La feroce operazione “al-Aqsa Flood” del 7 Ottobre 2023 – come risposta alla profanazione dei luoghi sacri di Gerusalemme e alle violenze dei coloni ebrei in Cisgiordania – ha colpito al cuore Israele, lasciando dietro di sé vittime e ostaggi nelle mani di Hamas. Con quale obiettivo? Non certo con quello, impossibile, di sconfiggere l’esercito più forte del Vicino Oriente e di creare uno Stato islamico dal Giordano al Mediterraneo. Più realisticamente, con quello di porre nuovamente la questione palestinese al centro dell’attenzione mondiale, dopo gli Accordi di Abramo del 2020 tra gli Usa di Trump e gli Stati arabi del Golfo che l’avevano ignorata. Obiettivo raggiunto, con costi umani però, mai così alti, per i palestinesi.
Quell’eccidio ha segnato Israele non solo fisicamente ma anche moralmente. Ha rafforzato infatti il consenso verso il governo di Netanyahu e dei suoi alleati ultraortodossi, il più reazionario della storia dello Stato ebraico, determinato a punire con “Spade di ferro”, oltre le milizie islamiche, tutti gli abitanti della Striscia ritenuti “corresponsabili”. Ad oggi, sono quasi cinquantamila i morti, moltissimi i bambini. Reazione di una biblica ferocia, che ha reso Gaza una landa desolata (impressionanti le immagini di scuole, abitazioni, moschee e ospedali sventrati dalle bombe: scheletri muti della tumultuosa vita di un tempo) e disumanizzato un intero popolo, costretto a vivere senza cibo, acqua e al freddo. Con l’effetto non solo di aver fatto dimenticare in breve tempo il 7 Ottobre ma anche rinascere e forse estendere nel mondo un antisemitismo che si pensava scomparso, a ottant’anni dalla Shoah.
Ancora una volta, nel dibattito pubblico, nei mezzi d’informazione e negli istant-book, il conflitto israelo-palestinese è stato superficialmente schiacciato sull’attualità, sulla ripetizione dei soliti clichè: sionismo da un lato e terrorismo dall’altro. A fronte della sua lunga storia (qualcuno lo ha definito suggestivamente un conflitto “dai capelli bianchi”): esso ha infatti attraversato il XX secolo – durante il quale sono mutati contesti geopolitici, attori e aspettative – per giungere al primo quarto del XXI, come un’inestricabile matassa di contraddizioni, apparentemente irrisolvibili.
In questo panorama editoriale, costituisce un’eccezione il prezioso volume di Mario Capanna e di Luciano Neri Palestina Israele (Mimesis Edizioni 2024) che ripercorre gli ultimi cinquant’anni della tragica odissea palestinese. Essi ritengono che solo evitando banali generalizzazioni e smascherando colpevoli menzogne (non è casuale il sottotitolo: Il lungo inganno. La soluzione imprescindibile) si possano cogliere le radici di quanto sta accadendo in quella regione mediorientale; che senza comprendere come si sia arrivati all’orrore di oggi, non esistano possibilità di soluzione.
Il libro è il resoconto delle esperienze da loro vissute sia in Israele che in Palestina – a partire dagli anni settanta, come dirigenti di Democrazia Proletaria – con lo scopo di dare un “modesto ma convinto” contributo alla creazione di condizioni per una possibile pace. Insieme ad esponenti prestigiosi dei due popoli (tra gli altri, da una parte, Primo Levi e Uri Avnery e dall’altra parte, Issa Sartawi, Alì Rashid, lo stesso Yasser Arafat), per più di mezzo secolo essi si sono impegnati nello sforzo di abbattere, anche attraverso difficili incontri, le barriere che dividevano allora (e purtroppo dividono ancora) palestinesi e israeliani. Di costruire, cioè, occasioni di dialogo e di conoscenza reciproca come base indispensabile per una futura convivenza. Gli autori riconoscono che quella impresa si è rivelata un’illusione, quella prospettiva è per il momento tramontata, per quanto rimanga ineludibile. Sono convinti, tuttavia, che la colpa non sia solo dei governi sionisti, conservatori e laburisti, che si sono succeduti dopo il 1948 ma anche degli Stati Uniti (con i loro interessi geopolitici in quell’area) e dei loro alleati occidentali, senza il cui aiuto economico e militare Israele non avrebbe retto per così molto tempo nella sua ostinata e oltranzista negazione del diritto ad una reale autodeterminazione del popolo palestinese.
È questo il filo rosso che lega gli scritti, “antichi” e nuovi, di Capanna e Neri. Quel che più colpisce è che, nella loro discontinuità temporale e nella diversità dei protagonisti storici di cui si parla, i testi che risalgono agli anni ottanta continuano ad avere una “attualità” impressionante e si riverberano ostinatamente sul presente, a dimostrazione del permanere dei problemi fondamentali.
