Mare di nascita e di morte
Il Mediterraneo, culla della nostra civiltà, oggi è un’enorme tomba che custodisce i corpi di decine di migliaia di naufraghi e migranti affogati. La sua tragica storia è sintetizzata, con la forza straordinaria che solo la poesia sa esprimere, da Apollonio Rodio nei pochi versi delle sue Argonautiche nei quali riassume la storia del fugace incontro tra Afrodite, la Nata dal mare, e Bute, il Morto nel mare. Pascal Quignard, scrittore e saggista francese, riprende questi versi e ne fa il motivo conduttore di un piccolo ma straordinario libro, dal titolo Bute (Quignard, 2008). Dalla fine del periodo miceneo correva la leggenda di un’isola misteriosa sulle cui rive perivano i marinai attirati dal canto degli uccelli. Si raccontava che i naviganti, giunti all’altezza di queste coste, si facessero riempire le orecchie di cera per non essere portati fuori rotta e morire. Perfino Orfeo il musico non volle ascoltare quel canto continuo. Ulisse per primo ebbe il desiderio di ascoltarlo. Prese la precauzione di farsi legare mani e piedi all’albero maestro della nave. Solo l’argonauta Bute saltò (ivi: 14).
Lo fece per il suo ardente desiderio di ascoltare il canto proveniente dalle profondità marine, quello delle Sirene. Lascia il suo banco di rematore, sale sul ponte della nave, si butta in mare, nuota attraverso i flutti ribollenti, sta già per raggiungere l’isola che canta quando vede sopraggiungere l’istante della morte. Apollonio scrive: già gli uccelli stavano per impedirgli il ritorno, quando viene soccorso da Cipride, l’Afrodite delle onde, il cui nome è aperto da aphrós, che designa la schiuma, che lo strappa alle correnti. Bute si alza in volo nelle braccia di Cipride. È incollato a lei, la penetra, e dal suo sperma la dea partorirà un figlio che chiamò Erice, il quale divenne il signore del monte al quale i siciliani hanno dato il suo nome. Alla sua sommità il figlio fece edificare per la madre un tempio, il tempio di Afrodite Ericina:
«Quando Cipride ad altezza vertiginosa sull’isola di Sicilia stringendolo tra le braccia, lo getta di nuovo in mare. Ne fa il tuffatore del capo Lilibeo. Bute è il tuffatore. Occorre pensare Bute come quel tuffatore che si può vedere sul dorso di un sarcofago nel sotterraneo del piccolo museo di Paestum di fronte all’isola di Capri. Si rimane stupefatti nell’angolo dello scantinato, dietro la scala, nell’ombra e nel fresco, tanto il piccolo corpo nudo, netto, sessuato, scuro, pare determinato mentre si slancia verso il mar Tirreno e la morte» (Ivi: 12).
Dal momento di questo suo salto e dell’abbraccio salvifico di Cipride in poi la storia del Mediterraneo sarà inesorabilmente segnata da questo connubio tra nascita e morte. Il Mediterraneo oggi è diventato sempre più un mare di morte perché la nostra cultura, che si è dimenticata delle sue origini e le ha smarrite, non vuole il mare aperto, ne ha paura, perché teme di smarrirsi, di tuffarsi, di perdere il proprio malinteso e angusto senso di identità. La nostra vita è come una terra straniera per questo mare antico, la cui onda calda, nutriente, rassicurante, per i nostri remoti progenitori, non si arrestava mai.
Mediterraneo, culla della nostra civiltà
Pavel Florenskij, teologo, filosofo, matematico, critico d’arte, esperto di tecnologie, considerato per il suo geniale eclettismo una sorta di “Leonardo da Vinci russo”, nelle sue undici lezioni tenute nel 1909 presso l’Accademia teologica di Mosca (Florenskij, 1909) tradotte in italiano da Andrea Dezi e pubblicate da Mimesis in un volume da lui curato, uscito nel 2021 con il titolo Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale, si occupa della relazione tra il pensiero mitologico e la filosofia, enucleando quegli aspetti di continuità che caratterizzano non soltanto il nesso tra queste due espressioni della cultura, ma in generale l’intero cammino del pensiero dell’uomo, in tutte le sue manifestazioni e articolazioni, dalle sue origini a oggi. Con questa sua analisi egli sollecita l’uomo a una auto-riflessione condotta sul filo di una profonda esplorazione delle analogie e degli scarti tra i prodotti della sua attività creativa al fine di osservarsi nei molteplici percorsi compiuti nel corso della sua storia, per riflettersi così e riconoscersi nelle proprie risorse e possibilità.
Egli prende per questo avvio dalla mitologia e focalizza la propria attenzione sui suoi aspetti essenziali, che poi si sono ripresentati, e continuano a presentarsi, sia pure in forme diverse, nella filosofia e nella scienza, alla ricerca di quello che possiamo chiamare il comune dell’umano, da lui situato nelle operazioni del pensiero, nei loro confini e nelle loro relazioni reciproche. Alla base di queste ultime vi sono sempre l’affettività e le emozioni, quali lo stupore e la meraviglia, corredate dalla convinzione che la realtà non si riduca alle sue manifestazioni sensibili e dalla conseguente ricerca del significato profondo da attribuire alle cose.
Nell’acqua, nella terra, nel fuoco la coscienza mitologica, oltre a ciò che in essi è palese e si dà concretamente, coglieva anche qualcosa di completamente diverso, che la spingeva a ritenere che vi fossero compresenti il sensibile e il sovrasensibile, il visibile e l’invisibile, il fisico e il metafisico. Il visibile li ancorava alla terra, l’invisibile li spingeva, in maniera irresistibile, a volgere costantemente lo sguardo verso le stelle e il cielo, che doveva anch’esso essere abitato, non dall’uomo, ovviamente, ma da qualcosa d’altro e di diverso rispetto a esso. L’insopprimibile ricerca del perché di quello che si presentava ai loro occhi indusse gli uomini che concorsero alla nascita del pensiero mitologico a maturare la convinzione che a tutto ciò che accadeva sulla terra dovesse corrispondere qualcosa che si verificava lassù, nella volta celeste.
