hwæt ic eall fealla ealde sæge [1]
Nel secondo libro della Historia ecclesiastica gentis Anglorum [2], Beda riporta la celeberrima leggenda secondo la quale il processo di conversione delle popolazioni dell’Inghilterra antica sarebbe partito da un casuale incontro del futuro papa Gregorio con alcuni schiavi provenienti da quelle terre ed esposti come merce a Roma. Colpito dalla loro complessione, altezza e capigliatura il pontefice ne avrebbe chiesto la provenienza; venuto a conoscenza che i giovani rispondevano al nome di Angli, avrebbe affermato: «Il nome è appropriato perché hanno l’aspetto di angeli; ed è giusto che partecipino nei cieli all’eredità degli angeli. Come si chiama esattamente la regione dalla quale provengono?» Gli fu riposto che gli abitanti di quella regione si chiamano Deiri. «Giusto», commentò, «Deiri, cioè dall’ira, strappati dall’ira e chiamati alla misericordia di Cristo! Come si chiama il re di quella regione?» Gli fu detto che si chiamava Ælle. E lui, giocando sul nome: «l’Alleluia» disse, «la lode a Dio creatore, deve essere cantato in quelle terre!» [3].
Il gioco paraetimologico (allusio ad nomen) istituito dal dotto monaco di Jarrow in linea con la tradizione dell’agiografia e della biografia medievale è il punto di partenza per una breve campionatura del portato culturale mediterraneo della conversione delle genti germaniche delle isole britanniche. La conversione e il suo completamento furono tutt’altro che lineari, scissi da ritorni al paganesimo e da una concorrenza dottrinale e ideologica con la concomitante evangelizzazione operata dai monaci irlandesi, ma resta certo che la missione gregoriana, approdata per la prima volta alla corte del re del Kent Æthelbert nel 597, reca un’impronta di attenzione culturale e dottrinale da parte di papa Gregorio e dei suoi successori pronti a trarre beneficio dalla cura pastorale e dalle pratiche di inculturazione esperite nel bacino del Mediterraneo.
I primi monaci approdati sulle isole, guidati da Agostino, apostolo degli Inglesi e primo arcivescovo di Canterbury e provenienti da Roma portarono con sé paramenti, arredi e soprattutto libri nel tentativo, non solo di fondare una prima comunità con relativa sede episcopale, ma scuole per l’istruzione di un clero autoctono. Uno di questi volumi è il manoscritto dei Vangeli di Sant’Agostino [4] (Cambridge, Corpus Christi College, Lib. MS. 286), un manoscritto incompleto di diverse parti miniate costituito da 265 fogli. È considerato il più antico manoscritto miniato del Vangelo pervenutoci, in lingua latina e uno dei più antichi libri esistenti in Europa. Le poche illustrazioni sopravvissute sono di importanza capitale per gli storici dell’arte. Il testo fu scritto in Italia e, per ammissione degli studiosi, realizzato a Roma o a Montecassino. Fu donato alla Parker Library del Corpus Christi College di Cambridge come parte della collezione raccolta e offerta da Matthew Parker, arcivescovo di Canterbury nel 1575, dopo la chiusura dei monasteri e tradizionalmente usato per il giuramento nelle cerimonie di intronizzazione dei nuovi arcivescovi di Canterbury, tradizione ripresa dal 1945.