Nella prima parte del volume (che raccoglie i suoi interventi) Mario Capanna ripropone la sua Introduzione ad un libro del 1988 di Uri Avnery, forse il più importante pacifista della storia israeliana, sul tema del dialogo con i palestinesi e ne riporta testualmente due illuminanti passaggi. Il primo: «I miei connazionali non riescono a immaginare cosa sia la pace. La guerra rientra nel normale ordine delle cose. Non li spaventa. Sanno cosa debbono fare, come cavarsela. La pace, invece, …..li sconcerta, magari li preoccupa , come tutto quello che è sconosciuto».
Più profetico il secondo: «Se non troveremo qualche soluzione (alla questione palestinese), prima o poi, il Medio Oriente esploderà. I dirigenti moderati saranno soppiantati da fanatici religiosi, musulmani ed ebrei». Il leader sessantottino giustamente affermava allora che, per evitare quell’esito, i progressisti avrebbero dovuto impegnarsi per cambiare gli orientamenti dei governi occidentali nei confronti della politica israeliana. Oggi siamo ancora a questo snodo, senza più le speranze di allora.
Ad una riflessione sul presente spinge anche l’introduzione al suo storico libro Arafat. Intervista al presidente dello Stato palestinese (Milano 1988): storico perché fece conoscere, per la prima volta nel modo più dettagliato e organico, il pensiero del capo dell’OLP. Quell’introduzione, riproposta nel nuovo libro con il titolo “Arafat e il cammino dei palestinesi”, costituisce il capitolo più significativo della prima parte. In esso scorre la storia del carismatico leader palestinese, che coincide per intero con la lotta del suo popolo: dalla nascita della organizzazione Al-Fatah, con i suoi inizi terroristici tipici di ogni movimento di liberazione nazionale, fino alla svolta di Algeri del 1988. Con essa veniva abbandonata la lotta armata e si accettavano le risoluzioni dell’ONU: quelle che riconoscevano i diritti nazionali dei palestinesi, l’obbligo del ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 (la risoluzione 242) contro il reciproco riconoscimento.
Sullo sfondo del racconto si alternano alcune pagine sul ciclico massacro dei palestinesi: quelle del Settembre 1970 in Giordania, di Tell al -Zatar, di Sabra e Shatila in Libano con le complicità israeliane. Da quella svolta in poi, gli oltranzisti del rifiuto si misero al lavoro contro il “realismo pragmatico” di Arafat: sia all’interno del movimento palestinese sia dei governi israeliani, anche con attentati ad esponenti moderati dell’OLP, ad Arafat stesso. Capanna scriveva nel 1988: «il problema centrale del Vicino Oriente non è che c’è un popolo in più ma uno Stato in meno». E ribadisce, nei suoi “nuovi” articoli scritti dopo l’Ottobre del 2023, che il problema è rimasto ancora lo stesso. Anche dopo il voluto logoramento e isolamento del leader palestinese (fino alla sua morte nel 2004) che hanno indebolito l’ANP, l’Autorità Nazionale palestinese, di cui l’inadeguatezza di Abu Mazen è purtroppo oggi la più evidente testimonianza.
Hamas e la strategia d’Israele
Nella seconda parte del libro, Luciano Neri (oggi analista geopolitico) riflette sul perché la profezia di Avery – di una vittoria degli opposti estremismi palestinese e israeliano – si sia avverata, attraverso un’analisi approfondita della nascita e dello sviluppo di Hamas e del fallimento sistematico dei processi di pace. Secondo Neri, uno degli aspetti meno discussi del conflitto israelo-palestinese è il ruolo che Israele ha avuto nella crescita di Hamas, il cui apparire in Palestina non è stato un evento improvviso né inaspettato. Negli anni ‘80, il movimento fondamentalista fu incoraggiato e finanziato da alcuni Stati islamici del Golfo con la complicità dei governi ebraici. I primi infatti volevano indebolire l’OLP perché, in quanto movimento nazionalista, democratico e laico, era pericoloso per i loro regimi illiberali e teocratici. I secondi miravano a dividere il fronte palestinese e minare il ruolo di Arafat, riconosciuto a livello internazionale come legittimo rappresentante del popolo palestinese e impegnato in un percorso di negoziazione per una soluzione diplomatica.