Per questo sentivano di vivere in un ambiente vasto, risultato della profonda unità di terra, cielo e mare, come dimostrava per loro il fatto che l’acqua, sotto forma di pioggia, viene dal cielo, è un dono del cielo, e si può pertanto intendere come il “cielo materializzato” che va a fecondare la terra. A chi si deve questo dono, grazie al quale si ha un continuo interscambio tra il cielo e la terra? In questa domanda, e in altre analoghe, e nelle risposte che venivano date a esse è contenuto il nucleo profondo che ci consente di capire non come siano nate le idee relative agli dèi, ma in cosa consista la realtà di questi ultimi per coloro che credono in essi e li venerano.
Ecco dunque come dovremo rappresentarci, più o meno, le antiche teofanie e la loro origine. La terra, il mare, il cielo, oltre alla loro apparenza fisica e concreta, sono l’espressione di una natura divina vivente, che viene pensata come unitaria, in quanto il mondo antico non conosceva la personalità individuale. Non esisteva, di conseguenza, l’unica limitazione in grado di distinguere l’integra unità degli dèi, ovvero di segnarne l’emergenza come atomi spirituali, individuali, monadi. Per l’antichità non esistevano, in sostanza, né gli dèi, né gli uomini. Esistevano piuttosto il divino e l’umano, l’uno come l’altro, a seconda della specifica rifrazione, dava luogo a un fantasma, a un’illusione d’individualità. Al mutare della rifrazione, del contesto di riferimento in cui questa natura veniva collocata e pensata, tutto si spostava, tutto poteva mescolarsi. Il mezzo, l’ambiente, diviene così simbolo vivente del dio, per cui il mare, ad esempio, non si risolve nello sciabordio delle onde, nei delfini, nella tempesta e in tutto ciò che in esso è contenuto, ma è una figura divina vivente, la cui incarnazione trae generalmente i suoi aspetti dal mezzo che le è attribuito, dal mare in questo caso, dal cielo o dalla terra negli altri.
Nella mitologia, frutto dell’apporto di tutti i popoli del bacino del Mediterraneo, tra i quali vi erano continui scambi economici, commerciali e culturali, nasce e si sviluppa quel nucleo originario a partire dal quale germoglierà la civiltà di cui siamo eredi. Gli elementi di fondo che lo caratterizzavano sono poi confluiti a Mileto, culla della filosofia greca nel VI secolo, e da lì sono giunti fino a noi.
In queste sue lezioni Florenskij si vale di quanto ha rivelato l’archeologia nell’arco dei tre decenni che vanno dalle prime scoperte di Schliemann a Troia, che risalgono agli anni settanta-ottanta del XIX secolo ai lavori di scavo a Delo, intrapresi da Homolle e Holleaux nel terzo anno del XX secolo, passando per le ricerche di Evans a Creta, iniziate nel primo anno del XX secolo. I risultati di questi scavi hanno ampliato gli orizzonti storici della scienza di ben tre millenni. L’archeologia ha infatti rivelato l’esistenza di più di venticinque secoli di cultura antica prima dell’inizio della filosofia a Mileto, dunque prima del VI sec. a. C. e questa rivelazione, sottolinea Florenskij, si è compiuta in maniera così vertiginosamente rapida che ancora non sappiamo come comportarci con la storia della filosofia. Ciò che si può comunque affermare con certezza è che quello che era considerato il terminus a quo della storia stessa si è rivelato il terminus ad quem di un percorso di quasi tremila anni.
A essere dilatato non è però soltanto il tempo:
«La civiltà cretese, misteriosa, plurivoca, densa di significati – «terra di antichi sacrifici umani e danze estatiche», dell’ascia doppia e delle liturgie di sangue, culla della cultura greca e di molteplici culti greci –, appare, stranamente, congruente per una moltitudine di piccoli tratti, non solo con l’Egitto, l’Elam, gli Assiro-babilonesi, ma anche, per quanto sorprendente, con le civiltà americane, dei Messicani e dei Maya» (Ivi: 58).
Florenskij concentra in particolare la sua attenzione sul mito della Madre-Terra, che è
«la Morte; e insieme la Vita. Genitrice e Distruttrice. Dal suo ampio grembo partorisce tutto ciò che è vivente; e tutto riaccoglie in esso. Produce i germogli della vita e insieme nasconde i suoi semi: questa divinità cosmica è la Natura-Afrodite, “l’ape con il suo miele e il suo pungiglione”. Nelle steppe scitiche, così come nella torrida India o nell’Ellade tragica, il culto delle divinità ctonie – non importa come venissero chiamate – sintetizza sempre “l’idea della nascita, beata, dalla Madre-Terra e quella della morte terribile, avente luogo, anch’essa, nelle profondità della Terra» (Ivi: 89).
Questa madre generatrice, nutrice e di nuovo distruttrice in un’unica persona, poteva assumere, se personificata, una sola forma: quella della donna. Nella fede degli antichi mancava del tutto l’idea di questo sdoppiamento della Terra, da un lato Morte e Distruttrice, dall’altro Amore e Genitrice. Essa era l’una e l’altra cosa, immediatamente. Sorridendo misteriosamente e dolcemente, con un eterno sorriso, la Terra era entrambe le cose: in una parola, essa era il Destino, la Necessità cosmica, il Tempo.
È interessante sottolineare che con il rilievo da lui dato al mito di una deità femminile, generatrice di nascita e di morte, promotrice del processo di rigenerazione, Florenskij ha anticipato di ben otto decenni i risultati delle ricerche dell’archeologa lituana Marija Gimbutas, la quale, attraverso un approccio interdisciplinare da lei denominato mitoarcheologia, ha rivoluzionato gli studi relativi alle origini della cultura europea, individuando una civiltà che dominò l’Europa per tutto il paleolitico ed il neolitico, e l’Europa mediterranea fino a gran parte dell’età del bronzo. Una cultura per millenni pacifica, con una struttura sociale egualitaria e matrilineare, legata ai cicli vitali della terra, un simbolismo religioso strettamente connesso al femminile, a cui poi è succeduta una cultura diversa, patriarcale, bellicosa, di matrice indoeuropea, sviluppatasi fino ai nostri giorni così come noi la conosciamo (Gimbutas, 1989).
