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Il Manzoni e le donne

Lucia Mondella, la vera protagonista del romanzo

Lucia Mondella, la vera protagonista del romanzo

di Umberto Melotti  

Nel precedente numero di “Dialoghi Mediterranei” ho scritto dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni in occasione del centocinquantenario della morte del suo autore. Vorrei ora integrare quello scritto con una breve nota, frutto delle mie tante riletture, sul rapporto del Manzoni con le donne. 

Innanzi tutto va detto che I Promessi Sposi sono caratterizzati da un grande rispetto per le donne. La vera protagonista del romanzo è Lucia, una giovane di «modesta bellezza», contadina e operaia di un filatoio in un piccolo paese del lecchese, affacciato su «quel ramo del lago di Como». Semplice e pudica, sa diventare schietta e forte, quando è necessario. È il divieto posto al suo matrimonio con il suo promesso sposo dal signorotto del luogo che se ne era incapricciato («Questo matrimonio non s’ha da fare né ora né mai», imposto dai suoi “bravi” al pavido parroco che avrebbe dovuto celebrarlo) che apre il romanzo. È poi la sua supplica, con spontanee e toccanti parole di fede («Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia»), rivolta all’Innominato, il grande criminale che l’aveva fatta rapire e la teneva prigioniera nel suo castello, che imprime una svolta decisiva alla lunga e intricata vicenda, avviando la sua conversione. Ed è ciò che ha imparato in quel travagliato percorso che conclude il romanzo, come “morale” della favola.  

La Signora di Monza (Giuseppe Molteni, 1847)

La Signora di Monza (Giuseppe Molteni, 1847)

Con grande rispetto e grande sensibilità è trattata anche la triste e scabrosa vicenda della monaca di Monza, Marianna de Leyva (nel romanzo Gertrude), prima vittima innocente della prepotenza patriarcale e dell’egoismo di casta del principe-padre, poi, dopo la monacazione forzata da lui impostale, Signora del monastero, dove si rende responsabile non solo di gravi mancanze, ma anche di un terribile delitto. Famosa è la preterizione del Manzoni, che non ne racconta i particolari, ma li lascia intuire ai lettori («La sventurata rispose»). 

Notevoli sono anche le figure femminili minori che costellano il romanzo. Agnese, la madre di Lucia, brilla per il suo buon senso e per la sua sagacia popolana. Frena Renzo, l’impetuoso promesso, pronto a rischiare la vita per colpire il suo antagonista, ma sa anche suggerire l’«imbroglio» del matrimonio a sorpresa, non arrestandosi di fronte ai divieti ecclesiastici.

Gruppo di donne (dal cap. 2 dei "Promessi Sposi")

Gruppo di donne in casa di Lucia prima dell’atteso matrimonio  (dal cap. 2 dei “Promessi Sposi”)

Perpetua dimostra molta più concretezza e capacità operativa di don Abbondio, che accudisce quasi maternamente, e nei suoi semplici «pareri» precorre quanto il cardinale Federigo gli avrebbe poi detto con la sua oratoria.

La moglie del sarto, la «buona donna» di cuore e di testa di cui non viene mai detto il nome, prevale sul marito, che si compiace della propria modesta cultura libresca, ma che, quando deve rispondere al cardinale che visita la sua casa, per quanto si arrovelli, non riesce a dir altro che un insulso «Si figuri!», cosa di cui si sarebbe rammaricato per tutta la vita. Donna Prassede, con tutti i suoi pesanti difetti, predomina sull’erudito ma vacuo marito in tutto fuorché la grammatica. La mercantessa che Lucia incontra al lazzaretto è una bella figura di donna borghese, raddolcita e resa generosa dalle sventure della vita.

La madre di Cecilia

La madre di Cecilia sulla soglia di casa con la bambina in braccio

Fra tutte le figure femminili del romanzo spicca però, per la sensibilità con cui è tratteggiata in uno dei passi più lirici di tutto il romanzo, la madre di Cecilia: una luce nella Milano sconvolta dalla peste. 

