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“Il limite tra normalità e follia”. Il pericolo è dimenticarsi che esiste

15613di Fabio Sebastiani

Questo lavoro teatrale è composto da alcune lettere tratte da “Delitti esemplari” di Max Aub, lette in scena da un personaggio (Filippo Gra) che, sempre in scena, in altri e ben distinti interventi cerca un dialogo con il pubblico a partire dal contenuto delle lettere stesse proponendo una riflessione collettiva sull’attualità. Ne esce un quadro drammatico in cui si tocca con mano il passaggio d’epoca che stiamo attraversando, c’è da dire, con grande inconsapevolezza. «È un momento importante per le parole – dice alla fine Filippo Gra –  Prima che ci incarti il caos generale e il loro valore si perda completamente occorre preservarle e curarle. Saranno la nostra scialuppa di salvataggio». 

Prima lettera. “Il copione”

Il Segretario Generale dell’Associazione Autori Cinematografici mi restituì cortesemente il    manoscritto:

- Spiacente, signore, ma la Commissione di lettura ha deciso che il suo soggetto non può essere accettato perché la storia è identica a un’altra depositata un mese fa dal signor Julio Ortega.

- Non è possibile, questa storia è venuta in mente a me! È mia!

- A parer loro, di diverso c’è solo il titolo e qualche piccolo dettaglio.

Era impossibile. Era una gran bella storia, decisamente originale. Sicuramente era piaciuta a uno dei membri di quella misteriosa commissione, che aveva deciso di appropriarsene. Cominciai a spazientirmi:

- Potrei vedere il soggetto del signor Ortega?

Me lo tese, e gli detti una scorsa. Effettivamente le due storie erano molto simili. Ma era impossibile che fosse venuta in mente a lui! Anche se l’aveva registrata prima di me! E che l’avesse scritta prima di me! L’idea era mia e soltanto mia! Era un furto!

È quel che dissi, che gridai. Non vollero capirlo. Non riuscirono a comprendere che il tempo non conta assolutamente niente per le idee. Pochissima gente sa cos’è la poesia: la confondono con la storia, con la storia fasulla che inventano per soddisfare i propri meschini bisogni. Vidi come bisbigliavano, come ridevano tra loro. Balordi! Mi fecero persino arrossire! Divento rosso soltanto quando mi tacciano di falso. Mi si torsero le budella.

Fu allora che entrò il signor Ortega. Era un uomo incredibilmente volgare, al quale certo non poteva essere venuta in mente un’idea simile: la fronte bassa, una grossa pancia, un’aria da macellaio. Adoperai un tagliacarte, ma anche un fermacarte sarebbe andato bene. Sanguinò come un maiale. 

205cd06c-3958-478b-b36b-494beb70a590Filippo Gra. Primo intervento

Qual è il limite tra normalità e follia? Ve lo siete mai chiesto? Forse no, perché dovreste fare i conti con quella piccola dose di follia che tutti ci portiamo dietro.

Forse sì, perché avvertiamo con sempre maggiore frequenza che oggi il buon senso è diventato la bibbia, sì, ma degli extraterrestri: il libro sacro di una civiltà sprofondata nel bel mezzo dell’oceano tanto, tanto tempo fa.

È l’alba di cosa l’inizio della vostra giornata? Riuscite a dirvelo ogni tanto? Percepite ancora la differenza tra un buongiorno sbocciato all’improvviso da uno sguardo che incrociate per caso mentre state raggiungendo frettolosamente una delle vostre mete quotidiane, dalla parola che ritualmente vi augura una buona giornata? E che vi rimbalza nella testa fino a imitare il suono dell’eco in una stanza vuota.

Davvero riuscite ancora a cogliere le intenzioni di chi vi sta davanti?