Questa idea, anche per Florenskij, era alla base della visione religiosa e filosofica dei popoli portatori della cultura egea. Dai loro cimiteri sono emerse numerose statuette che raffigurano ciò che gli studiosi indicano come dea nuda. Le statuette esprimono l’idea specifica della donna in quanto genitrice: spesso esse risultano semplicemente abbozzate e ridotte all’essenziale e il limite estremo della semplificazione, a conferma dell’orientamento della rappresentazione simbolica all’azione, è dato da oggetti che riproducono soltanto i seni, dunque il puro atto della nascita e dell’allattamento, senza più alcuna allusione all’attività del pensiero.
I simboli sono spesso caratterizzati dal raddoppiamento: ne è un esempio significativo un vaso dalla forma particolare – rinvenuto non di rado nei cimiteri del cosiddetto “gruppo culturale ucraino” – cultura di Trypillia, regione del Nipro – convenzionalmente chiamato vaso doppio o vaso a forma di binocolo. È costituito da due calici separati, aventi la forma di iperboloididi rotazione, si pensi, grossomodo, a due rocchetti messi in verticale l’uno accanto all’altro. Nella parte superiore, i bordi dei calici sono uniti da un archetto Più in basso, tale elemento di connessione è costituito da un piccolo cilindro oppure da una piastrina variamente perforata (i fori, evidentemente, sono pensati per l’inserimento delle dita e dovevano quindi consentire di reggere il calice con una mano).
La proprietà che più colpisce in questi vasi è l’assenza del fondo: l’integrità dei bordi dimostra peraltro che questi oggetti fossero originariamente senza fondo. Il raddoppiamento, nei simboli religiosi, è segno di una speciale sacralità e si riferisce, in generale, alla pienezza della potenza creatrice, alla molteplicità del generato contenuta nella forza generatrice o, più semplicemente, all’insieme di una moltitudine. In questo senso, simboli affini al “vaso doppio” sono l’ascia doppia, il simbolo di Creta, il doppio maglio, il doppio fulmine, il doppio strato di grasso nella vittima sacrificale. Nella simbolica, il raddoppiamento significa in generale la pienezza della potenza creatrice, la molteplicità del generato contenuta nella forza generatrice o, più semplicemente, l’insieme di una moltitudine.
Nei misteri orfici due coppe (kratéres) e uno specchio sono simboli della caduta e della rinascita dell’anima. Bere dalla coppa dell’oblio è segno della perdizione: rivolgendo lo sguardo al mondo sensibile, riflesso nella conoscenza come in uno specchio, l’anima perde il ricordo del cielo: rapita, sedotta dalle forme del mondo, essa decade nei vincoli del corpo. Bevendo invece dall’altra coppa, l’anima si ristabilisce: le appare la promessa di una rinascita nella perduta beatitudine.
Il mito della Madre Terra, che rappresentava la forza produttiva della natura, è strettamente connesso a quello dell’Afrodite-Fato, legata essenzialmente al mare, concepito anch’esso come un grembo che genera la vita, nel quale viene accolta la forza fecondante del Padre Cielo. Afrodite, colei che nasce dalla spuma del mare, è in qualche modo l’anima del mare partoriente. In questi miti e in un gran numero di religioni pagane, Terra e Mare non possono venire disgiunte dalla rappresentazione del Cielo. Esso è lo sposo che si distende sopra la sua Terra-donna e la stringe nel suo abbraccio, così come l’acqua viene rappresentata come sole celeste che discende dal Cielo e feconda la Terra.
A Creta nasce in embrione e si sviluppa l’indissolubile tetrade tematica della religione greca che può essere determinata nel seguente modo: Creta, Zeus, il toro, il mare. Questa è la più antica concezione del principio originario di ogni essere e costituisce il livello più basso delle stratificazioni sulle quali, in seguito, germoglierà la filosofia greca. Creta è da sempre considerata il luogo di nascita di Zeus, il Padre-Zeus, il quale rappresentava la forza fecondante del cielo, in particolare del sole e della pioggia. Per quanto riguarda la Terra, non si può qui non ricordare come il nome Demetra (Demeter) alludesse già in qualche modo a Creta. La seconda parte del nome corrisponde chiaramente a Meter (= madre). La parte iniziale, tuttavia, non è De = Ge con la trasformazione di D in G, come è stato proposto in passato. Secondo Florenskii:
«essa deriva piuttosto dalla denominazione cretese dei “grani d’orzo”, ossia δηαί [dēaí] (cfr. l’ordinaria parola greca ζειά _[zeiá] = “grano o spelta non raffinata”; in Omero, un campo fecondo viene detto ζείδωρος [zeídōros], ossia “campo che dona spelta”). Demetra significa dunque “Madre granifera”. Secondo antiche testimonianze, i misteri di Demetra provenivano da Creta, dove si celebravano apertamente» (Ivi: 122).
Per quanto riguarda il rapporto tra Cielo e Mare l’ipotesi più accreditata dai filologi è che l’antico proto-Zeus e l’antico proto-Podeidone siano la stessa divinità. A questo riguardo Florenskij rammenta che il filologo tedesco Hermann Karl Usener, nel suo lavoro capitale sui nomi degli dèi (Usener, 1896) ha dimostrato che tali nomi sono nomi comuni, generali; essi non indicano in alcun modo delle divinità particolari, determinabili secondo funzioni rigorosamente definite.
È in questa natura del divino che troviamo il germe della successiva dottrina dell’elemento, dottrina che a sua volta darà origine al concetto di sostanza. Qui viene posto il problema – lasciato certo insoluto, tuttavia mai trascurato dalla filosofia antica – della relazione tra le cose singole e la sostanza generale. È così che veniva compreso nella religione antica il problema dell’ἓν καὶ πᾶν _[hèn kaì pân]: le “personalità” potevano scomporsi nelle loro parti costitutive, oppure fondersi in nuove combinazioni della chimica divina e umana. Il divino senza volto e senza personalità si mostrava in volti diversi, ora nell’uno, ora nell’altro. Ciò che in un caso è l’epiteto di un dio, in un altro diventa una divinità autonoma. Ciò che ora è un dio può divenire non più che una proprietà, una funzione, una qualità – un epiteto di un altro dio. Gli epiteti si ipostatizzano; le ipostasi ridiscendono al livello della mera aggettivazione.