Il manoscritto è sostanzialmente la più antica copia completa della traduzione di Girolamo [5], testo utilizzato in sostituzione della precedente Vetus Latina. La sua analisi testuale lo rende un testimone essenziale per ricostruire le dinamiche dell’utilizzo delle traduzioni delle Scritture e il materiale iconografico con le sue ventiquattro immagini sopravvissute della vita di Cristo fornisce agli storici dell’arte una prospettiva unica nell’Occidente medievale, comparabile ai cicli narrativi di origine greca o siriaca come i manoscritti di Rossano o Sinope. Gli storici dell’arte, analizzando le caratteristiche della miniatura, ne sottolineano un processo tendente all’astrazione in grado di amalgamarsi con gli influssi paganeggianti dell’arte di origine irlandese e, benchè le numerose lacune non permettano approfondimenti di ulteriore portata, le linee di sviluppo delineano la chiara influenza di questo stile sullo sviluppo della miniatura anglosassone. Dei ritratti degli evangelisti sopravvive solo quello di Luca e la sua iconografia e le scene tratte dal suo Vangelo indicano come l’arte della miniatura locale sia debitrice di influssi provenienti dall’arte del tardo impero e dall’arte coeva di influsso bizantino del bacino orientale del Mediterraneo.
Un analogo viaggio da mare a mare è quello delle Lettere di San Cipriano (British Library AD MS 40165 A). Si tratta di frammenti delle lettere del vescovo martire di Cartagine e sono ciò che sopravvive di un manoscritto composto in Africa settentrionale nella seconda metà del IV secolo. Il testo è impaginato secondo un ordine di quattro strette colonne di testo con l’inchiostro rosso utilizzato per evidenziare la scrittura. Le note in antico inglese risalgono all’VIII secolo, ma gli studiosi hanno formulato una suggestiva ipotesi che farebbe risalire l’arrivo del manoscritto all’arrivo della missione dell’abate Adriano. Descritto da Beda come vir natione Afir [6], egli aveva infatti portato manoscritti e libri per coadiuvare l’opera dell’Arcivescovo di Canterbury Teodoro e i frammenti potrebbero far parte del bagaglio librario a seguito della missione. La scrittura onciale del manoscritto è considerata modello per quelle utilizzate nei documenti ufficiali e nei libri copiati nei primi scriptoria inglesi.
Un altro testo che testimonia la connessione fra il mondo anglosassone e la cultura di lingua greca del bacino orientale del Mediterraneo è il Commento sull’Apocalisse di Primasio (Oxford Bodleian Library, MS Douce 140). Primasio, vescovo di Hadrumentum nell’Africa sotto il controllo dei Vandali, noto da una cronaca di Vittore di Tununna e Isidoro di Siviglia nel suo De viris illustribus, visse all’epoca dello Scisma dei tre Capitoli e schieratosi successivamente con l’imperatore Giustiniano divenne vescovo della provincia Byzacena corrispondente all’attuale Tunisia. Il commento è sopravvissuto in sette manoscritti e quello presente in Inghilterra è il più antico. Fonte per le citazioni dal testo biblico utilizzato in Africa trae spunto dal pensiero di Ticonio e permette agli studiosi un confronto con il pensiero dell’eresia donatista, costituendo a sua volta una fonte per il commento di Beda e lo sviluppo della riflessione sul pensiero di Sant’Agostino in terra inglese.
Il legame con le metodologie esegetiche del Mediterraneo di lingua greca e la sua cultura ha nella figura dell’arcivescovo Teodoro un punto di riferimento cardinale [7]. Teodoro, consacrato vescovo di Canterbury nel 668, era un monaco greco nato a Tarso nel 602. Le linee del suo pensiero teologico e l’orientamento esegetico presente nei commenti scelti e utilizzati nella scuola da lui fondata a Canterbury rendono evidente l’influsso antiocheno della sua formazione. Antiochia, infatti, poco distante da Tarso, dovette essere la sede dei suoi studi. L’esegesi antiochena, a differenza della scuola di Alessandria incentrata sull’allegoria, privilegiava il senso letterale della scrittura. Le autorità citate nei commenti privilegiano infatti Giovanni Crisostomo e Teodoro di Mopsuestia, fra i più notevoli esegeti della scuola antiochena.
