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Il magistero della palude, del silenzio e del buio

La casa accanto al canale (ph. Paolo Nardini)

La casa accanto al canale (ph. Paolo Nardini)

di Paolo Nardini 

Scrivere di Lucio Corsi, oggi, è fin troppo facile. Innanzi tutto lo stanno facendo già tutti, e ciò, se da una parte mi attrae, per la curiosità di sapere qualcosa di più di questo giovane musicista, fino a pochi giorni fa sconosciuto alla quasi totalità degli italiani, dall’altra mi infastidisce. E il fastidio credo sia dovuto proprio a questo, che, specialmente nei social, tutti, o almeno tanti, “aprono la bocca e le dànno la via”; in realtà, io credo, non per la volontà di condivisione di conoscenza, ma per accostarsi al personaggio del giorno. Bruciandolo, in qualche modo, tanto domani ce ne sarà un altro, e saremo tutti pronti ad accostarci al prossimo.

Invece credo che sia interessante parlare dell’ambiente in cui ha vissuto, i “luoghi dell’anima”, da cui era fuggito e poi convintamente ritornato: Vetulonia e Macchiascandona. La prima è nota soprattutto per la sua origine etrusca, per gli scavi archeologici e i molti ritrovamenti che vi sono stati fatti, per il Museo intitolato al medico e archeologo Isidoro Falchi, che con la sua passione, la ricerca e i suoi scavi ha stabilito la collocazione esatta della città etrusca. Il suo nome, Vatl, ha una etimologia tipicamente etrusca: l’iniziale fricativa labiodentale sonora “Vu”, Va”, “Vo”, “Ve”, condivisa da altre località come Vulci, Volterra, Volsinii, Veio.

Ristorante Macchiascandona

Ristorante Macchiascandona

L’altra polarità è rappresentata da Macchiascandona, dove dal 1960 è presente un ristorante, ben noto a chi ama la cucina genuina dei cibi preparati in modo casalingo. Macchiascandona è allo stesso tempo il toponimo e il nome del ristorante. Siamo nella zona dell’antico seno marino, poi divenuto lago Prile con la formazione di un tombolo costiero che ha formato l’attuale linea di costa, impaludato per l’apporto di limo e detriti in sospensione sia dall’Ombrone che dal fiume Bruna, e infine oggetto dei lavori di bonifica iniziati nel XVIII secolo dai granduchi di Lorena e conclusi a metà del secolo scorso. Il sito si trova sulla riva destra del fiume Bruna, quasi ai margini della vasta pianura alluvionale fra Grosseto e Castiglione della Pescaia, e poco distante dalle colline dell’entroterra castiglionese. 

le capanne di tronchi - architettura spontanea  (p. Paolo Nardini)

le capanne di tronchi – architettura spontanea (p. Paolo Nardini)

Lavori e saper intorno al padule 

È durante l’indagine sulle attività e i saperi intorno alla principale palude della Maremma, svolta da un gruppo di ricercatori guidati da Pietro Clemente, e di cui ho fatto parte, negli anni 1997-99, che ho incontrato il nonno di Lucio, Giacomo. Il padre di Giacomo gestiva un’impresa di raccolta e commercializzazione dei prodotti della palude, dalle cannucce, la phragmites communis, per la realizzazione dei cannicciati usati nella pesca delle anguille nella laguna di Orbetello, e nelle fornaci di laterizi, al biodolo, la tipha latifolia e angustifolia, usato nel rivestimento dei fiaschi e delle damigiane, nell’impagliatura delle sedie, alle altre essenze palustri utilizzate nella copertura dei fienili dalle grandi aziende della zona, fra le quali un ruolo importante rivestiva il Centro militare di allevamento e addestramento dei quadrupedi dell’Esercito.