Come detto, questi elementi che caratterizzavano la religione e il culto dell’antica Creta sono poi confluiti a Mileto, culla della filosofia greca nel VI secolo, e ne hanno costituito il nucleo fondante. Le testimonianze su un possibile legame tra Mileto e Creta sembrano convergere in maniera piuttosto coerente. Secondo antiche leggende, che hanno poi trovato conferma anche nei dati dell’archeologia delle religioni, la creazione di colonie cretesi risalirebbe addirittura al tempo del potente re-talassocrate Minosse.
Per comprendere la vita culturale di Mileto è importante tener presente anche i rapporti di amicizia con i Fenici. A un’antichissima città fenicia, Biblo, veniva addirittura riconosciuta un’affinità genetica con Mileto. Appare qui evidente il legame con le tradizioni che vedono nell’“iniziatore della filosofia”, in Talete, il discendente milesio di una stirpe fenicia ellenizzata. Gli stessi Fenici, peraltro, in virtù di interessi propri, rivolti a Creta, erano divenuti strumenti di diffusione della cultura cretese.
Non stupisce che la città di Mileto, radicata nella cultura minoica, nutrita dall’humus fenicio, arricchita dal notevole afflusso di valori materiali e ideali (cultura materiale e spirituale) provenienti dal lontano Oriente e dal misterioso Egitto; una città oltretutto animata da una popolazione vivace, energica, capace di affrontare con coraggio e intraprendenza il mare, sia rapidamente fiorita arrivando presto a imporsi come fulcro del nascente pensiero filosofico.
Terminate le furiose lotte intestine tra i Greci (VIII-VII secolo), a metà del VI secolo), questa città appare come il più antico centro di convergenza delle popolazioni del luogo e il primissimo snodo marittimo. L’orlo ellenico – secondo l’espressione di Cicerone – tessuto intorno alle terre barbariche ha proprio in Mileto uno dei suoi principali nodi. Da Mileto si produssero almeno ottanta nuove colonie; non senza ragione, uno studioso fa riferimento a Mileto parlando di una “sfarzosa perla”, ove «batte pienamente, nella maniera più autentica, il polso dell’ellenismo». Qui ferve la vita; qui nascono, numerosi, i grandi uomini, i più eminenti artefici della cultura greca: poeti come Omero, Mimnermo, Anacreonte; i pittori Apelle e Parrasio; i logografi: Cadmo, Dionigi, Ellanico; gli storici: Ecateo, Erodoto, Dionigi; i filosofi Talete, Anassimandro, Anassimene, Senofane, Eraclito, Pitagora, Anassagora. Tutti erano di origine ionica.
La fonte dalla quale attingeva il proprio nutrimento l’anima dei milesi era il culto di Poseidone, vera e propria causa organizzatrice (modus formativus) della Ionia. Proprio per questa sua centralità non si può omettere di esaminarne la natura, partendo dal significato del nome. Lo si può incontrare in numerose varianti: Ποσειδάων, Ποσιδάων, Ποσιδήιον ἄλσος, Ποσειδῶν, Ποσειδέων, Ποσιδέων,_ _Ποσίδης,_ _Ποσείδης _[Poseidáōn, Posidáōn, Posidḗion álsos, Poseidō̂n, Poseidéōn, Posidéōn, Posídēs, Poseídēs], e infine l’eolico Ποσείδαν _[Poseídan], da Ποσειδάϝων _[Poseidáwōn]. Dobbiamo qui ricordare un fatto importante: la possibilità di variazione del nome di un dio dimostra, come si è già visto, che quel nome possiede ancora il carattere dell’epiteto, vale a dire che non è ancora un “nome proprio” stricto sensu.
Per la maggior parte dei mitologi, la prima parte del nome, Ποτει-, Ποτι- [Potei-, Poti-], non presenta alcuna difficoltà. Tutti concordano nel riconoscervi la stessa radice delle parole πότος [pótos] (ossia il bere, il simposio), ποτίζω _[potízō] (far bere), ποταμός _[potamós] (fiume): il legame con l’elemento umido della natura, con l’acqua, appare perfettamente evidente.
Cosa significa la seconda parte del nome? Secondo un’espressione di Eschilo, Poseidone non è altro che uno Ζεὺς ἐνάλιος _[Zeùs enálios] ossia uno Zeus marino, per cui questa seconda parte andrebbe ricondotta a Δάν, Δάς _[Dán, Dás], ossia a Zeus. Poseidone si determina dunque come lo “Zeus dell’acqua dolce”, ovvero come uno “Zeus di ciò che si può bere”.
Questo dio del mare ha pertanto una natura duplice: quella celeste, atmosferica, zeusiana, accanto a quella acquatica e marina. Aspetti non difficili da accostare e integrare, dal momento che l’acqua, sotto forma di pioggia, viene dal cielo, è un dono del cielo, e si può pertanto intendere come il “cielo materializzato” che va a fecondare la Terra. E che cosa la porta laggiù? il Temporale.
Ed ecco spiegato anche il significato dei simboli doppi di Creta, l’ascia doppia (o il doppio maglio) e le folgori. È più che ragionevole supporre che se queste ultime indicavano il potere sul lampo, la doppia ascia alludesse al potere sul tuono. «Il lampo illumina. Ma il tuono percuote». Gli antichi pensavano che il tuono colpisse, percuotesse: e il colpo del tuono, sia per il suono, sia per l’azione, rivela una particolare somiglianza con il colpo dell’ascia e del maglio. In un modo o nell’altro, l’ascia doppia è un attributo del dio dei fenomeni atmosferici, del Padre-Cielo, del Tonante, di Zeus.
Il tuono è strettamente legato all’acqua. Nell’ascia doppia, simbolo del tuono, possiamo allora scorgere, attraverso un’associazione per contiguità, il simbolo della pioggia che viene dal cielo – e quindi, semplicemente, il simbolo dell’acqua. Dunque, nei luoghi in cui l’acqua non era un elemento di primaria importanza, Zeus, il dio temporalesco e atmosferico, non separava da sé la propria funzione acquatica: ad Atene, sotto lo Zeus di Fidia compariva persino l’iscrizione “ὕει” [hýei] (“fa piovere”). Laddove invece l’acqua era tutto, la natura acquorea dell’antico dio aero-acquatico affiorava in primo piano: sorgeva allora, in maniera esplicita, un dio acquatico, tendente alla concentrazione nel mare e nelle sorgenti d’acqua.