Ciò è tanto più notevole perché nella sua vita reale il Manzoni si è comportato verso le donne in maniera molto diversa e, per molti aspetti, non encomiabile. Da giovane, uscito a 16 anni dal collegio dei barnabiti, forse anche per reazione a quell’ambiente chiuso e opprimente, si diede per qualche tempo a una vita scapestrata, segnata dalla passione per il gioco d’azzardo, cui attendeva nel ridotto della Scala, e dalla ricerca di donne dai facili costumi. Fra le sue avventure di quel periodo, si ricordano quella con un’attricetta incontrata per le strade di Pavia e quella con una domestica, che ebbe rapporti anche con un suo amico, restando incinta dell’uno o dell’altro.

Il padre, con cui viveva allora a Milano, per sottrarlo a quella vita sregolata e pericolosa, tra il 1803 e il 1804 lo mandò da alcuni parenti a Venezia, ma con ben scarso successo. Lì, anzi, a diciotto anni, perse la testa per una trentenne, cui giunse a chiedere la mano, ottenendo per tutta risposta che alla sua età avrebbe fatto meglio a studiare che a pensare all’amore. A Venezia contrasse anche una “ciprigna”, cioè una malattia venerea non meglio precisata, che lo rese poi un po’ più prudente nelle sue avventure. A Milano, peraltro, frequentò probabilmente anche il “casino dei nobili” (in parte un vero e proprio postribolo), in cui però non volle più metter piede dopo il matrimonio e il ritorno alla fede, facendosi per questo irridere come “bigotto” da alcuni suoi amici, come Carlo Porta e lo Stendhal, che invece solevano andarci senza problemi, dopo averlo incontrato nell’adiacente Società del Giardino (si veda Maria Teresa Sillano e Luigi Inzaghi, Manzoni e la sua Milano, Meravigli, Milano, 2023: 78-79). 

Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni

Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni

Convinto che nel matrimonio l’amore (o, meglio, il sesso) fosse comandato da Dio e quindi «santo» (come affermò nel romanzo), fece fare alla sua prima moglie, l’«angelica» Enrichetta Blondel, da lui sposata giovanissima, ben dieci figli, frutto di una quindicina di gravidanze solo in parte giunte a buon fine. Anche per i colpi assestati da queste alla sua salute, Enrichetta, già minata dalla tisi, morì a soli 42 anni, il 25 dicembre 1833: una data che ispirò al Manzoni l’incompiuto Natale 1833, a volte impropriamente inserito fra i suoi Inni sacri, che aveva scritto dopo il suo ritorno alla fede (1810). Aggiungo, in proposito, che era stata la conversione di Enrichetta dal calvinismo al cattolicesimo a favorire il suo ricupero della fede cattolica.

Teresa Borri ved. Stampa e Alessandro Manzoni ( Francesco Hayez, Pinacoteca di Brera)

Teresa Borri ved. Stampa e Alessandro Manzoni (Francesco Hayez, Pinacoteca di Brera)

Alla sua seconda moglie, Teresa Borri vedova Stampa, che sposò, con l’approvazione della madre, quando aveva già 37 anni e un figlio diciottenne, fece fare a 44 anni due gemelle (nata morta l’una e deceduta subito dopo la nascita l’altra). Questa gravidanza tardiva peggiorò gravemente la sua salute, anche perché i due medici chiamati per curare i disturbi che presentava durante quella gravidanza, non pensando che a quell’età potesse essere incinta, l’avevano fatta massaggiare vigorosamente con delle sostanze venefiche, come allora si usava fare per i tumori. 

Incapace di controllare i suoi impulsi, nel 1836, fra i due matrimoni, ebbe un figlio anche da una ricamatrice, che il canonico di San Fedele, che gli era amico, riuscì a far sposare a un suo conoscente, prevenendo così il possibile scandalo (si veda Marina Marazza, Le due mogli di Manzoni, Solferino, Milano, 2023, che cita un documento anonimo rintracciato da altri nell’Archivio diocesano). 