Giacomo mi parlava della propria esperienza di vita in una famiglia numerosa, in cui tutti, adulti e bambini, dovevano darsi da fare nella raccolta delle cannucce e della paglia (cladium marsicus), dello scarzolo (carex pendula) e del salicchio (carex elata). È interessante notare come della natura si desse una rappresentazione umanizzata. Giacomo parla di una natura divisa per generi in maschio e femmina. Della tipha veniva scelta la parte migliore, che definisce “più pastosa”: la femmina. Non veniva raccolto il biodolo “maschio”, quello che “fa il bischero”, cioè quello che produce la tipica infiorescenza a forma di sigaro, ma la femmina: “… poi in più c’era il biodolo, il biodo, quello che fa il bischero, no? Però non è che si tagliava quello col bischero, si tagliava quello femmina, noi si chiamava femmina, era molto pastoso…”. Questi prodotti, che la natura offriva spontaneamente in quell’ambiente a metà fra il terreno asciutto e quello sommerso, richiedevano uno sforzo particolare per poter essere raccolti e immagazzinati, e perché fossero inviati, successivamente, alle imprese di trasformazione. Per metà immersi nell’acqua, ragazzini e adulti raccoglievano queste essenze palustri, e non era raro che le sanguisughe (hirudinea), copiose nelle acque più limpide, si attaccassero alle loro cosce e alle loro gambe, succhiandone il sangue, mentre sopra al pelo dell’acqua fossero le zanzare a farlo. 

Il padule attraversato dal fiume Bruna.  (ph. Paolo Nardini)

Il padule attraversato dal fiume Bruna. (ph. Paolo Nardini)

Il padule

Luogo di confine fra abitato e incolto, la Maremma propriamente detta, cioè la fascia pianeggiante costiera, costituiva nelle sue sacche di palude un luogo estremamente pericoloso, ma dal quale era possibile ricavare di che vivere, con un po’ di fortuna, anche se si era di fronte all’ultima spiaggia. Perché il padule era il luogo ricco di tutto. Di tutto quello che poteva servire, anche se era oltre l’abitato, al di là del mondo civile, eppure a pochi passi da casa. Alcuni rari imprenditori, dopo esserci accaparrati il diritto di sfruttamento del padule aperto attraverso contratti di concessione con l’ente gestore, in alcuni casi il Genio Civile, ingaggiavano manodopera femminile per la raccolta della paglia, da inviare alle vetrerie e alle cartiere del Norditalia; infaticabili lavoratori agricoli andavano in padule a raccogliere le cannucce per la fabbricazione delle stuoie. Altri lavoratori raccoglievano le cime delle cannucce da vendere al commerciante che a sua volta riforniva altre fabbriche che confezionavano scopetti per le pulizie domestiche. Altre donne erano ingaggiate per raccogliere e lavorare la fibra del giunco, utilizzata dall’industria tessile. 

Il fiume Bruna  e le cannucce (ph. Paolo Nardini)

Il fiume Bruna e le cannucce (ph. Paolo Nardini)

La donna con la pistola

Il ristorante della nonna di Lucio ha un antecedente leggendario. Prima che venissero completate le opere di bonifica della pianura grossetana, nella prima metà del secolo scorso, in quell’ampia zona un tempo occupata dal lago Prile, il fiume Bruna lungo il tratto terminale del suo corso, confondeva le sue acque con quelle stagnanti della palude. La gente che scendeva dalla montagna a lavorare in quelle zona malsane si affollava, a sera, nei rari locali che per pochi spiccioli, nelle nebbie del tabacco fumato per scacciare le zanzare, offrivano qualche bicchiere di vino.

Si narra che lungo il corso del fiume Bruna ci fosse una capanna che fungeva da locanda e che a sera si riempiva di questi lavoratori: stagionali delle fattorie vicine, badilanti, boscaioli e carbonai. Una partita a carte il più delle volte finiva a cazzotti, qualche volta dentro, e qualche volta fuori dal locale. L’acqua dei fossi lavava la sbornia, insieme al puzzo di sudore e di tabacco. Poi a dormire, perché la giornata era lunga, e la terra bassa e pesante, specie per chi era destinato ai lavori di bonifica, e doveva trasportarla in cima all’argine con la “caretta” o la “barella”.