Ciò che, in particolare, Florenskij mira a evidenziare è come, dal sottosuolo della Naturphilosophie ionica, emergano i tratti vaghi di uno dei più importanti concetti della filosofia: il concetto di sostanza, e più specificamente, di materia. Dalle stesse idee religiose affiora, a suo modo di vedere, un secondo concetto fondamentale della filosofia: il concetto di essenza, di legge. Il filo di Arianna che orienta e guida la sua ricostruzione può essere così sintetizzato: l’idea della divinità genera il concetto di sostanza; l’idea della preghiera, a sua volta riconducibile all’idea del nome (giacché la preghiera non è altro che il nome dispiegato), genera il concetto della legge, dell’essenza e via dicendo. Il dio e il suo nome: ecco in effetti il germe, ab origine dualistico, dal quale si svilupperà in seguito la filosofia. Questo dualismo, secondo lui, persiste, ancora esiste e tende a restare tale, basta pensare, per esempio al contenuto e alla forma dell’esperienza in Kant, essendo superabile solo nell’esperienza mistica, ossia in un ritorno al vissuto religioso dal quale è scaturito.
Poseidone, similmente agli altri dèi, viene rappresentato a volte come sostanza, strettamente legato all’acqua, a volte come ipostasi, non come personalità che, come si è visto, gli antichi non conoscevano, bensì come persona, che vive nel mare ma non può essere identificato con esso, in quanto ci sono momenti nei quali egli è parte del mare ed altri in cui è invece il mare a essere sua parte. Lo si comprende bene se si tiene conto del fatto che egli, come tutti gli altri dèi, era parte di un’esperienza vissuta collettiva e profondamente sentita e condivisa, e costituiva a tutti gli effetti una realtà basata sulla specifica esperienza che ha luogo nel momento in cui questa realtà si manifesta alla coscienza.
Quando un greco guardava il mare, per un verso quello che vedeva non era nient’altro che un’imponente massa d’acqua; per l’altro però c’erano delle circostanze particolari nelle quali sentiva una presenza divina, diversa dal mare e da tutto ciò che era contenuto in esso, momenti di teofania, di apparizione della divinità, in cui effettivamente avvertiva l’apparizione della divinità. La questione della teofania non può non essere posta quando si parla di filosofia della religione, in quanto, al di fuori di essa, non si potrebbe neppure parlare di religione e della sua filosofia. Si può pertanto dire che nel modo in cui viene posta e affrontata tale questione sia contenuto il nucleo più profondo di questa filosofia, il cui compito specifico sta prima di tutto nel chiarire non come siano nate le idee relative agli dèi, ma in cosa consista la realtà di questi ultimi per coloro che credono in essi e li venerano, per cui un pensiero orientato in questa direzione si deve porre, come compito prioritario e fondamentale, quello di spiegare in che senso gli dei sono reali.
La contemporaneità del passato remoto della mitologia e della filosofia
Nella lettera dal gulag a sua figlia Ol’ga del 22 novembre 1936, poco più di un anno prima che venisse ucciso con un colpo di pistola alla nuca in un bosco nei pressi di Leningrado, Pavel Florenskij scrive: «Il passato non è passato, ma si conserva eternamente da qualche parte, in qualche modo, e continua a essere reale e ad agire» (Florenskij 2024: 545). Ne consegue che non si può ridurre la memoria a un archivio di ricordi, a qualcosa di compiuto, chiuso e risolto nella dimensione di ciò che è stato e non è più, ma bisogna saperla guardare in profondità, come il tralucere e l’incarnarsi del “qui” e “ora” in un processo di lunga durata che si rivela come infinitamente più significativo della sua mera empiricità, nel quale il passato vive dentro di noi, è ciò che viviamo, respiriamo, di cui ci nutriamo senza accorgercene, perché da esso siamo costantemente abbracciati e sostenuti.
Questa incidenza inavvertita del passato, anche remoto, nel nostro presente era stata in qualche modo già intuita da Aristotele, come emerge da un passo straordinario della sua Fisica: «La steresis, la privazione, è come una forma» (eidos ti, Phys. 193b, 19-20). Si tratta dell’essenza della potenza, di quel campo di forze teso fra potenza e impotenza che attende il battesimo della propria realizzazione e che, una volta prodottosi, getterà una sorta di luce retrospettiva sul proprio passato, creando l’illusione di essere sempre stato presente “da qualche parte”, appunto, sotto forma di possibile. In questo passo è contenuta in nuce l’idea della comparsa di potenziali inespressi che, pur in presenza dei vincoli che ne condizionano sia la struttura interna, sia la relazione con l’ambiente, rendono la persona un sistema costantemente sul punto di sfasarsi e di aprirsi alle opportunità compatibili con la presenza dei vincoli suddetti.
Questa idea di Florenskij è oggi solidamente corroborata dalle neuroscienze. Uno degli aspetti di maggiore interesse che scaturisce dai risultati delle più recenti ricerche in questo campo è il carattere di metastabilità della persona, per definire il quale è necessario far ricorso a nozioni quali quella di energia potenziale di un sistema, di ordine e aumento dell’entropia, e che va considerata l’esito del fatto che «al di sotto del continuo e del discontinuo, sussiste il quantico e il complementare metastabile (il più-che-unità) che consiste nel vero e proprio preindividuale» (Simondon, 2005: 37).
Per capire in che cosa consista concretamente questo preindividuale occorre far riferimento a un recente saggio di Giorgio Vallortigara, Il pulcino di Kant (Vallortigara, 2023), che affronta questioni cruciali per la biologia, l’epistemologia e la psicologia. Il problema di fondo è cercare di capire come si formi e si sviluppi la capacità degli organismi di “far presa” sul mondo, fisico e sociale, in cui vivono, costruendo un processo conoscitivo che consenta loro di orientarsi e di muoversi e agire in conformità alla sua struttura. Attraverso una serie di esperimenti, rigorosamente condotti per esplorare i contenuti della mente allo stato nascente di piccoli vertebrati, soprattutto dei pulcini, approfittando del fenomeno dell’imprinting, l’autore si chiede se le risposte dell’empirismo possano essere considerate sufficienti per dare adeguatamente conto dell’origine dell’informazione, della sapienza che gli esseri viventi posseggono come equipaggiamento di base. In particolare, ciò che si propone di stabilire è se la disponibilità di quest’ultimo possa essere spiegata facendo riferimento ai soli dati sensoriali via via acquisiti e alle reazioni affettive, basate sul carattere edonico degli stimoli che giungono sulla superficie dell’organismo, sui suoi confini, che sono piacevoli o spiacevoli, e determinano le appropriate risposte comportamentali automatiche con le quali l’organismo reagisce a essi. La risposta è negativa:
«alla fin fine il problema con l’empirismo è che, molto semplicemente, ci sono a disposizione fin troppe associazioni possibili nel mondo, e senza un qualche genere di meccanismo istruttivo un organismo si ritroverebbe del tutto smarrito nell’infinita rete di potenziali nessi causali» (Ivi: 132).
