioè quatro delli detti sei con oro e torchino l’altri dui piccoli di oro et nuci e li dui grandi d’oro et nuci [...]»; cui segue la vendita ai clienti: «26 giugno 1621, mastro Ieronimo Campo faber vende due trabacche di noce: lo tilaro di longhizza palmi 8 di chino e larghizza palmi 6, li culonni in dui pezzi di palmi 7 di longhizza, lavorati di torno solo, li bacchetti intagliati senza capizzali con li soi tavoli delli letti et soi viti et ferri di dette trabacche et li pedi di altizza ordinaria [...]» [47].
Un documento proveniente da Lentini dà un ulteriore contributo: qui la trabacca indica il cortinaggio che la decorava: «una trabacca di cataluffo [stoffa] con soi sopraletto e avanti letto di coluri misco virdi e giarno consistenti in pezzi [...]». A Catania abili mastri “ferrari” realizzano trabacche in ferro, che esportano fuori città: nel 1730, ad esempio nell’inventario dei beni di don Carlo Villaroel, si registra «una trabacca di ferro diamantata e dorata con due trispiti e barra di ferro con spallera di ferro a mabusina [?] con quattro pome di rame all’estremità di sopra di essa trabacca» [48].
La camera da letto si riempie, tra Seicento e Settecento, di mobili, e non appare sguarnita come in precedenza: vi sono
«boffetti di nuci, quattro scrigni foderati di coiro, dui caxuni di nuci, una littera con soi trispita item sidici ferzi di pavigluni quali è incompluto senza cusuto dentro con suo coxino vechio con soi cordelli russi et porti lavorati di sita russa [...] un altro pavigluni di tila sottili con soi porti trisiato di riti con randi con suo cappello guarnuto» [49].
Ormai è chiaro che la trabacca conta per la sua parte lignea o di ferro, che determina la ricchezza del letto della sposa. Abili mastri lignarii e sapienti firrari si occupano della loro costruzione e ne abbelliscono la semplice architettura con sculture e rabeschi in legno scolpito o intarsiato: nel 1627 mastro Francesco Giordano si obbliga a Scipione de Blanca
«intagliarci tantum dui trabacchi una ordinaria e l’altra conformi a lo disigno despezzato la colonna et li figuri meczo li colonnetti, ita che li colonni habbiano da veniri con tutto lo terzo intagliato con tri personaggi et lo capitello corintio della trabacca grandi et li soi Bacchetti con li testi delli serafini et li soi balli abbasso, li puma a corona di supra et che sia bene intagliata [50].
Nello stesso anno il mastro falegname Giulio Palazzo si obbliga a Lucio Pisano fargli
«una trabacca di nuchi nova con li soi tavoli senza ferramenti et che sia a modo di pavigliuni et cortinaggio et dello proprio modo et forma di la trabacca quali feci a don Diego Salonia [...], ma senza doratura et con li soi listicelli et lo suo capizzali con la legnami di esso mastro per il prezzo di on. 3,20» [51].
La città di Siracusa primeggia in questi particolari lavori, almeno per il ‘600:
«Siracusa 25 Novembre 1629, magister Mario de Alontio faber lignarius se obligat [...] alla vedova del magnifico don Vincenzo de Alagona conficere una trabacca di lignami di nuci [...] simile ad un’altra, eccetto li puma et capicera [...] li chiovi di li quali trabacchi li habbia a dare essa et ultra da detta lignami di nuci fari deci segi con loro spalleri puliti e conformi alla mustra [...]»; e ancora il 13 maggio 1630 il medesimo mastro Francesco Giordano si obbliga ad intagliare una trabacca di nuci conforme allo intaglio che feci alla trabacca di [...], per il prezzo di onza 1,12» [52].