Che cosa è normalità e cosa è follia? La brutta notizia è che per cogliere, appunto, le intenzioni, per scoprire con chi realmente abbiamo a che fare c’è sempre meno tempo. È sempre più complicato tirar via la maschera al mondo. La buona notizia è che ce lo stiamo domandando… Ma. Ma? Già. È “Ma” la parola chiave, il perno di tutto il ragionamento che prima o poi accende un dubbio.

Prima o poi scatta un “ma”.

No, non un Mah con l’acca. Non dovete stringervi nelle spalle e alzare gli occhi al cielo. Non è certo utile. Anzi, è pericoloso. È un ma, con la “a” leggermente prolungata. E più lasciate che questo Innocuo Suono Vocalico riecheggi dentro di voi e più si apre davanti a voi un panorama umano che non avevate mai osservato così bene. È come un girone dantesco, con i suoi dannati, i mostri, i drammi ma anche visioni celestiali e nuove scoperte. 

Fateci caso. E tra i primi luoghi che incontrate c’è l’imprevisto, il delitto, il crimine, ma… senza un criminale. Senza un criminale professionista. No, avete davanti un assassino improvvisato lì al momento, un perfetto criminale dilettante. Che brutto che deve essere morire così, per mano di uno che non sa nemmeno cosa sta facendo; non ha un’etica, delle regole, delle motivazioni, per quanto discutibili. No, combatte, in fondo, contro un’ombra. L’ombra che si muove tra normalità e follia. E probabilmente anche noi siamo parte del gioco, lasciando che il pendolo continui a oscillare. 

Seconda lettera. “La Maestra”

Sono maestra. Da dieci anni insegno nella scuola elementare di Primavalle. Sui banchi della mia classe sono passati tanti bambini. Credo di essere un buona maestra. Lo credetti finché non spuntò fuori quel Marco Paolini. Non mi prestava alcuna attenzione e non imparava assolutamente niente: perché non voleva. Nessuna punizione, né morale né corporale, gli faceva effetto. Mi guardava insolente. Lo supplicai, lo picchiai: non ci fu verso. Gli altri bambini cominciavano a prendermi in giro. Persi ogni autorità, il sonno, l’appetito, finché un giorno non ne potei più, e, perché servisse d’esempio, lo impiccai all’albero del cortile. 

15d90f55-9772-4679-aae6-d1fb7e3c296aTerza lettera. “Il cucchiaino”

Cominciò a mescolare il caffellatte col cucchiaino. Il liquido arrivava fino all’orlo, sollevato dall’azione violenta dell’utensile di alluminio. Il bicchiere era ordinario, il bar scadente, il cucchiaino opaco, consumato dall’uso. Si udiva il rumore del metallo contro il vetro. Tin, tin, tin. E il caffellatte girava e rigirava, con un gorgo nel mezzo. Io ero seduto di fronte. Il bar era affollato. L’uomo continuava a girare e rigirare, immobile, sorridente, e mi guardava. Qualcosa mi si rivoltava dentro. Lo guardai in modo tale che si sentì in obbligo di giustificarsi:

- Lo zucchero non si è ancora sciolto.

Per dimostrarmelo dette dei colpetti sul fondo del bicchiere. Subito riprese con rinnovata energia a mescolare metodicamente il beveraggio. Gira e rigira, senza fermarsi mai, e il rumore del cucchiaino sul bordo del vetro. Tan, tan, tan. Di seguito, di seguito, senza posa, eternamente. Gira, e gira, e gira, e rigira. Mi guardava sorridendo. A quel punto estrassi la pistola e sparai. 

f2a76840-39bb-4bc9-b0b8-3bf3d41c2f7bFilippo Gra. Secondo intervento

Quell’attore era così cane, ma così cane che tutti pensavano – ne sono sicuro – «c’è da ammazzarlo». Ma nel preciso istante in cui lo pensai io, quella sera, durante la rappresentazione teatrale volò qualcosa dall’alto e ci rimase secco. Da allora vivo nel rimorso, la mia vita è profondamente cambiata, penso sempre di essere stato io il responsabile della sua morte.