I meccanismi da chiamare in causa per affrontare debitamente la questione delle «guide innate per l’apprendimento» sono quelli che si possono far risalire a una memoria profonda, che ha i tempi lunghi della storia naturale e non quelli brevi dello sviluppo individuale, che sono quindi a priori per l’individuo e a posteriori per la specie di appartenenza, che sono pertanto i risultati di un’esperienza acquisita lungo la scala temporale della storia filogenetica: e gli esperimenti operati e illustrati con esemplare chiarezza ci dicono di che natura siano. Si tratta della predisposizione fin dalla nascita a percepire gli oggetti come entità coese e continue, che si estendono nello spazio e permangono nel tempo; della capacità di distinguere oggetti possibili e impossibili; del principio per cui gli oggetti sensibili occupano lo spazio in modo esclusivo; dell’assunzione che la riflettanza di un oggetto non cambia con l’illuminazione, guida efficace all’apprendimento delle proprietà delle superfici visibili; dell’attitudine generale a cogliere le relazioni di uguaglianza o di differenza quali che siano gli oggetti; della sensibilità alle probabilità, in virtù della quale gli animali riescono nella poderosa impresa di cogliere in maniera spontanea la struttura probabilistica di una sequenza; di un senso innato della geometria, che precede e guida le nostre esperienza de navigazione nell’ambiente, idea che sarebbe piaciuta a Immanuel Kant e che spiega il titolo del saggio.
Dalla rigorosa analisi di Vallortigara consegue che il passato non si può separare dal presente e neppure dal futuro, perché è proprio
«sulla base delle precedenti esperienze, deve stimare il grado di novità dello stimolo e, per farlo, deve richiamare alla memoria i ricordi immagazzinati e poi elaborarli per un uso futuro, In secondo luogo deve utilizzare alcune proprietà dello stimolo, nonostante le variazioni in molte altre proprietà, per cercare di assegnarlo a una categoria, e quindi decidere quale tipo di risposta rapida, se del caso, debba essere fornita» (Ivi: 39).
Bisogna pertanto riuscire a coniugare due aspetti solo apparentemente inconciliabili: saper far bene il lavoro di routine, consolidando le tendenze ereditate dal patrimonio della storia dell’umanità e quelle in atto, e generando adattamenti a queste tendenze; e sapersi altresì nutrire della consapevolezza che queste tendenze si avvicinano sempre più al punto di rottura e che presto emergeranno altri equilibri, caratterizzati da logiche e da regole assai differenti, in ogni caso non riducibili a quelle del momento presente.
Si deve allora concludere che, per i sistemi viventi s’impone la necessità di essere articolati in una triplice dimensione temporale, con un saldo radicamento nel passato, un piede nel presente e un altro nel futuro e che la persona umana è un sistema complesso metastabile, caratterizzata da un perenne andare e venire tra le diverse dimensioni del tempo che la caratterizzano, che la rendono flessibile, capace di molte identificazioni e dunque di una continua metamorfosi. Questo rapporto tra vincoli e opportunità può essere esposto ipotizzando che ciascuno di noi possa muoversi seguendo una direzione e potendo in modo agente modificare il percorso. Egli si trova però all’interno di una tela di interazioni esterne che non può essere flessa o stirata oltre un certo limite, per cui lo scorrimento nella sua espressione statistica complessiva ha un andamento, il che non contrasta con il fatto che il singolo per mantenere coerenza abbia dei gradi di libertà, nell’ambito del vincolo direzionale globale.
A questo primo aspetto ne va aggiunto un secondo, che ha una portata epistemologica di enorme rilievo, quello che fa riferimento a ciò che chiamiamo “esperienza” che, secondo le neuroscienze, si forma e si struttura quando lo stimolo percepito dall’esterno non è più presente, quando entra in gioco l’impronta dell’universo interiore, talmente decisiva da far sì che il cervello parli soprattutto con sé stesso, come confermano le nuove tecniche grazie alle quali lo si può vedere mentre si attiva, in particolare una variante della Imaging a risonanza magnetica (MRI) – la MRI funzionale (fMRI) – che consente di realizzare esperimenti ben più completi della camera a positroni, di seguire l’attività del cervello secondo per secondo per ore:
«Nel bilancio energetico cerebrale, le risposte alle richieste del mondo esterno, le celebri catene stimolo-risposte care a Pavlov e ai comportamentisti, rappresentano appena il 2% del consumo della corteccia. Il resto corrisponde al mantenimento del nostro mondo interiore: i neuroni e le sinapsi che conservano i nostri ricordi e i nostri pensieri reconditi. È sufficiente contare le sinapsi in entrata e in uscita: persino nella corteccia visiva primaria, le fibre in ingresso provenienti dalla retina rappresentano meno del 10% delle sinapsi totali: il resto forma circuiti top-down, verso il basso o centrifughi, che rimandano verso le aree visive delle predizioni e se ne servono come se fosse uno schermo delle nostre immagini mentali» (Dehaene, 2022: 107).
Come scrive in proposito Deutsch:
«Consideriamo per esempio gli impulsi nervosi che giungono al cervello dagli organi di senso. Lungi dal fornire un accesso diretto e puro alla realtà, nemmeno loro sono esperiti per ciò che sono davvero, cioè scariche elettriche. Né, in genere, lì sentiamo accadere nel luogo dove avvengono, cioè il cervello: li collochiamo invece nella realtà esterna. Non vediamo semplicemente il colore blu, ma un cielo blu, lontano, lassù. Non proviamo genericamente dolore, ma abbiamo mal di testa o mal di pancia. Il cervello assegna interpretazioni come “testa”, “pancia” e “lassù” a eventi che in realtà avvengono dentro il cervello stesso. I nostri organi di senso, e tutte le interpretazioni che, in modo più o meno conscio, diamo dei dati che ci forniscono, sono notoriamente fallibili, come attestano la teoria della sfera e tutti i giochi di prestigio e le illusioni ottiche. Non percepiamo un bel niente come è in realtà. Tutto è interpretazione teorica: congettura» (Deutsch, 2011: 12).
