di Ilaria Guidantoni
Il Mediterraneo e il femminile di queste parti è un filo conduttore nell’arte di Roberta Conigliaro, scultrice siracusana trapiantata a Roma dove vive da molti anni, ma con lo sguardo sempre rivolto al Sud. Una laurea in Psicologia che l’ha portata ad esercitare la professione per alcuni anni lavorando con pazienti psichiatrici, fino a quando non arriva, quasi per caso, la vocazione alla scultura: l’occasione è il regalo di un amico, della creta che, quando comincia ad impastare quasi come un gioco, capisce che è il suo elemento naturale. Gradualmente lascia la propria professione per abbracciare totalmente il nuovo mestiere. In seguito ad un corso sulla lavorazione del marmo a Carrara, comincia a produrre anche opere in pietra.
Quando l’ho conosciuta alcuni anni fa a Roma, mi hanno colpito le sue creature femminili, molte delle quali in terracotta, avvolte in vesti morbide, senza volto. Sono le creature del Mediterraneo, della tradizione che appartiene a entrambe le sponde, senza tempo, che si ritrovano nella tragedia greca – che a Siracusa rivive ogni anno nello spazio del teatro antico, come negli abiti e nello stile che accompagna la moda locale ancora oggi. Sono per lo più figure in cammino, migranti, che solo recentemente Roberta Conigliaro ha voluto contestualizzare in una cronaca a noi nota e in storie riconoscibili. In effetti, come spesso racconta, la sua ispirazione viene da lontano e sorge spontaneamente. Solo successivamente dà un nome a quello che crea, sculture di piccole dimensioni, disegni e alcuni versi, li razionalizza, per così dire.
Il suo approdo che è la partenza di un nuovo viaggio è la personale Due sponde un solo mare, un progetto più che una mostra, perché l’esposizione personale non rappresenta che la punta dell’iceberg di un mondo sommerso. La prima tappa di questo percorso si è svolta a Trapani nel mese di marzo al Museo regionale Agostino Pepoli, tempio dell’arte del corallo che unisce la Sicilia alla Tunisia e all’Algeria, in una storia di migrazioni, di pescatori, artigiani e artisti. Il debutto di primavera segna un momento importante per Roberta Conigliaro, la sua prima volta in un museo pubblico. Ma non solo. La mostra assume una connotazione sociale non solo per il significato delle opere quanto per un progetto dedicato ai non vedenti. Su idea del direttore del Museo Pepoli, Luigi Biondo, l’artista sposa, e decide di replicare nelle tappe successive, l’idea che la scultura possa essere vista anche non attraverso gli occhi. Quattro opere vengono così assicurate e rese disponibili per un viaggio sensoriale attraverso il tatto, mentre tutti i lavori hanno didascalie in Braille. Quest’esperienza diventa metafora dell’arte in grado di avvicinare persone che parlano linguaggi differenti ma che sanno ascoltare e avvicinarsi l’una all’altra. Le donne di Roberta si lasciano accarezzare da chi non può guardarle e tendono loro una mano, sulla scia dell’esperimento siciliano di Lampedusa del silent book: libri illustrati senza parola che fanno dialogare bambini che parlano idiomi differenti.
La seconda tappa del viaggio è nel luogo natio della scultrice, Siracusa, a Palazzo Montalto, nel cuore di Ortigia, dove dal 21 maggio al 5 giugno si è tenuta l’esposizione e la mostra è stata resa possibile grazie al Comune di Siracusa, al contributo del Rotary di Siracusa e dell’associazione Amici dell’Inda, oltre che alla collabo- razione dell’associazione Sicilia Turismo per Tutti, dell’Unione Italiana Ciechi di Siracusa e del Movimento Apostolico Ciechi. All’inaugurazione è stata presente anche l’associazione Accoglierete, attiva nella tutela dei minori non accompagnati sbarcati sulle coste siciliane.
Due continenti, l’Africa e l’Europa, uno di fronte all’altro, separati da una striscia di mare, il Mediterraneo, il “mare bianco di mezzo” secondo la definizione araba, sulle cui coste si affacciano diversi popoli, con differenti culture che nei secoli si sono scontrati ma anche mescolati, lasciandoci un patrimonio artistico che risente di queste reciproche influenze. Due coste, quella nordafricana e quella siciliana che si guardano: porto di partenza, l’una; terreno di approdo di popolazioni in fuga da guerre e povertà, che sognano una nuova vita, un nuovo inizio, l’altra. La costa sud, così vicina eppure, a volte, irraggiungibile e il viaggio si interrompe a metà strada. Giorno dopo giorno, un tratto di mare che diventa la culla sempre più grande di sogni naufragati. Il cammino segue le tracce di un viaggio di ritorno o comunque della memoria dell’emigrazione italiana prima che lo Stivale diventasse terra di immigrazione, in particolare ascoltando le storie dei siciliani che, nell’Ottocento e alcuni anche prima, partirono verso le coste africane.