Quando la giovane moglie dell’oste rimase sola, perché lui se l’erano portato via le febbri malariche, capì subito che di lì in avanti la vita sarebbe stata dura, più di quanto lo era stata fino ad allora. Ma presto riuscì a vincere lo spavento, accorgendosi che fra le poche cose ereditate c’era una rivoltella. Noi non sappiamo se ebbe modo di usarla, e nemmeno se è vera questa storia, ma ci piace pensare che fosse sufficiente esibirla per indurre i malintenzionati a saggi pensieri.

La figura di donna che ci viene trasmessa dalle narrazioni della tradizione è completamente estranea all’uso delle armi, a differenza di quella dell’uomo, che invece le usa da sempre, nella caccia come nella guerra. La più diffusa è la figura della massaia, impegnata nella cura della casa e del cortile, ma che in caso di necessità sostituisce o integra l’attività maschile ai campi. Ma nella tradizione la donna non è mai cacciatrice, raramente è armata. Ci resta perciò strana questa figura trasmessa dalla leggenda, una donna che gestisce l’osteria, che brandisce la rivoltella quando si sente minacciata. Ma non dobbiamo stupirci più di tanto, se consideriamo il contesto storico – quello sì, vero – in cui è inserito il personaggio: un ambiente in cui l’ordine costituito era troppo distante, sempre impegnato a salvaguardare gli interessi dei ricchi e dei potenti. 

 Il ponte dismesso su un canale (ph. Paolo Nardini)

Il ponte dismesso su un canale (ph. Paolo Nardini)

La magia dei luoghi

È forse Macchiascandona un luogo magico, come lo è la palude che un tempo vi si apriva accanto, oggi campi coltivati e prati in cui pascolano greggi, al di là del fiume Bruna e dei canali che ne regolano il flusso, come lo sono le colline di oliveti e di bosco che vi si oppongono. Quelle macchie collinari, con la loro fauna, hanno sfamato famiglie intere, quando la caccia era relativamente poco regolamentata, e comunque era necessario chiudere un occhio nei confronti di chi superava, magari di poco, il limite del consentito. Perché quei luoghi lontani dai rumori e dalle luci della città, insegnano ad apprezzare il silenzio e il buio. È solo nel silenzio più assoluto che si può percepire l’avvicinarsi di un animale, o il verso di un uccello notturno, un battito d’ali improvviso che segnala un allarme. Anche la palude bonificata, che oggi è quasi completamente spoglia, tranne qualche isolotto cespuglioso o macchioso (una piccola zona ancora alberata della vecchia palude si chiama “alberellaia”), un tempo era coperta di vegetazione. Si trattava di una vegetazione la più varia, perché semi e tronchi di giovani alberi sradicati dalla forza dell’acqua, venivano depositati qua e là durante le piene dell’Ombrone e della Bruna. E dove c’è vegetazione c’è vita, nutrimento, riparo, per i mammiferi come per i volatili. Così i contadini dei villaggi d’intorno, che conoscevano i sentieri e i percorsi degli animali selvatici, tendevano le loro trappole, le pènere, le petraccole, i lacci per le volpi, le donnole, le puzzole devastatrici di pollai, e possibilmente per qualche cinghiale. Questo, quei contadini, non lo facevano per misurarsi in una prova impari, come avviene oggi, con i selvatici, che sebbene siano dotati di fiuto e fiato molto migliore di quello dell’uomo, non usano armi da fuoco. Ma per procurarsi il cibo, per sé e per la famiglia.

Ma oggi si può anche evitare di cedere alla tentazione di misurarsi in prove di forza fuori misura, e finalmente, liberi dal condizionamento del cibo quotidiano, ascoltare il silenzio della notte, ammirare il buio profondo, scrutare le stelle. 