Lo spirito di emulazione è in atto e il prodotto si propaga fra le classi alte e medio alte della società siracusana. Ma il documento più completo di questa particolare manifattura è del 28 settembre 1591 in cui mastro Nicolao de Costanzo e mastro Stefano Gomes si obbligano al sacerdote padre Stefano de Palazzo, priore del convento di Bonfratelli di Siracusa
«facere trabaccas 34 lignaminis nucis [...] che non sia scaldata et condicionata con li colonni rutti in dui pezzi lavorati con soi pedi conformi alla ambustra in potere di detto priore con tutti loro guarnimenti necessari a detti letti et li tavoli et pumi a poi di li virghi di ferro, et li viti di ferro per ogni letto, quattro, ci li habiano di fari detti mastri a loro spisi et per ogni letti dechi una chiavi et che in ogni peczo di ditti trabacchi ci habia da participari lu cori di la nuci et di arbani come curri la lignami ben fatti … et dritti et che ogni trabacca sia larga palmi cincho, longa palmi setti et alta palmi otto et turcendo alcun peczo di ditta lignami lavorata ci l’abbiano a fari di novo senza pagha, li quali trabacchi ci habbiano da fari ogni semana darci tri trabacchi expediti portati e consegnati nel convento dell’hospitali sub titulo sante Marie pietatis contando detti giorni otto dal giorno che haviranno havuto li infrascritti on. vinti et altri giorni quattro per andari a fari veniri ditta lignami che tutti saranno giorni dudichi. Pro pretio uncias unas et tt. quattuordecim pro qualiter trabacca [...]; et pro elemosina si obligano farici una seggia di nuci cum la cuba per portari li malati [...]» [53].
Il mobile si avvia a diventare un letto normale, come lo concepiamo oggi: le colonne sono alte un metro e sessanta, vicino a diventare la normale altezza della sponde del letto. In questo caso è chiaro che si tratta di letti fatti per ospitare o i confratelli dell’ordine o forse gli ammalati. Tuttavia la tendenza è quella di una semplificazione, pur persistendo la monumentalità che si osserva nelle trabacche rappresentative di un alto tenore di vita materiale e di una forte ostentazione di lusso. La trabacca ad un posto ad Augusta si chiamava trabacchina: matrimonio di Francesca Corbera con il miles catalano Jacobo Villa «una trabacchina di ligno dorato, un matarassino una frazzata dui turniaturi frizziati arramati» [54]. Proprio ad Augusta riscontriamo una consistente e specialistica produzione di trabacche: nel 1720 i mastri Matteo Serra “lignarius” e Giovanni Marino, “lignarius” e anche doratore, si associano nella produzione di trabacche e trabacchini in legno dorato.
Osserviamo nel corso dei decenni che le trabacche indicano tout court il letto, mentre il cortinaggio ed il paviglione in particolare designano ormai solo le stoffe di paramento. Lo vediamo nel seguente inventario di redatto a Palazzolo nel 1638 per Maria Giompaolo:
«Una trabacca grandi di nuci con la sua spallera et guarnimenti, dui matarazzi sitalori una piana di lana una vacanti, dui cuxina pieni di lana di tila di sangallo listiati, una frazzata di panno bianca; dui pavigliuni uno di mina di tila mazzarina et uno come si sta lavorando di stissa tila novo [...]» [55].
Il legname poteva essere ordinario o di prima scelta, ad esempio di “chircopo”, cioè legno di albicocco. È chiaro che le classi povere, sul cui tenore di vita nei documenti d’archivio v’è poca testimonianza, limitavano la dote al solo letto, senza tendaggi: nella dote di matrimonio di Francesca Ciccio col mastro Carmelo Costantino di Siracusa del 26 settembre 1745 notiamo: «in primis un letto con quattro tavole, due trispita di legname e due matarazzi di stuppa; quattro lenzuoli di canape; due cuscini di tela mazzarina arrannati; una frazzata di Melilli; una tovaglia di facci [...]». Per il Settecento e l’Ottocento questi documenti relativi a matrimoni popolari si fanno più numerosi e ci consentono di guardare, a vasto raggio, gli usi, i costumi e le disponibilità economiche delle famiglie, il cui tenore di vita si rispecchiano nei dotari.