Il lungo inganno
La forza e il consenso di cui gode Hamas a Gaza e in Cisgiordania, però secondo l’analista geopolitico, sono stati determinati soprattutto dal fallimento sistematico delle varie fasi del processo di pace: “Il lungo inganno”, lo definisce, con efficacia, Neri. Dagli accordi di Oslo del 1993 ai negoziati di Camp David fino alla Road Map del 2003 e alla Conferenza di Annapolis del 2007, ogni tentativo di soluzione diplomatica è fallito perché Israele ha sempre rifiutato, nei fatti se non formalmente, la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Oggi lo riconosce onestamente perfino uno dei negoziatori israeliani degli accordi di Oslo, Daniel Levy, implacabile critico dell’attuale governo di estrema destra, in ogni suo intervento sulla stampa internazionale. I vari leader israeliani, anche laburisti, non hanno mai realmente accettato i punti fondamentali di un possibile accordo: il ritiro completo dai territori occupati, la fine dell’espansione territoriale in Cisgiordania, la restituzione della sovranità su Gerusalemme Est, il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi o un equo risarcimento, la garanzia che lo Stato di Palestina abbia pieno controllo dei propri confini e delle proprie risorse. Un’ulteriore dimostrazione della “non volontà” di collaborare realmente alla risoluzione del conflitto è costituita dalle 93 risoluzioni dell’ONU violate da Israele (costituiscono l’Appendice del libro).
L’assenza di una prospettiva politica credibile ha portato, secondo Neri, alla conseguenza inevitabile di un rafforzamento dei movimenti islamisti radicali. Quando le organizzazioni politiche tradizionali (la debole ANP è ridotta oggi a uno strumento della gestione dell’occupazione israeliana della West Bank) hanno “fallito” nel garantire diritti e autodeterminazione ai palestinesi, Hamas ha trovato consenso presentandosi come l’unica forza politica e militare in grado di opporsi alla colonizzazione ebraica.
La soluzione dei due Stati è ancora possibile?
Con l’attacco terroristico e la carneficina di Gaza, uno scopo comune agli oltranzisti dei due fronti è stato raggiunto: quello di proiettare in un futuro indeterminato qualsiasi speranza di pace e far ritenere irrealizzabile la costituzione di uno Stato palestinese. Anche per attenti studiosi di geopolitica, in considerazione del fatto che dal 1967 nei territori strappati agli arabi si sono insediati mezzo milione di ebrei, l’opzione dei due Stati è «divenuto ritornello delle anime belle. O solo pigre» (Lucio Caracciolo, Limes 9/24). Capanna e Neri ritengono al contrario che proprio il 7 Ottobre e la reazione israeliana dimostrano come non ci sia un’alternativa ragionevole a quella soluzione: l’unica che possa garantire la coesistenza e la pace fra i due popoli.
È quanto pensava più di trent’anni fa Edward Said (uno dei più prestigiosi intellettuali palestinesi) che scriveva nell’Epilogo del suo straordinario libro La questione palestinese: «Nessuna concessione che non sia il riconoscimento dell’autodeterminazione dei palestinesi potrà funzionare e soltanto questa disinnescherà il già troppo esplosivo Medio Oriente. Persino alcuni ebrei, israeliani e non, hanno compreso, che se israeliani e palestinesi avranno un futuro, questo dovrà essere in comune e non si potrà basare sull’annientamento di uno dei due popoli».
Nel 1988 i palestinesi avevano fatto con Arafat un passo da gigante verso la conciliazione e la pace ma un gesto sostanziale verso il riconoscimento reciproco non è mai venuto dai vari governi israeliani nel passato. Tanto meno oggi, dal governo di Netanyahu, tenuto in vita da quel sionismo religioso che crede nella “missione” ricevuta da Dio di creare la Grande Israele biblica (Eretz Israel) senza palestinesi: un mito religioso che si vuol far diventare storia.
Per il momento, come ha sostenuto Gad Lerner (Il Fatto quotidiano 2 Febbraio 2025), dopo il 7 Ottobre hanno perso tutti: israeliani e palestinesi. I primi perché è molto probabile che vedranno rinascere dalle macerie di Gaza generazioni di nuovi nemici e i secondi perché Hamas ha procurato la peggiore catastrofe della loro storia e ipotecato il loro futuro. Il libro di Capanna e Neri ci ricorda che c’è stato un tempo di speranza di pace e ravvicinamento tra i due popoli prima che franasse la fiducia reciproca. Ci vorrà tempo ma da quell’esperienza bisognerà ripartire. Con parole nuove e nuovi protagonisti.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
__________________________________________________________________________________
Giacomo Vaiarelli, già docente di filosofia e storia presso il liceo scientifico “Galileo Galilei” di Palermo, dal 1981 è redattore della rivista Segno, su cui ha scritto saggi di politica internazionale. Ha pubblicato, tra l’altro, Il potere in discussione. Lineamenti di filosofia della politica (Augustinus, 1992) e Le basi della politica (Eli-La Spiga, Milano, 2012).
______________________________________________________________
