di Aldo Belvedere
831 d.C.
Gli arabi, popolo di agricoltori e commercianti nomadi, non costruttori stanziali, occupano la Sicilia provenienti da quel crocevia di civiltà che è il Mar Mediterraneo.
Di quel periodo storico, oggi restano alcune abitudini di vita quotidiana, espressioni popolari dove lo straniero proveniente dal sud è universalmente definito “turcu”, le colture di agrumi, la rete idrica sotterranea, i “quanat”, una preghiera universale scolpita sulla prima colonna di sinistra del porticato della cattedrale di Palermo, e pochissime tracce di edifici profondamente restaurati dai successivi occupanti dell’Isola, i Normanni.
Questi ultimi restaurarono le chiese divenute moschee, restituendole al rito cristiano, costruirono edifici dall’aspetto arabeggiante dato dall’utilizzo di manodopera già abile nei decori arabi e dal riuso di materiali di risulta dalle trasformazioni edili.
Di certo oggi, a parte gli oggetti in mostra al Museo di Arte Islamica presso il castello della Zisa, la presenza araba si respira fondamentalmente in quel che resta degli antichi suq arabi.
Il suq Al-buhariyya oggi Vucciria era sino al 1990 il mercato delle carni meno nobili, pesce e verdure; il suq Al-balhara oggi Ballarò era ed è il mercato delle carni più nobili, pesce e spezie; il suq Al-attarin oggi Lattarini era rinomato per le sue spezie.
C’è chi ancora in Sicilia si appassiona all’arte tipicamente araba dell’addomesticare i rapaci; e come non notare le fisionomie mediterranee, arabe, segno che la linea genetica è ancora viva nella popolazione dell’Isola .
Oggi Palermo, eletta proprio dagli arabi al loro insediamento capitale dell’Isola, a scapito della precedente Siracusa , ha un suo visir, il professore Leo Luca Orlando, sindaco energico e determinato come solo un visir sa essere e deve essere in una città del sud.
Un’antica diceria parla dei Riavuli ra’ Zisa, i Diavoli della Zisa. Di sicuro un burlone normanno o arabo-palermitano decorò il soffitto dell’ingresso della Zisa con figure di diavoli (gli arabi non raffigurano forme umane nelle decorazioni) che leggenda vuole impossibili da contare, ad ogni tentativo pare il loro numero sia sempre diverso: ne ho incontrato uno proprio al suq Al-buhariyya, sì alla Vucciria, ironico ed irriverente spettatore di quel che oggi si chiama democrazia partecipata.
2018 d.C.
Il sud del Mediterraneo ancora oggi – e come potrebbe essere diversamente – approda in Sicilia, terra d’Europa, con tutti i mezzi, legali e non, in cerca di miglior vita, in fuga da crisi economiche, carestie, guerre, sfruttamento, come tutte le ondate migratorie che la Terra ha vissuto, portando con sé il bene e il male delle umane vicende e comunque contribuendo con la mescolanza di culture all’arricchimento e alla conoscenza.
In Sicilia si riaprono tanti luoghi del cuscus, dell’hennè, molte strade hanno i nomi scritti anche in arabo; attorno a Ballarò quartieri dove al telefonino si parla tunisino, ed è solo per questo e per le scarpe col tallone piegato che si distingue l’immigrato da Sfax, o da Kairouan, o da Bou Saada, El Oued e Biskra dall’indigeno dell’Albergheria, della Kalsa e del Capo. Poi gli stessi vestiti, le stesse difficoltà a guadagnarsi la giornata, le stesse bottiglie di birra, anestetico di tutti i dolori.
Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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Aldo Belvedere, vive opera tra Palermo e Bruxelles, fotografo dal 1975, dal 1983 è professionista indipendente. Oltre all’attività di ricerca personale, si occupa di creazione visiva per privati, imprese siciliane ed estere, istituzioni governative e culturali e molte tra le foto realizzate nel corso degli anni sono state utilizzate da questi a corredo di pubblicazioni. Numerosissime le mostre personali e collettive, in Italia e all’estero.
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