Il residuo di palude Diaccia-Botrona, sullo sfondo, appena percepibile, Castiglione della Pescaia (ph. Paolo Nardini)

Il residuo di palude Diaccia-Botrona, sullo sfondo, appena percepibile, Castiglione della Pescaia (ph. Paolo Nardini)

Pietas

Non sempre è stato così. Alcune lavorazioni di raccolta delle erbe palustri richiedevano di lavorare di notte. La paglia, il cladium marsicus, ad esempio, una volta tagliato veniva steso al sole ad asciugare. Dopo un giorno di sole gli steli dovevano essere voltati per asciugare dalla parte opposta. Poi era necessario legarli, ma la legatura doveva avvenire di notte. Dice Giacomo: “Io mi ricordo che avevo dieci anni, perché poi la legatura di questa paglia quando era secca non è che si faceva di giorno, si faceva la notte, perché? perché la notte viene la guazza e si inumidiva un pochino, sennò se si faceva col caldo del giorno si rompeva, ha’ capito? Allora di notte si prendeva, si faceva dei lacci co’ la paglia stessa e si legava, la notte”. E poi continua: “Mio padre ci aveva un garzone […] e a questo garzone gli dispiaceva, vedeva che ero giovane, dieci anni in padule tutta la notte, e ogni tanto mi diceva: – Mettiti qui – e mi copriva la testa con una giubba sua, che puzzava un ci si… mi metteva fra du’ teste di salicchio e il mi’ babbo non è che mi cercava, insomma se n’accorgeva che io dormivo e mi faceva dormì un paio d’ore la notte, no? E la mattina a una cert’ora si smetteva e si veniva a casa, quella era la vita insomma. Avevo dieci anni”.

La vita era dura, un po’ per tutti, rischi e pericoli a ogni angolo, per gli esseri umani come per gli animali. Ma ogni essere vivente veniva rispettato e possibilmente salvato dalle insidie. “Nella primavera invece si sentivano le rane, grè, grè, grè, grè. Qualche volta si sentiva che il lamento non era un canto normale, e allora si diceva: – Senti l’ha chiappata ‘l serpe – perché ‘l serpe l’acchiappava pe’ ’na gamba poi piano piano la succhiava tutta, e allora si faceva la solita funzione, s’allargava [la selva di cannucce], poi noi s’era ragazzotti insomma queste cose… magari il mi’ babbo e il mi’ nonno unn’è che… gli importava assai… S’allargava lì e si rifaceva ‘sto mazzo di canne e con questo si colpiva il serpe, la rana se s’arrivava in tempo scappava, se l’aveva mezza mangiata poretta moriva anche lei!”.

La giornata di giovani e adulti trascorreva interamente nella palude. E per quanto la vita fosse dura, trovavano sempre il modo di scherzare, i ragazzi di bisticciare per un pezzo di pane o per un frutto. Giacomo narra dei contrasti con il fratello, di qualche anno più piccolo: “D’estate c’era più possibilità di venire a casa per mangiare e invece d’inverno si passava tutto il giorno in padule, si veniva la sera tardi a casa insomma. E mi ricordo che io e mio fratello si litigava sempre, perché la mi’ mamma ci metteva i fichi, un panettino di fichi e si faceva a metà; quando toccava di più uno a lui quando toccava di più uno a me. Allora c’era, ci s’aveva un lavorante con noi, Armido, era un òmo che lavorava col mi’ babbo, insomma; e allora diceva: – Qua, oggi i fichi ve li divido io – tirava fuori il metro per misurarli e fare le parti uguali. Ogni tanto me lo rammento”. 

Tramonto di Maremma (ph. Paolo Nardini)

Tramonto di Maremma (ph. Paolo Nardini)

Tornare al passato?