Viene così ribadito che non è l’immagine dell’ambiente osservato a viaggiare dagli occhi verso il cervello, ma solo l’informazione relativa a eventuali discrepanze, a scarti, rispetto a quanto il cervello si attende. A essere rilevante, per la capacità di vedere, è dunque proprio lo scarto, strumento, al contempo, di esplorazione e di controllo, di raccordo tra il senso della realtà e il senso della possibilità, che fa emergere un altro possibile, operante, in continua tensione con l’esperienza e il vissuto, che segna una distanza in virtù della quale si resta sempre aperti all’altro e all’altrove.
Lo sguardo che scopre, lo sguardo che cura non è lo sguardo diretto, che pretende di andare dritto verso le cose, ma lo “sguardo attraverso”, che si caratterizza per quel “dia” che in greco esprime al tempo stesso lo scarto e l’attraversamento. Il perché ce lo spiega ancora una volta Pavel Florenski nelle sue riflessioni sul rapporto tra i due mondi che, a suo giudizio, costituiscono lo spazio complessivo in cui, per la sua natura anfibia, si svolge la vita dell’uomo, cioè quello visibile e quello invisibile, nelle quali egli prende avvio da una reinterpretazione del mito della caverna di Platone. Florenskij non condivide il significato usuale che gli viene attribuito, una metafora che si riferisce allo sforzo, da parte del prigioniero, di uscire dal luogo del buio chiuso in sé stesso in cui le cose smarriscono i contorni, alla chiara luce del sole e della Verità trascendente, in conformità a una visione per cui all’ascesa violenta verso la luce si contrappone il rischio di precipitare nell’abisso dell’ignoto. Per questo ne propone una lettura alternativa, basata sull’idea che all’invisibile e alla salvezza si possa accedere soltanto collocandosi in uno spazio intermedio tra l’oscurità e l’opacità della caverna e la piena luce che acceca, uno spazio in cui buio e luce convergono generando quella penombra primordiale in cui il vero si rivela in misura corrispondente alle capacità umane del momento. Se si è adeguatamente iniziati e attrezzati, la caverna così intesa è innanzitutto il luogo del passaggio dal fuori al dentro, dalla realtà esterna all’universo interiore, lo spazio che rappresenta la realtà del simbolo e dell’umano abitare e conoscere, la soglia che comprende, collega e unisce i due mondi in cui si svolge la nostra vita.
Il mito della caverna, secondo Florenskij, costituisce dunque il racconto del processo attraverso cui l’uomo tenta di collegare questi due mondi in cui vive attraverso una capacità transitiva che si realizza nello spazio di confine tra di essi, che per essere percepito adeguatamente richiede un’articolazione tra il visibile e l’invisibile che egli esprime con il termine skvoznoj, un concetto di luminosità interiore che Malcovati rende correttamente con “translucidità”, ovvero quel grado di trasparenza di un corpo che consente di distinguere approssimativamente la forma, ma non i contorni, di un oggetto posto dietro di esso, è la condizione tipica delle realtà di confine, vale a dire di tutto ciò che, pur essendo estraneo alla coscienza, è tuttavia capace di entrare in un qualche tipo di relazione con essa, dimostrata dal fatto che è comunque in grado di far risuonare e produrre significati al suo interno, anche se, ovviamente, non in modo immediato, in virtù di una trasparenza sempre disponibile, ma attraverso un prolungato lavorìo di scavo e di approfondimento. Per accedere all’invisibile, occorre fare affidamento sul simbolo e sul suo residuo di opacità irriducibile, e non pensare di affidarsi alla trasparenza del segno: ecco perché la translucidità implica un “vedere attraverso” un mezzo, e non in modo diretto e privo di barriere e di scarti.
I propositi di rivitalizzazione del Mediterraneo
Nel nome di Giorgio La Pira, il cui invito a operare per la pace e l’unità dei popoli è stato richiamato a Bari da Papa Francesco, alla fine di febbraio del 2022 a Firenze si sono riuniti congiuntamente i Vescovi del Mediterraneo, invitati dalla CEI, e i Sindaci delle città che si affacciano su questo mare, invitati dal Sindaco di Firenze Dario Nardella, anch’essi ispirandosi alle iniziative del Sindaco La Pira per studiare e lavorare per la pace, la giustizia e la convivenza fraterna nelle loro città. Al termine dell’incontro, sabato 23 febbraio, è stata firmata dagli uni e dagli altri a Palazzo Vecchio la “Carta di Firenze”, «un raggio di luce nell’ora più buia», come l’ha definita il cardinale Bassetti nel suo discorso conclusivo.
Dopo aver ricordato che «il Mediterraneo è stato storicamente il crocevia delle culture europee e dell’Asia occidentale, dell’emisfero settentrionale e meridionale» e che «può ricoprire un ruolo cruciale per la pace e lo sviluppo delle nazioni attraverso la cooperazione tra le sue città e le sue comunità religiose», e che per questo esso «non può e non vuole essere luogo di conflitto fra forze esterne», i firmatari della Carta riconoscono, tra l’altro,
- «la necessità di sviluppare maggiori opportunità di dialogo e di incontro costruttivo tra le diverse tradizioni culturali e religiose presenti nelle nostre comunità, al fine di rafforzare i legami di fraternità che esistono nella nostra regione»;
- «la forte connessione esistente tra flussi migratori e cambiamento climatico, che colpisce in maniera accentuata il Mar Mediterraneo: fenomeni come la desertificazione, la deforestazione, il degrado del suolo stanno potenzialmente esponendo miliardi di persone a spostamenti di massa e migrazioni»;
- «l’importanza del rafforzamento delle relazioni interculturali e interreligiose, al fine di raggiungere un livello più elevato di comprensione reciproca tra individui di diversa origine, lingua, cultura e credo religioso; mentre si impegnano a promuovere progetti concreti di inclusione culturale, religiosa, sociale ed economica».