Certo, direte voi, un pensiero, anche ricorrente, una semplice intenzione, non fanno un delitto. Ci vuole ben altro. La volontà di uccidere, per esempio. E anche una incosciente predisposizione, dico io, della vittima ad avvicinarsi all’orlo del baratro. Come si dice: trovarsi nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Comunque, quel cane di attore riusciva ad accaparrarsi sempre le parti migliori. Un disastro sulla scena, nel rappresentare la vita reale, ma nella vita reale un campione, quasi un professionista. Si è tirato addosso più di qualche invidia, certo. E tanto rancore. Odio? Sì forse. Ma l’odio è un sentimento nobile, ormai raro. Quasi mai porta all’omicidio, in fondo, perché l’odiatore ha un bisogno intimo e inconfessabile di veder calpestata la sua vita dalle orme dell’odiato, e attraversata dalle sue ombre.

Magari è stato davvero un incidente. Qualcuno lassù… dico lassù nella parte alta del sipario.

Lo volete sapere? La dico tutta? Quando avvenne il fatto stavo percorrendo al buio la scaletta in ferro, sempre ingombra di cose, che attraversa la parte alta del sipario. Avvertii un botto secco e un grido.

La volete sapere un’altra? Ve la dico davvero tutta, ma tutta. A volte la realtà… L’attore cane stava interpretando un personaggio odioso, il classico cattivo di ogni trama teatrale. Era, vicino alle tende di una quinta, al culmine del suo monologo. E subito dopo l’urlo, e lui che stramazza sul palcoscenico colpito alla testa da una trave nascosta all’occhio del pubblico, dalla platea parte un applauso scrosciante, quasi un’ovazione. Cosa entusiasmò gli spettatori? La morte del cattivo, è chiaro. Il pubblico è così, a volte si dimentica di fare il pubblico, vorrebbe abbandonare la platea, salire in palcoscenico, abbracciare gli attori. Vivere anche solo per qualche minuto in una dimensione eterea e fantastica. E dire che la fine del cattivo non era nemmeno scritta nel copione.

Assurdo no? Follia e normalità, verità, finzione, scambio dei ruoli. Dove sono i confini? È sempre la realtà ad avere l’ultima parola. E noi dall’alto della nostra presunzione non ci accorgiamo mai di niente. E quando accade qualcosa facciamo la parte di quelli sorpresi. E non troviamo le parole. E come è potuto accadere… Oppure assorbiamo tutto quello che ci accade intorno con una forte dose di indifferenza, un po’ per autodifesa, un po’ per incoscienza, per ignoranza anche, abbandonando, però, il dovere di conoscere davvero che cosa ci tocca.

Ripenso spesso all’attore cane, che nell’agonia magari sì è convinto per un attimo di aver fatto abbastanza per meritarsi l’applauso, riscattandosi così dalla mediocrità di una vita in scena.
L’unica cosa certa, l’unica cosa concreta, è il mio rimorso, che a volte non mi fa dormire. 

downloadQuarta lettera. “Faceva un freddo cane”

Faceva un freddo cane. Mi aveva dato appuntamento alle sette e un quarto all’angolo tra via Vicenza e piazza Milano. Non sono uno di quegli uomini assurdi che adorano l’orologio e lo venerano come la Santissima Trinità.