Un mondo e una vita, quella intorno alla palude, che chi è nato in questo secolo fa fatica a immaginare. La tecnologia ha cancellato quel mondo, e ne ha costruito uno del tutto diverso. È difficile negare che abbia portato anche aspetti positivi. Di certo lo sviluppo tecnologico ha contribuito ad aumentare sempre più la distanza fra le persone e la natura in cui vivono. Abbiamo paura della notte, ogni rumore ci spaventa, allontaniamo tutto ciò che ci sembra diverso. E allo stesso tempo inquiniamo i mari e l’aria, deprediamo la terra, distruggiamo tutto ciò che di buono nei secoli abbiamo costruito, e anche i tesori che la natura ci offre.

Ma allo stesso tempo lo sviluppo tecnologico ci ha reso molti aspetti della vita più facili, benché ciò non sia esente da rischi. Pensiamo alla mobilità di adesso e a quella di mezzo secolo fa. Pensiamo al tempo impiegato negli uffici mezzo secolo fa, e oggi. Un esempio, una situazione che credo condivisa da molti: quaranta anni fa per pagare la rata del mutuo dovevo recarmi in una banca, che non era quella in cui avevo il conto corrente, con il denaro contante; facevo la fila che di solito durava mezz’ora, a volte di più. Ebbene, oggi, con la “home banking” puoi farlo da casa, e addirittura con la “canalizzazione” non serve di fare niente: tutto avviene in automatico. Quaranta anni fa il cassiere compilava a mano una distinta in duplice copia, che poi ti faceva firmare, te ne consegnava una copia e si tratteneva l’altra. Entro la fine della giornata, a sportello chiuso, doveva registrare tutte le operazioni svolte durante la giornata e trasmettere tutto al centro di calcolo. Oggi tutto ciò avviene in contemporanea: nel momento in cui l’operazione viene svolta, è già registrata alla centrale. Per la firma si usa una tavoletta elettronica, con grande riduzione dell’ammasso di carta.

Ho lavorato quarant’anni in ospedale. Il giorno in cui venivano pagati gli stipendi la banca apriva uno sportello sul posto, il servizio di vigilanza portava valige di denaro. Noi ci mettevamo in fila e si riscuoteva. Nel 1982 un paio di individui vestiti da operai edili hanno fatto irruzione, armati, in quello sportello bancario improvvisato mensilmente, hanno prelevato le valigie con il denaro e se ne sono andati. Oggi ciò non sarebbe possibile: il denaro compare direttamente nel conto corrente, come per magia: niente file, niente rischi… Oddio: sempre più di frequente si ha notizia di hackers russi che bloccano le centrali operative delle banche italiane. E sono convinto che non sempre la notizia viene divulgata. E penso anche che si tratta solo di avvertimenti, di minacce, che provocano danni, sì, ma relativi. Il più delle volte si è trattato di una replica continua e a velocità elevata di richiesta di informazioni al sito internet di una banca. Poiché il sistema cerca di rispondere a tutte le richieste, e non ha il tempo per farlo, si blocca, in gergo si dice “va in palla”. E diventa inaccessibile per tutti, compresi gli operatori della banca stessa. Bravi informatici sanno risolvere interrompendo il flusso di richieste inappropriato. Tutto torna come prima, senza gravi danni reali. Non vorrei fare previsioni apocalittiche, ma temo che ci sarà una evoluzione in questi attacchi bellici. Perché di questo si tratta, siamo in guerra, anche se non lo sappiamo, perché pensiamo alla guerra convenzionale. 

Cielo notturno con stelle

Cielo notturno con stelle

Europa e democrazia

Sappiamo tutti quanto sia importante che gli Stati europei si siano uniti. E sappiamo anche quanto sia importante che fra di essi siano in vigore regole democratiche. Eppure sembra che l’Unione Europea sia poco rilevante nel quadro internazionale. Ricordo che nei decenni passati c’è stato un dibattito assai interessante, e anche acceso, riguardo al sentimento di identità nazionale espresso da alcuni popoli. Purtroppo oggi ci troviamo di fronte a un diffuso nazionalismo, che non è esattamente la stessa cosa. Fra il riconoscersi fra uguali nella distinzione rispetto ad altri, ma nel rispetto dell’altro e delle regole condivise, e una politica di esclusione e di pretesa autonomia nelle decisioni, fregandosene del vicino, nel disconoscimento delle regole di una autorità superiore, ce ne passa.