Dallo sguardo puntato a lungo su questo orizzonte nasce il progetto di questa mostra della scultrice siracusana Roberta Conigliaro. Un insieme di “suggestioni ed immagini scolpite”, in pietra e terracotta, alle quali accostare alcuni testi – scritti durante la realizzazione delle opere – che accompagnino il percorso del visitatore. Una mostra che parla di speranze, di sogni infranti e, soprattutto, di incontri. Lo sguardo di chi si trova dalla parte della costa di approdo, quella costa così vicina al continente africano da poterlo quasi vedere. L’ispirazione – ci ha raccontato la Conigliaro – nasce da lontano, da un sogno, di bambina quando seduta sugli scogli di fronte a Siracusa, guardando il mare immaginava dall’altra parte la costa africana: del resto, come dice lo scrittore egiziano Ezzat el-Kamhawi, per un mediterraneo guardando il mare è impossibile non immaginarsi cosa c’è sull’altra riva.
Lo sguardo è rimasto comunque puntato verso un Altrove, con l’impegno ad andare oltre, un po’ più in là di quello che è familiare. Il mare che unisce e divide ad un tempo, creando contaminazioni tra genti diverse – non sempre facili ma foriere di arricchimento e di vita – e l’osservazione che nelle mani delle donne, nella loro capacità di accoglienza, c’è la chiave del dialogo, sono ispirazioni antiche nell’arte di quest’artista.
Prima di tornare al suo sud in modo consapevole, Roberta Conigliaro ha fatto tappa nel nord con una mostra importante su Antonia Pozzi, poetessa suicida a ventotto anni. L’esposizione, che si è tenuta a Milano nel novembre del 2013 presso l’Antico Oratorio della Passione adiacente la chiesa di Sant’Ambrogio, ha visto l’incontro fra la tradizione del sud, la Sicilia siracusana delle tragedie greche e la Milano del Novecento del Ventennio e i paesaggi manzoniani; la solidità sensibile di Roberta con la fragilità ribelle di Antonia, un incontro tutto al femminile.
Nelle fluttuazioni dei nostri due mondi così diversi – o forse dovrei dire dei tre mondi, visto che a me la scultrice ha chiesto un saggio introduttivo al catalogo per la mostra milanese – si snoda un sentire comune di instancabile ricerca che prova a mettere insieme l’emozione della natura, la cultura e il sentire intimo femminile. In questo incontro, in parte immaginario, con il fantasma di Antonia, c’è il fascino di misurarsi con linguaggi diversi, di fidarsi e affidarsi alla contaminazione, sinonimo di vita, ben oltre ogni teorizzazione sulla convergenza e unità delle arti. Inoltre c’è soprattutto l’incontro di due persone, l’emozione dell’ascolto nel senso più profondo e greco del termine, del leghein che è oltre che logos come parola e affermazione, raccogliere, accogliere, ascoltare appunto. E ancora, affiora la scoperta di appartenere, ognuna in modo irripetibile, a quel lago salato che ci cinge in un abbraccio ancestrale e che ha nome Mediterraneo. Non è forse un caso che leggendo l’opera omnia della Pozzi, sia Africa la composizione che più mi sia rimasta impressa. «Terra sei – è l’esordio – di chi affonda nella sabbia le mani» e leggendo questo verso è stato per me impossibile non pensare alla carnalità di una scultrice che ha cominciato lavorando la creta e forgiando così le sue figlie trasferendo un po’ di se stessa nelle sue creature femminili.
La stessa Antonia Pozzi era una ragazza ribelle, indomita, che voleva sperimentare la carnalità del pensiero e si immergeva nella natura e nella terra, senza risparmiarsi: era infatti scalatrice, grande osservatrice del paesaggio oltre che lettrice accanita. La sua passionalità nella vita è però come trattenuta nelle composizioni dallo stile di quegli anni dove alcuni arcaismi, un grande gusto estetico pur mai retorico, lasciano sfuggire schegge di passione senza mai rovesciarle sul lettore. In questo afflato mi ricordano le creature discrete e velate di Roberta, il suo pudore siculo, quello stile “Tutto perbene” per dirla con un’opera magnifica di Luigi Pirandello, dove basta un alito di vento, per far uscire il fuoco della passione da sotto il velo.
L’umiltà, la curiosità e una grande passionalità ed infaticabile ricerca di un altrove, che è soprattutto dentro di noi, senza rinunciare mai alla condivisione, credo siano caratteri che assimilano l’impegno di Roberta e quello della poetessa e di ogni intellettuale autentico. Già in precedenza Roberta aveva realizzato una mostra intitolata Pagine di diario, nel cui catalogo ad ogni scultura aveva abbinato un testo letterario, di poesia o di prosa a seconda delle opere. In quel caso però erano nate prima le sculture, e poi a queste erano stati associati dei testi che l’artista riteneva fossero vicini all’emozione delle sculture. In questo lavoro, invece, il processo è stato opposto. Più volte aveva pensato di lavorare partendo dal testo e ha scelto il lavoro della Pozzi, che ha conosciuto da alcuni anni e io con lei, recentemente. Le poesie di Antonia Pozzi l’hanno colpita subito, per quel misto di forza e fragilità, di innocenza e profondità, decidendo così di dar voce a una delle tante donne dimenticate. Roberta ha pensato che l’opera della poetessa, suicida giovanissima, in Italia ancora poco conosciuta, meritasse di essere celebrata. Dopo mesi di letture sul suo lavoro, ha scelto alcune poesie, una scelta non facile, sulla quale ci siamo confrontate per gioco. L’antologia è nata sì sull’onda delle emozioni ma anche su quanto sentiva di poter rappresentare da un punto di vista plastico.