Antiochia era una città bilingue dove greco e siriaco spartivano come lingue di cultura la produzione testuale. Proprio qui Teodoro poté entrare in contatto con la tradizione esegetica di lingua siriaca, specialmente gli scritti di Efraim Siro, altro autore presente nei commenti. Michael Lapidge in un articolo dedicato alla figura di Teodoro [8] sottolinea come Edessa il centro del cristianesimo siriaco si trovasse non lontano da Antiochia e proprio un commento presente fra quelli di Canterbury mostra un’esperienza di prima mano delle questioni trattate a Edessa e testimonierebbe una presenza di Teodoro per un soggiorno di studi, così come i commenti offrono osservazioni su Persiani e Arabi che invasero Edessa rispettivamente nel 613 e nel 637. Proprio queste invasioni dovettero essere causa del trasferimento di Teodoro a Costantinopoli sotto il regno di Eraclio.
Costantinopoli ospitava a quel tempo biblioteche, un’università e la biblioteca patriarcale di Hagia Sophia. Vi insegnavano lo scienziato Stefano di Alessandria, lo storico Teofilo Simocatta e il poeta Giorgio di Pisidia. I commenti di Canterbury mostrano un influsso diretto di questi studi costantinopolitani specialmente negli interessi medici, astronomici, matematici e di computo cronologico. Per ragioni che non ci sono note ritroviamo Teodoro a Roma attorno al 649 presso il monastero di Sant’Anastasio ad aquas Salvias, comunità di monaci di lingua greca dalla Cilicia. Proprio nel 649 il Concilio Laterano sotto papa Martino ripudiava la teoria monotelita seguendo la teologia di Massimo il Confessore, altro monaco greco rifugiato a Roma e la cui riflessione si manifesta come influsso esplicito nei commenti di Canterbury. Alcuni anni dopo Wigheard venne eletto arcivescovo di Canterbury e si recò a Roma per ricevere il pallio dalle mani del pontefice, ma la sua morte improvvisa a causa della peste pose con urgenza immediata il problema della sua successione. Papa Vitaliano, su consiglio di Adriano, abate di un monastero presso Napoli, nominò Teodoro vescovo di Canterbury, dopo un rifiuto dello stesso Adriano che comunque avrebbe accompagnato il dotto monaco greco in Inghilterra costituendo un sodalizio di fede e di cultura.
Teodoro, consacrato nel 668, arrivò nella sede arcivescovile nel maggio del 669 all’età di sessantasette anni. Iniziò immediatamente a organizzare la Chiesa locale con un’opera attenta e puntuale di amministrazione pastorale, insegnamento del diritto canonico e di attività sinodale rispettosa dell’ortodossia; ma è sicuramente nel campo dell’erudizione e della cultura che si distinse come una delle figure chiave del futuro splendore culturale della Chiesa inglese. Beda riporta come Teodoro e Adriano attraessero studenti interessati all’esegesi, ma anche all’astronomia e al computo [9]. La natura degli studi e la sua portata possono essere inferiti dal corpus di commenti e dalle note e appunti vergate dagli studenti. Come sottolinea lo stesso M. Lapidge [10], il livello degli studi e la loro profondità evidenziano notevole ampiezza e qualità superiore in confronto agli standard medievali. Lo studio della scrittura partiva da una base testuale di confronto letterale fra la Vulgata e il testo greco della Settanta in dialogo con le opinioni dei Padri greci (principalmente Basilio di Cesarea, Clemente di Alessandria, Giovanni Crisostomo) citati e tradotti in latino.
Ma questi riflessi dell’insegnamento orale di Teodoro sono accompagnati da una attività compositiva originale e a propria volta indebitata con la cultura di provenienza: un poema ottosillabico dedicato a Hæddi, vescovo di Winchester in versi anacreontici, una traduzione latina della passione di S. Anastasio, martire persiano e santo patrono del monastero ad aquas Salvias, e un’opera intitolata Laterculus Malalianus, in parte ispirata dalla Chronographia di Giovanni Malalas e in parte esegesi originale della vita di Cristo. Morto nel 690, Teodoro rappresenta una figura capitale nel futuro sviluppo della cultura anglosassone e testimonia un debito esplicito e uno sguardo attento e originale all’orizzonte mediterraneo della cultura di lingua greca.