Le “grandi civiltà” – chiamiamole così, provvisoriamente – che si sono susseguite nella storia europea, hanno cercato di raggiungere gli stessi obiettivi. Certo, con gli strumenti che avevano a disposizione. Lo hanno fatto i greci, attraverso le loro colonie sparse per il bacino del Mediterraneo, così come i romani che si sono spinti verso occidente, nell’Europa centrale, e fino alla Gran Bretagna. Mi si consentano questi grossi balzi in avanti: lo stesso obiettivo fu di Carlo Magno, così come, più oltre, di Napoleone. E mi duole citare, in questa progressione, l’ultimo terribile tentativo di unificare l’intera Europa sotto un’unica nazione.

Noi che siamo nati dopo la Seconda guerra mondiale, siamo fortunati: abbiamo visto nascere l’unione degli Stati europei, il libero transito delle persone e dei beni fra di essi, un lungo periodo di pace (fra questi stati, s’intende, perché omettiamo sempre accuratamente di parlare delle guerre provocate altrove). Possiamo dire che abbiamo vissuto un periodo all’insegna del progresso, per citare il dibattito di cui abbiamo letto negli ultimi numeri. Perciò non siamo attrezzati alla guerra, non siamo pronti ad offrire soluzioni pacifiche, i capi di stato e di governo si guardano l’un l’altro quasi in cagnesco, cercando di percepire il minimo movimento del vicino per precederlo, anziché cercare una proposta di pace condivisa e sostenuta da tutti.

M’immagino (l’idea non è originale, altri l’hanno già formulata, ma in contesti diversi) le difficoltà in cui potrà trovarsi uno storico che nel 2225, fra duecento anni, dovesse affrontare la ricostruzione delle vicende di questo periodo.

Chissà se fra la documentazione delle incongruenze di questa democrazia stanca, troverà anche notizia di chi è riuscito ad ascoltare il silenzio della notte, a guardare il buio, a scrutare le stelle, a decifrare i rumori della foresta? 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025

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Paolo Nardini, laureato in filosofia con indirizzo demo-etno-antropologico presso l’Università di Siena, è giornalista dal 2006, scrive per Il Tirreno. Ha pubblicato su Maremma Magazine, il Manifesto e La Nazione. Dal 2015 al 2020 ha organizzato con cadenza annuale i “Laboratori di musica popolare”, a Grosseto, in collaborazione con il Circolo ARCI Khorakhanè. Nel 1986 iniziò una collaborazione con il Comune di Grosseto per la realizzazione del Museo della Maremma di Alberese, con la guida di Maria Luisa Meoni e il coordinamento di Pietro Clemente. Da allora, e fino a oggi, si occupa dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, un centro di ricerca e di riproposizione delle attività tradizionali. Negli anni 2009-2011 ha partecipato alle iniziative del progetto transfrontaliero INCONTRO (INterventi CONdivisi Transfrontalieri di Ricerca sull’Oralità), che metteva in relazione, per uno scambio culturale sull’oralità, le province costiere della Toscana, la Sardegna e la Corsica. Fra le pubblicazioni, tutte edite da Effigi di Arcidosso (Grosseto), si segnala: Improvvisar cantando: Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea in ottava rima, a cura di, con Corrado Barontini (2009); Monticello Amiata. Una ricerca etnografica intorno alla Casa Museo (2011); Il Cerchio Magico: Atti del convegno sulle figure magiche nelle narrazioni di tradizione orale in Maremma (2011); Don Luigi Rossi e il rifugio Sant’Anna (2013); Il Sessantotto in Maremma: un figlio dei fiori non pensa al domani (a cura di, con Flavio Fusi) (2018); Sant’Antonio Abate. La benedizione degli animali a Castell’Azzara (2019).

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