Il titolo della mostra, Un’esile scia di silenzio è mutuato dalla poesia Novembre in cui Antonia scrive: «E poi / se accadrà ch’io me ne vada / resterà qualche cosa di me nel mio mondo / resterà un’esile scia di silenzio in mezzo alle voci / un tenue fiato di bianco in cuore all’azzurro». Al di là della scelta emozionale ed estetica, Roberta trova in questi versi la condensazione del suo intento con questa mostra. Certo, sembra un ossimoro per chi sceglie di scolpire utilizzando questa volta principalmente la pietra che di esile e impalpabile ha ben poco. Leggo quest’affermazione come un segno dell’umiltà e dell’impermanenza che l’artista sceglie per suggellare il proprio lavoro.
La scultura per Roberta, d’altra parte, è fatta di silenzio, sia per quel che riguarda il processo creativo, nella solitudine del suo studio nella campagna romana; sia per il silenzio che circonda le sculture e che l’ha sempre affascinata. Le sculture sono la scia di silenzio dell’artista, la sua eredità, come dice la Pozzi «ciò che rimarrà di me». Per quel che riguarda la scelta dei materiali, le opere sono per lo più in pietra, qualcuna in terracotta ed una sola in rete metallica: quest’ultima si discosta dalle altre come una sorta di installazione, una donna a dimensione naturale seduta su una sedia a leggere, una poesia appunto della Pozzi, la stessa poetessa o una lettrice, o forse la scultrice.
Il percorso si muove tra figure dalle linee estremamente pulite, semplificate, meno ancorate alla tradizione rispetto ai lavori precedenti, che fissandosi nella pietra si fanno paradossalmente più dinamiche e leggere in rapporto alle donne di terracotta che per tanto tempo Roberta ha plasmato. C’è una grande classicità in queste composizioni nel senso più alto del termine che ricorda la definizione di ‘classico’ dell’epistemologo tedesco Hans-Georg Gadamer in Verità e metodo. A ben riflettere, se l’arte risponde al gusto, l’immersione nella natura si rinnova nel piacere eternamente uguale, sia il mare con le sue rocce e la luce calda del sud o siano i paesaggi rupestri e le montagne del nord. Per questo il percorso espositivo milanese è allo stesso tempo nel segno della tradizione e di una grande modernità.
Se si visitano di seguito con lo sguardo le opere senza lasciare lo spazio alla sosta, alla riflessione meditata, l’impressione che se ne ricava è di struggente malinconia, sospesa e composta che tende a distendersi in una ricerca di quiete. È una sensazione difficile da spiegare, non resta che viverla e in questa empatia c’è un profondo accordo con i versi di Antonia Pozzi con i quali Roberta non cerca sovrapposizione, né si piega alla didascalia o pretende di esserne interprete. Cambia i titoli delle opere rispetto alle composizioni, ne coglie l’essenza e ce la restituisce nel suo vissuto unico di donna di oggi, senza alcuna filologia stucchevole; per distendere la parola nell’immagine metafisica di una forza e trasparenza interiore che distilla l’inquietudine contorta e qualche volta un po’ di maniera di Antonia Pozzi. Ballata a due voci per infinite emozioni, che siano due donne o due sponde. Il cammino prosegue e l’artista sta già lavorando alla terza tappa del suo progetto ma per ora non possiamo saperne di più.
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
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Ilaria Guidantoni, fiorentina di nascita, vive e lavora tra Roma, Milano e Tunisi. Giornalista e scrittrice, si dedica alla conoscenza e alla scoperta dei temi legati alla mediterraneità, in particolare si occupa del dialogo interreligioso e interculturale, dell’evoluzione del femminile, delle rivolte arabe e della cooperazione tra le due sponde. Laureatasi in Filosofia Teoretica all’Università Cattolica di Milano con una tesi sul filosofo Wladimir Jankélévitch, è autrice di diverse pubblicazioni. Nel 2015 sono usciti Il potere delle donne arabe (Mimesis editore) e Marsiglia-Algeri. Viaggio al chiaro di luna, un reportage sull’attualità algerina (Albeggi edizioni). È da poco in libreria Lettera a un mare chiuso per una società aperta (Albeggi edizioni), una riflessione sui mutamenti in atto nell’area mediterranea attraverso le voci di diversi intellettuali.
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