Un’altra dimensione che permette di valutare i rapporti a lungo raggio e le connessioni con le culture del Mediterraneo proviene dai ritrovamenti archeologici e dalla cultura materiale. Le sepolture e il patrimonio dei re anglosassoni mostrano prove tangibili di queste relazioni. Ne esamineremo due esempi significativi. Nel 1939 a Sutton Hoo nel Suffolk, fu effettuata una delle più importanti scoperte archeologiche del ventesimo secolo [11]. In una zona già utilizzata come luogo di sepoltura fu ritrovata una tomba reale intatta e provvista di corredo funebre. Sotto un tumulo fu portata alla luce una nave funeraria risalente all’inizio del VII secolo approntata per una tumulazione reale che gli archeologi attribuiscono a re Rædwald, un sovrano dell’Anglia sudorientale. Della originaria nave, che testimonia usi funerari comuni all’area scandinava e una congruenza con i riti funebri descritti nell’epica anglosassone, non è sopravvissuta alcuna struttura lignea, ma un’impronta che ne delinea perfettamente i dettagli costruttivi. Al centro della nave era stata collocata una camera sepolcrale con relativo corredo funerario.
Del tesoro di reperti, ora conservati al British Museum, fanno parte una serie di oggetti unici e di preziosa fattura che aiutano a ricostruire una serie preziosissima di elementi relativi alla cultura anglosassone. Fra i reperti che testimoniano l’alto livello tecnico dell’arte orafa e della lavorazione autoctona dei metalli, spicca la presenza di oggetti in argento provenienti da laboratori mediterranei. Secondo gli studiosi si tratta di oggetti originari del Mediterraneo orientale e giunti nelle isole britanniche attraverso le rotte commerciali dell’Europa occidentale come dono diplomatico dei re merovingi ai sovrani dell’Anglia orientale. Il reperto di maggiori dimensioni è il Piatto di Atanasio costituito da una sola gettata d’argento del diametro di 72,4 cm. Decorato con motivi geometrici e floreali reca ornamenti che rappresentano Roma e Bisanzio, capitali imperiali, e nella parte centrale l’effige impressa dell’imperatore Atanasio I, indice dell’antichità del reperto all’epoca della sua inserzione nel corredo funebre. Gli studiosi, per fattura e caratteristiche, lo considerano un prodotto minore ma significativo delle botteghe artigiane dell’Impero bizantino.
Il corredo di argenteria è completato da coppe e cucchiai che mostrano le stesse caratteristiche di fattura. Accanto alla spalla del defunto erano stati collocati dieci coppe e due cucchiai. Sui cucchiai compaiono incisioni in greco recanti i nomi Saulos e Paulos in caratteri greci. Gli archeologi pensano che i due nomi avessero un significato rituale, riferendosi alla conversione di re Rædwald, brevemente passato al cristianesimo per poi ritornare al paganesimo d’origine, ma altri studiosi dubitano di un significato cristiano degli oggetti considerandoli parte annessa di un corredo completo. Nell’angolo nordorientale della camera sepolcrale è stato rinvenuto un recipiente in bronzo definito «copto» per l’analogia che presenta con oggetti di similare fattura contenenti un fregio decorativo con presenza di animali e generalmente prodotti nella zona del delta del Nilo e Alessandria. Scoperte più recenti hanno evidenziato che tali oggetti erano comuni in un’area più vasta del Mediterraneo orientale e vengono collocati dagli studiosi in un ampio contesto di rotte commerciali e diplomatiche che dal Mediterraneo orientale risalivano la penisola italica congiungendosi alle rotte commerciali dell’Europa occidentale, analoghe alle rotte che da Bisanzio e il Mar Nero, via Kiev, raggiungevano Uppsala e la penisola scandinava.