Capisco che il tempo è elastico e che quando ti dicono le sette e un quarto è lo stesso che se ti dicessero le sette e mezza. Ho una concezione ampia di tutte le cose. Sono sempre stato un uomo molto tollerante, un liberale di vecchio stampo. Ma ci sono delle cose che nemmeno un liberale come me può accettare. Che io sia puntuale agli appuntamenti non obbliga gli altri se non fino a un certo punto: ma voi converrete con me che questo punto esiste. Ho già detto che faceva un freddo spaventoso. E quel disgraziato incrocio è aperto a tutti i venti. Le sette e mezza, le otto meno venti, le otto meno dieci. Le otto. È logico che vi domandiate perché non me ne sono andato via. La cosa è molto semplice: sono un uomo che mantiene la parola data, un po’ tagliato all’antica, se volete, ma quando dico una cosa, è quella. Héctor mi aveva dato appuntamento alle sette e un quarto, e non mi passava nemmeno per la testa di andarmene. Le otto e un quarto, le otto e mezza, e Héctor non veniva.

Io ero intirizzito: mi dolevano i piedi, mi dolevano le mani, mi doleva il petto, mi dolevano persino i capelli. Vero è che se avessi indossato il cappotto marrone, è probabile che non sarebbe successo nulla. Ma queste sono le cose del destino e vi assicuro che alle tre del pomeriggio, quando ero uscito di casa, nessuno avrebbe previsto che si sarebbe alzato quel vento. Le nove meno venticinque, le nove meno venti, le nove meno un quarto. Ero distrutto, livido. Arrivò alle nove meno dieci: calmo, sorridente e soddisfatto. Col suo pesante soprabito grigio e i guanti felpati:

- Ciao, carissimo.

Questo e basta. Non potei farci nulla: lo scaraventai sotto il tram che passava.
“Carissimo, addio”. 

4ee7ce02-9a8d-4f77-9a79-df16734831b9Quinta lettera. “Il Cognac”

Se non dormo otto ore sono un uomo finito, e dovevo alzarmi alle sette… Erano le due e non se ne andavano, sprofondati nelle poltrone, felici e beati. E Iddio sa che non avevo potuto fare a meno di invitarli a cena. E parlavano, e straparlavano, a ruota libera, a cascata; scambiandosi battute, parlando a vanvera, confondendo i discorsi, blaterando su cose di nessun interesse: e gradisca un altro bicchiere, e un’altra tazzina di caffè. D’un tratto a lei saltò in mente che, un po’ più tardi, avremmo potuto farci una zuppa all’aglio (la mia cuoca è famosa). Io non ce la facevo più. Li avevo invitati a cena perché non potevo farne a meno, perché sono una persona beneducata.

Erano arrivati, più o meno puntuali, alle nove e mezzo; ed erano le due di notte, e non davano il minimo segno di volersene andare. Io non riuscivo a staccare la mente dall’orologio, dato che non potevo guardarlo: la buona educazione innanzitutto. Dovevo alzarmi alle sette, e se non dormo otto ore sono uno straccio per tutta la giornata; inoltre di quello che dicevano non mi importava niente, un bel niente. Certo avrei potuto comportarmi da villano e dirgli in qualche modo di andarsene. Ma non è nel mio stile. Mia madre, rimasta vedova da giovane, mi ha inculcato i migliori principi. Avevo solo una gran voglia di dormire. Il resto mi importava poco.

Non che avessi molto sonno, ma pensavo a quello che avrei avuto il giorno dopo… La mia educazione mi impediva di fingere qualche sbadiglio, che è il modo più corrente tra persone volgari.

E lei di qui, e lei di qua… e questo qui e quello là. Il gin rommy, gli scacchi, il poker…

Ginger Rogers, Lana Turner, Dolores del Rio (odio il cinema); sabato a Cuernavaca (odio Cuernavaca). Oh, il casinò di Acapulco! (in quel momento odiavo anche Acapulco). E Tizio che aveva perso tanto e tanto, a lei che gliene pare? A lei, a lei, a lei… E il Presidente, e il Ministro, e l’Opera (odio l’Opera). E il cashmere inglese, e don Pedro, e gli acquisti, e i cavoli loro.