Proprio nel Settecento fa la sua comparsa la trabacca di ferro che prende il posto di quella di legno, dando origine così al letto che permarrà fino ai nostri giorni, che preferisce l’uso di materiali più resistenti. Sono letti impreziositi dal ferro battuto, da pitture a caldo e dorature sulle facciate delle due sponde. A Siracusa nel 1720 abbiamo l’esempio più antico di questo letto. Nell’inventario dei beni di Silvestro Serra si annota infatti «una trabacca di ferro fatta a punta di diamante con due spallere [sponde] pure di ferro in parte dorate e con cinque tavole; due matarazze di lana [...] una frazzata di peso cioè a libra […] »[56].
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Note
[1] G. e H. Bresc, La casa del ‘Borgese’: materiali per una etnografia storica della Sicilia, in «Quaderni storici», 31 (1976): 110-129.
[2] « […] quamdam carpitam ad duo timpagnia lane listiata diversis coloribus usitatam; par unum plomacellorum […] de tela alba sutili cum frinzis de filo circumcirca cum eorum imbestis rubeis […]”, Archivio di Stato di Siracusa [da qui innanzi ASS] not. Scala vol. 4638, dote di matrimonio contratto nel 1521. Si ringraziano il direttore e il personale dell’Archivio di Stato di Siracusa e di Catania: C. Corridore e A. M. Iozzia, per la disponibilità e per tenere in ordine e fruibili i “loro” archivi.
[3] A Buccheri (Sr) troviamo la cultra tissuta a brischa di meli, disegno diffuso anche in area iblea, terra di favi di miele.
[4] Forse il proverbio A spusa maiulina nun si godi la curtina è riferito alla cortina del letto.
[5] A. Italia, La Sicilia feudale. Genova [et cet.], Dante Alighieri, 1940: 21.
[6] Famose erano quelle siracusane: in un dotario buccherese del 1601 troviamo: «dui caxi siracusani, una carpita, un bancali con li roti di pizzo [...] una carpita di lana a lo ducato, uno sponziaturi di letto intagliato [...]».
[7] Nel documento “ardibancum” cfr. M. A. Russo, Gli inventari post mortem: specchio delle ricchezze e delle miserie familiari, in: «Mediterranea. Ricerche storiche», n° 28 (agosto 2013): 253.
[8] ASS, not. Vallone vol. 10232, dotario di Giovanna Bottaro.
[9] ASS, not. Milana, vol. 4649.
[10] Non concordo con Bresc (cit.: 458) che afferma che ad undas equivale all’ottocentesco «ad unghia».
[11] I due documenti in: ASS sez. di Noto, not. Musco vol. 6333 e idem vol. 6336.
[12] ASS, sez. di Noto, vol. 6338.
[13] ASS not. Giuliano Giovanni, vol. 6343, anno 1490.
[14] Dote di Antonella Rocco tra l’altro: «una cultra grandi di tila di manni lavorata con lavuri chiamato ad rosa; un’altra lavorata ad unda, una tilella a lo camoca [?] … dechi tovagli a ramo [...], ASS not. Romanello, vol. 2953, datato 2 nov. 1542.
[15] ASS not. Vallone vol. 10227.
[16] Esso poteva essere di stoffe estere come il cortinaggio che troviamo nella roba di Mario de Anastasio “di tila tunisina con cordelli di sita carmixina russa la quali tila fu quella dotata …”, ASS not. Molina, vol. 10621.
[17] Che può essere « lana barbarisca» o lana siciliana: vedi not. Partexano, vol. 10487, c. 32, 6 giugno 1566.
[18] ASS not. Vallone vol. 10227.
[19] ASS not. Vallone vol. 10240, è datato 4 ottobre 1507.
[20] ASS not. Satalia Pietro vol. 10297: matrimonio del 1550 tra Antonino Zavatteri con Bianca Montalto.
[21] Il cognome Coltraro designa un mestiere, nelle varianti: Cultraro e Cutraro. Erano comuni le società di mastri cutrari, come quella società costituita in data13 maggio 1509 tra mastro Francesco Romano alias Polverinu di Roma e abitante in Siracusa, di mestiere cultrarius, con Nicola de Oddo di Noto e abitante di Siracusa, ASS not. Vallone vol. 10241.
[22] ASS not. Vallone vol. 10227.
[23] Sulla cutra ammurgata di livello popolare cfr. A. Uccello, La tessitura popolare in Sicilia. Siracusa, Zangarastampa, 1978.