Uno dei reperti più curiosi che testimonia una presenza culturale mediterranea in terra inglese è il cosiddetto dinar di re Offa [12]. Conservato al British Museum di Londra (British Museum CM 1913, 1213.1) e acquistato a Roma circa cento anni fa rappresenta un unicum numismatico. Questa moneta fu incisa, battuta ed emessa da Offa, re di Mercia dal 757 al 796. È un oggetto unico perché imita un dinar d’oro del califfo al-Mansur. Sebbene l’iscrizione in arabo non sia stata copiata perfettamente si legge chiaramente parte del testo della shahāda: lā ilāha illā Allāh «Non c’è altra divinità all’infuori di Allah», mentre sulla faccia opposta è incisa la dicitura OFFA REX. L’originale da cui è stata copiata è stato battuto nell’anno dell’ègira 157 (773-74 d.C.) e chiunque sia stato l’incisore, sembra che non conoscesse la scrittura araba e questo lo sappiamo perché il nome e il titolo OFFA REX sono stati inseriti al contrario rispetto all’iscrizione araba. Offa si preoccupò di unire l’Inghilterra sotto un unico re, ma si impegnò anche a promuovere buone relazioni all’estero, sia dal punto di vista ecclesiastico che commerciale e pertanto l’oggetto potrebbe essere latore di un significato simbolico. Il sovrano aveva relazioni cordiali con la Sede romana. Due legati, Giorgio e Teofilatto, furono ricevuti dal re in una corte tenutasi a Lichfield nel 786. Essi tornarono da Papa Adriano con un voto fatto da Offa di inviare 365 mancus (che indica una moneta d’oro o il suo peso in oro) all’«Apostolo di Dio» (cioè il Papa), uno per ogni giorno dell’anno. Questa donazione da parte di Offa sembra essere l’origine di ciò che da allora è noto come Penny’s pence (un pagamento effettuato volontariamente alla Chiesa cattolica romana). Il Papa concesse quindi a Offa un arcivescovado merciano. La forma di questa moneta, ma non il tipo, derivava dal denario di Carlo Magno, il che è di per sé interessante perché Offa aveva molti rapporti con la corte carolingia.
Perché esiste una moneta d’oro di Re Offa, incisa con caratteri arabi? Non è facile rispondere in modo univoco a questa domanda. Esistono alcune teorie. Escludendo la fantasiosa suggestione di una conversione di Offa alla fede islamica, molto più plausibilmente Offa considerava la scrittura sulle monete che aveva maneggiato nei suoi affari all’estero come un semplice ornamento e le batteva a somiglianza, aggiungendovi però il suo nome senza capire il significato della scrittura e probabilmente per i pellegrini che partivano dall’Inghilterra verso la Terra Santa la moneta sarebbe stata coniata in modo da essere più facilmente accettata dai musulmani e favorire così il loro passaggio. La moneta potrebbe essere stata una di quelle coniate per essere inviata al Papa, ma se fosse stata usata a questo scopo avrebbe avuto una scritta islamica? Sono state trovate altre monete con iscrizioni in caratteri sia romani che islamici che riportano i nomi di altri principi cristiani; quindi, è possibile che le monete islamiche si trovavano a Roma in quel periodo perché venivano regalate al Papa; sembra plausibile che Offa ne abbia fatto una copia. Non essendo stata trovata nessun’altra moneta uguale a questa è possibile che si tratti di un conio «a tiratura limitata», probabilmente da regalare al Papa come parte del voto di Offa e il fatto che è stata trovata a Roma sembra dare credito a questa tesi.