Sulla base di queste premesse invocano:
- «che i governi di tutti i Paesi mediterranei stabiliscano una consultazione regolare con i Sindaci, con tutti i competenti rappresentanti delle comunità religiose, degli enti locali, delle istituzioni culturali, delle università e della società civile sulle questioni discusse in questa Conferenza. Le città rivendicano il loro diritto a partecipare alle decisioni che influiscono sul loro futuro;
- Governi, Sindaci e Rappresentanti delle comunità religiose a promuovere programmi educativi a tutti i livelli – un cammino che integra gli approcci antropologici, comunicativi, culturali, economici, politici, generazionali, interreligiosi, pedagogici e sociali per realizzare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente;
- Governi, Sindaci e Rappresentanti delle comunità religiose a promuovere iniziative condivise per il rafforzamento della fraternità e della libertà religiosa nelle città, per la difesa della dignità umana dei migranti e per il progresso della pace in tutti i paesi del Mediterraneo;
- Sindaci e Rappresentanti delle comunità religiose, a dialogare e mobilitare risorse per uno sviluppo sociale ed economico sostenibile a favore della cooperazione internazionale, del dialogo interculturale e interreligioso, del rispetto di ogni individuo attraverso una più equa condivisione delle risorse economiche e naturali;
- Sindaci a discutere ed esplorare ciò che idealmente tiene insieme oggi una società civile e come i contesti contemporanei integrano tradizioni religiose ed espressioni culturali;
- Rappresentanti delle comunità religiose, a esplorare come possano interagire tra loro e con i rappresentanti dei governi municipali e dei leader civici al fine di comprendere le cause e le ragioni della violenza e, quindi, lavorare insieme per eliminarla;
- che i governi adottino regole certe e condivise per proteggere l’ecosistema mediterraneo al fine di promuovere una cultura circolare del Mediterraneo in armonia con la natura e con la nostra storia».
A dimostrazione del fatto che iniziative come questa non sono solo un sogno ci sono i progetti di straordinaria importanza scientifica che riguardano l’intera area del Mediterraneo e la Sardegna: il progetto internazionale Einstein Telescope, nell’area dell’ex miniera di Sos Enattos, nel comune di Lula, che aprirà una finestra del tutto inedita sull’universo, arrivando a rilevare i segnali della sua stessa origine, con importanti benefici per il territorio sardo, oltre che per l’intero tessuto economico dell’Italia; e un secondo “occhio tecnologico” che si sta preparando in Sicilia, Km3Net, il telescopio per neutrini, le particelle più elusive dell’Universo, in fase di realizzazione a 3500 metri di profondità al largo delle coste di Capo Passero per scrutare alcuni degli eventi più portentosi del Cosmo.
Pensiero conclusivo
Le riflessioni che sono state proposte qui vogliono essere una sollecitazione a risvegliare e a far rivivere e valorizzare la “coscienza mediterranea” di cui siamo eredi, che è tuttora presente nel nostro universo interiore, ma rischia sempre più di venire smarrita.
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici
Dehaene, S. (2021), Face à face avec son cerveau, Odile Jacob, Paris, tr. it. Vedere la mente. Il cervello in 100 immagini, Raffaello Cortina, Milano 2022.
Deutsch, D. (2011), The beginning of infinity: explanations that transform the world. Allen Lane. London, tr. it. L’inizio dell’Infinito, spiegazioni che trasformano il mondo, Einaudi, Torino 2013.
Florenskij, P.A. (1909) Pervye šagi filosofii. Lekcii 1-11, in ID., Iz istorii antičnoj filosofii. čast’ II, pod obšč. red. igum. Andronika (Trubačeva), podg. teksta O.T. Ermišina, Akademičeskij Proekt, Moskva 2015: 173-346, tr. it. e a cura di A. Dezi, Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale, Mimesis, Milano-Udine 2021. L’edizione italiana raccoglie il manoscritto delle undici lezioni presentate agli studenti nel 1909 e un volumetto, organica elaborazione delle prime lezioni del corso, pubblicato con il titolo Pervye šagi filosofii nel 1917.
Florenskij, P.A. (2024), Vi penso sempre… Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di N. Valentini e L. Žak, Mondadori, Milano.
Gimbutas, M. (1989), The language of the Goddess, Unearthing the Hidden Symbols of Western Civilization, Harper & Row San Francisco, tr. it. Il linguaggio della Dea, Mito e culto della dea madre nell’Europa neolitica, Neri Pozza, Vicenza. Sull’importanza delle sue ricerche si veda Marija Gimbutas: Vent’anni di studi sulla Dea, a cura di Luciana Percovich, Atti del convegno in onore di Marija Gimbutas a venti anni dalla sua morte, Roma, maggio 2014, Progetto Editoriale Laima.
Malcovati, (1983) F., Vjačeslav Ivanov: Estetica e Filosofia, La Nuova Italia, Firenze.
Quignard, P., Boutès, éditions Galilée, Paris 2008, tr. it. a cura di A. Peduto, Bute, Analogon, Asti 2014.
G. Simondon, G. (2005), L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Editions Jérôme Millon, Grenoble, tr. it. a cura di G. Carrozzini, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione. Prefazione di J. Garelli, Mimesis, Milano-Udine, 2011.
Usener, H.K. (1896), Götternamen: Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Bonn; una sintesi dettagliata di questo lavoro la troviamo in S.N. Trubeckoj, Novaja teorija obrazovanija religioznych ponjatij [Nuova teoria della formazione dei concetti religiosi], in Sobranie sočinenij, Tipografija G. Lissnera i D. Sobko, Moskva T. II 1906: 439-574.
Vallortigara, G., (2023), Il pulcino di Kant, Adelphi, Milano.
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Silvano Tagliagambe, professore emerito di Filosofia della scienza dell’Università di Sassari, si è laureato in filosofia con Ludovico Geymonat e si è perfezionato in fisica all’università Lomonosov di Mosca. È stato professore di Filosofia della Scienza presso le Università di Cagliari, Pisa, Roma “La Sapienza” e Sassari. È direttore della collana “Eredità di Pavel Florenskij. Opere e studi” dell’editore Mimesis. Il 6 febbraio 2021 gli è stata conferita, di iniziativa del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
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