Merita qualche considerazione anche il suo rapporto con la madre. Questa, di costumi molto liberi e per allora addirittura spregiudicati (tanto che si pensa che il padre biologico del Manzoni non sia stato il suo anziano marito, Pietro Manzoni, ma il suo amante Giovanni Verri), per non essere intralciata nella sua vita privata, l’aveva affidato a una balia a Cascina Costa, nei pressi di Lecco, e poi, d’accordo con il marito, l’aveva messo in collegi religiosi (prima in quelli dei Padri somaschi a Merate e a Lugano; poi in quello dei Padri barnabiti a Milano, quando, lasciato il marito, si era già trasferita in Francia con il ricco e nobile Carlo Imbonati).

Diversi anni dopo, quando aveva già finito gli studi, invitato a Parigi dalla madre (forse preoccupata delle notizie sulla vita che conduceva a Milano), la raggiunse, arrivando dopo la morte improvvisa di quel suo compagno. Lì scrisse a sua consolazione, il carme In morte di Carlo Imbonati.

Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni

Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni

Con la madre ormai sola (l’«amata Giulia», come la chiamava), strinse un rapporto fortissimo, dai risvolti quasi edipici, che durò sino alla sua morte (1841), avvenuta mentre lui curava la pubblicazione dell’edizione definitiva del romanzo (1840-1842). Da parte sua, la madre, dopo il loro ricongiungimento, lo aveva sempre seguito con affetto, convinta che fosse incapace di badare a sé stesso e dovesse avere sempre accanto una figura femminile che ne prendesse cura e ne alleviasse gli istinti. Per questo facilitò i suoi due matrimoni, anche se poi la seconda moglie non la trattò bene come la prima, a lei completamente sottomessa.

Queste osservazioni critiche non vanno però esagerate. Per dirla con le parole che il Manzoni stesso ha riservato a un suo grande personaggio, il cardinal Federigo, intendono solo mettere in luce che «di un uomo complessivamente tanto ammirevole non tutto lo fu parimenti, anche per non lasciare l’impressione di avergli voluto dedicare un elogio funebre», nell’occasione del centocinquantenario della sua morte. Nondimeno, va ribadito che il Manzoni fu davvero un uomo per tanti aspetti geniale, anche se nei suoi rapporti con le donne, influenzati anche dalle sue note nevrosi, non fu superiore ai comportamenti prevalenti fra gli uomini del suo tempo. In realtà, il minimo che si deve dire è che nella sua vita quotidiana non fu certamente all’altezza di ciò che ci si sarebbe potuto aspettare da chi aveva scritto un così straordinario romanzo.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 

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Umberto Melotti, ha insegnato Sociologia e Antropologia culturale all’Accademia di Brera, all’Università di Pavia e, per ventisei anni, come ordinario, alla “Sapienza” di Roma. Ha fondato e diretto la rivista “Terzo Mondo” ed è stato per otto anni (il massimo consentito) membro della direzione dell’“International Review of Education”, pubblicata in tre lingue dall’Unesco. Fra le sue numerose pubblicazioni:  Marx e il Terzo Mondo (Il Saggiatore, 1972), tradotto in inglese, spagnolo e cinese; La nuova immigrazione a Milano (Mazzotta, 1985); L’immigrazione: una sfida per l’Europa (Edizioni Associate, 1992);  Etnicità, nazionalità e cittadinanza (Seam, 1999); Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche (Bruno Mondadori, 2004), parzialmente tradotto in molte lingue; Marx: passato, presente, futuro (Meltemi, 2019), edizione aggiornata e rivista di Marx e il Terzo Mondo. Recentemente ha pubblicato una trascrizione integrale in lingua italiana moderna dei Promessi sposi (Booksprintedizioni, 2023).

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