Si tratta di un manufatto simbolico che testimonia l’importanza del dinar nelle rotte del commercio internazionale dell’epoca e la presenza di mercanti merciani su quelle stesse rotte. Gli studiosi rilevano altresì che il dinar in oro favorì la ricomparsa del conio in questo metallo prezioso nell’Europa coeva. Il periodo che va dalla conversione operata dalla missione di Agostino all’inizio delle invasioni scandinave alla fine del VIII secolo testimoniano di un dialogo culturale continuo con il bacino mediterraneo. Il vescovo Teodoro aveva importato una modalità di inculturazione tipica della Chiesa di Bisanzio che favoriva l’utilizzo delle lingue vernacole per l’opera di evangelizzazione (si pensi all’opera del vescovo visigoto Wulfila o a quella di Cirillo e Metodio per non parlare dell’utilizzo del siriaco e dell’aramaico nelle varie confessioni orientali) e può essere posta in linea con lo sviluppo dell’attività traduttiva e della produzione in lingua antico inglese sfociata nel piano culturale di Alfredo il Grande.
L’arte della miniatura testimonia la capacità di fondere stilemi dell’iconografia cristiana orientale e del mondo pagano, così come la teologia antiochena e la sua esegesi costituiranno un alveo nel quale potranno scorrere gli sviluppi pragmatico empirici della scolastica inglese tardomedievale. La mano anonima che su una delle pagine delle lettere di Alcuino, il grande architetto della riforma culturale carolingia, ha vergato un verso a testimonianza dell’ascolto di antiche storie dimostra che, se la pur ovvia presenza della Chiesa romana potrebbe far pensare ad un naturale sviluppo, le modalità di ricezione e la presenza di oggetti materiali ci parlano di una originale affinità e accoglienza di contenuti in terra inglese e di una rielaborazione creativa di grande visione.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Ascolta, io [ho udito] storie molto antiche. Questa nota vergata dalla mano di uno scriba appare sulla pagina di un manoscritto della raccolta di lettere di Alcuino di York. Appare molto simile a un verso tratto dal poema Beowulf (ealfela ealdgesegena: antiche leggende di ogni tipo; Beowulf, a cura di G. Brunetti, Carocci, Roma: 143, vv: 869-70) e testimonia il sostrato pagano della cultura anglosassone e della sua modalità sincretica di ricezione e inculturazione.
[2] Trad. it., Beda, Storia degli Inglesi, a cura di M. Lapidge, 2 voll, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano, 2008
[3] Storia degli Inglesi, vol. 1, cit.: 179.
[4] Sulla storia, composizione e struttura si vedano: J. J. G. Alexander, Insular Manuscripts, 6th to the 9th Century, Survey of Manuscripts Illuminated in the British Isles, Vol 1, London, 1978 e F. Wormald, The Miniatures in the Gospels of St Augustine, Cambridge University Press, Cambridge 1954.
[5] C. De Hamel, Meetings with remarkable Manuscripts, Allen Lane, London 2016: 33-36.
[6] Storia degli Inglesi, vol. 2, cit.: 15.
[7] Sulla figura e opera di Teodoro si veda per una breve sintesi la voce Theodore in The Blackwell Encyclopaedia of Anglo-Saxon England, ed. Michael Lapidge, Blackwell, Oxford 2008: 444-446. Per una disamina approfondita di aspetti particolari i capitoli 3, 4, 5 contenuti in M. Lapidge, Anglo-Latin Literature 600-899, The Hambledon Press, London 1996: 123-168.
[8] M. Lapidge, Anglo-Latin Literature 600-899, cit.: 95-102.
[9] Storia degli Inglesi, vol. 2, cit.: 171-173.
[10] The Blackwell Encyclopaedia of Anglo-Saxon England, cit.: 446.
[11] Sul sito archeologico, la storia della scoperta e un catalogo ragionato dei reperti si veda: A. C. Evans, The Sutton Hoo Ship Burial, The British Museum Press, London, 1986.
[12] Per una analisi dettagliata si consulti: C.E. Blunt, M. Dolley. A.E. Werner, R. M. Organ, A gold Coin of the Time of Offa, in The Numismatic Chronicle, vol 8, Royal Numismatic Society, London 1968: 151-160.
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Alessandro Perduca, anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca, si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).
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