E quel veleno, dal colore così simile al cognac…

f84030b3-33b3-4557-8119-32cb0eae9eb6Filippo Gra. Terzo intervento

Avete sentito con le vostre orecchie. E ascoltato con la vostra testa. E con tutto il corpo, ovviamente, almeno nei momenti più duri, quelli più difficili da digerire… cuore, fegato, intestino, reni e pancreas hanno partecipato tutti a questo dramma siate certi. E con Apprensione, anche: a questa carneficina. E non crediate che il loro non poter reagire attraverso la parola li abbia resi muti.

Si saranno chiesti: Ma dove siamo capitati? Che ne sarà di noi? E voi non ve lo siete chiesto in che mondo siete capitati? Onestamente, che risposta vi siete dati? No, non voglio saperlo. L’importante è che sia stata una risposta autentica. E non buttata lì tanto per coprire un buco, o per assolvere a un ruolo. Lo è stata? Lo spero per voi. Dobbiamo avere a cuore l’integrità e la tranquillità dei nostri organi. E anche quella di noi stessi naturalmente.

Una cosa, sì, una cosa la voglio sapere. Voi potete garantire al 100% di escludere reazioni come quelle che avete ascoltato qualora vi trovaste a vivere situazioni simili. Davvero potete considerarvi estranei ai “futili motivi”? Siete sicuri che dentro di voi non covi un perfetto criminale dilettante? O, al contrario, il profilo di una vittima che si spinge inconsapevolmente ma inesorabilmente verso l’orlo del baratro, incontro a chi ne segnerà la fine.

Vi sembra un ossimoro, “perfetto dilettante”? Certo, è una bella e buona contraddizione. Ma qui sta il punto! Siamo diventati ormai tutti dei dilettanti nelle cose della vita, No? Se ne salvano pochissimi, sicuramente quelli che iniziano la loro giornata con la parola “Ma”.

Non sappiamo più fare, passatemi il termine, la professione di umanità. Stiamo svuotando lentamente da dentro il patrimonio che la storia ci ha consegnato. Immaginate un piccolo foro in una camera d’aria. Come fai ad accorgerti che la tua ruota tra poco ti abbandonerà? Questo ci sta succedendo.

Questo per dirvi che se tutti noi provassimo ad essere dei veri professionisti nelle cose umane il mondo forse avrebbe qualche possibilità in più di farcela.

Potremmo aspirare se non al bene al meglio. E se lo faremo tutti, il meglio, forse il bene saprà trovare una strada, per tutti.

Non sarà un bene che ci viene dal cuore, certo. Ma a quello, credo che dobbiamo dire addio per un bel po’.

Potremo dire però che ciò che la realtà ci indica, ciò che la vita ci presenta nel bene e nel male può essere trasformato, pensate, in parola. E come parola può essere coltivata e conservata, come si fa con i fiori e con i piccoli tesori. Ed usata, anche, per tutte le evenienze. E ogni volta che furtivamente tornate a guardarle, ad ammirarle le vostre parole, potete dire, “quelle sono le mie parole e rappresentano la mia vita, le ho vissute, me le sono sudate”. E allora le potrete condividere con chi volete ma questo però non diminuisce certo il loro valore, anzi, lo accresce.

 “Sì sono le mie parole e non quelle prese in prestito dagli altri, che ripeto meccanicamente per darmi un tono, per sentirmi a posto e integrato nel mondo, più sicuro, meno fragile, cercando così sempre di cavarmela: un corpo qualsiasi nella trama di un’esistenza decisa sempre altrove.

E ogni volta che, attraverso le mie parole, afferro la realtà, e sento di vivere ciò che mi tocca con consapevolezza, riesco a scrollarmi di dosso il rimorso, e le trappole, e i ricatti, e le invidie e i rancori. Posso, anche io, in quel momento, pensare di diventare un professionista delle cose umane”.

È un momento importante per le parole. Prima che ci incarti il caos generale e il loro valore si perda completamente occorre preservarle e curarle. Saranno la nostra scialuppa di salvataggio. 

Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025

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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.

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