[24] ASS not. Vallone vol. 10227, dotario di Ursula de la Cruci di Palazzolo.
[25] Dotario di Margherita de Isola, ASS not. Vallone vol. 10227. A proposito di particolari disegni nei tessuti a Melilli si annota «una tovaglia intagliata cum li gallini di India di intaglio», dotario del 1578 in Ass, not.Galletti vol. 14, a testimonianza della rapida diffusione del tacchino proveniente dalle “Indie”, cioè dal nuovo Mondo.
[26] Ripieni di lana a volte barbarisca, oppure di linazza, sorta di stoppa ricavata dalla prima pettinatura del lino.
[27] 8 Febbraio 1482, eodem not. Piduni vol. 10244
[28] ASS not. Vallone vol. 10235.
[29] eodem, not. Madreus vol 10345.
[30] eodem, not. Madreus vol. 10615
[31] Termine ancora oscuro, poiché il timpagno designa una delle facce della botte.
[32] eodem, not. Milana vol. 4649. La testatrice lascia anche una casa in contrada S. Onofrio, «seu Judeca».
[33] In data 20 Novembre 1570, eodem, not. Armenio, vol. 4656.
[34] Capitoli matrimoniali rogati il 20 Maggio 1561, presso il not. Scannavino Giuseppe (ASS not. Scannavino vol. 10358).
[35] ASS not. Aragonese vol. 10514.
[36] ASS not. Urso Antonino vol. 10384. Atto matrimoniale datato 1 agosto 1564.
[37] ASS not. Cannarella vol. 8948. Da notare la specificazione di “tila di casa”, cioè stoffe tessute al telaio di casa.
[38] ASS not. Romanello vol. 2950.
[39] Eodem, vol 2953.
[40] Archivio di Stato di Ragusa [ASRG], sez. di Modica, not. Tirnullo, vol. 175/1.
[41] ASRG sez. di Modica, vol. 175/1. Riscontriamo l’uso del termine littera per indicare il nudo letto di «tabuli e trispiti». Nello stesso atto l’avanti letto è chiamato «spinzeri di tila di manni dilicati cum soi frinzi di filo a li capi», e compare il travirseri o guanciale unico di «cottuni majutu blanco», e un altro «avanletto seu spinzeri di tila di manni dilicatu cum frinzi ad organo di filo», tipo di “lavoro” che non abbiamo mai riscontrato.
[42] ASS not. Mangalaviti vol. 11770.
[43] Ma il termine è diffuso un po’ dovunque: a Venezia come a Napoli. Nel Vocabolario della Crusca si legge: «Spezie di padiglione propriamente da guerra, tenda. Lat. tentorium . In Boccaccio 38,7».
[44] Archivio di Stato di Palermo [ASPA], not. Isgrò Lorenzo, vol. 8409.
[45] ASPA, not. Isgrò Lorenzo, vol. 8406.
[46] ASS, not. Masò, vol. 10660.
[47] ASS, not. Gaetani vol. 10761.
[48] Archivio di Stato di Catania, not. Puglisi Carmelo, vol. 3666.
[49] ASS, not. Masò, vol. 10660.
[50] ASS, not. Di Giovanni Mario, vol. 10929.
[51] ASS, not. Di Giovanni Mario, vol. 10929, datato 21 agosto 1627.
[52] ASS, not. Guastella vol. 10811.
[53] ASS not. Aragonese vol. 10529.
[54] ASS not. De Natali vol. 696. Atto del 1699. Per Augusta cfr. il doc. 5.
[55] ASS not. Lanza vol. 9067. La spalliera e la sponda a Buccheri prendevano il nome di sponziaturi.
[56] ASS not. Romano Mauro vol. 11711. La trabacca in ferro è ormai un letto comune a tutte le classi sociali medio-alte. Tra i tanti esempi valga questo ricvatao dall’inventario dei beni del defunto don Giuseppe Fianchino: «16 marzo 1735, in primis un letto consistente in una trabacca di ferro, una matarazza, ed un paio di cuscina di lana, una indiana seu incottonata, una frazzata a libra e tre lenzuoli di canapa [...]», ASS not. Innorta vol. 12203.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee.
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