di Nuccio Zicari
Duemila e quattrocento anni fa, Alcibiade diceva della Sicilia: «Colà le città brulicano di uomini, ma si tratta di miscugli di varie razze; ed è facile per loro cambiare cittadini e riceverne di estranei»[1]. Così cita lo storico ed etnologo Moses Finley.
È noto fin da tempi remoti quanto questa terra sia stata crocevia di culture, religioni, scambi fra popolazioni diverse, non sempre pacifici s’intende, ma che con gradualità hanno portato al progresso di una civiltà. Allora perché quest’attitudine oggi sembra essere dimenticata?
La risposta va ricercata nella crisi culturale, economica, sociale, in cui versa la società attuale. Malpractice governativa, inefficace gestione delle risorse economiche, disattenzione al bene comune e alle politiche d’istruzione e formazione giovanile sono alcune delle cause che hanno prodotto nel tempo come effetti, malcontento, sfiducia nelle istituzioni, povertà, uno stato di malessere e disagio generale.
Proprio su questo terreno fertile e malato hanno seminato e continuano a seminare, ai giorni nostri, i cosiddetti movimenti nazionalistici o sovranisti, apparentemente scomparsi dal secondo dopoguerra, ma rimasti solo in letargo in attesa di stagioni migliori. Non è un caso, infatti, che le grandi dittature del Novecento si siano palesate in momenti di gravi crisi economiche: è proprio in questi momenti d’insicurezza che l’autostima scende, e la ricerca per un leader forte da seguire e in cui ritrovare certezze e autorità si diffonde.
Il loro metodo, emulato su scala internazionale, è sempre lo stesso, sottile quanto subdolo. Consiste nel far leva sul clima di malessere diffuso per alimentare sentimenti insani di odio verso facili capri espiatori incapaci di difesa, i migranti per esempio, così da ottenere consenso politico su larga scala e allo stesso tempo spostare l’attenzione da quelli che sono i reali temi e problemi dello Stato, per incapacità di occuparsene e gestirli in nome del pubblico interesse.
Tutto ciò non fa altro che produrre un clima di emergenza contro un nemico inventato. Così i migranti diventano la minaccia numero uno da respingere, la causa della mancanza di posti di lavoro, il pericolo pubblico nelle strade, la fonte di contagio per malattie sconosciute, insomma soggetti da mettere alla gogna e da rispedire a casa loro senza porsi troppe domande.
Ed è appunto questo un altro enorme problema della società attuale, non ci si pone più alcuna domanda. Le moltitudini si limitano ad assorbire come spugne la valanga di informazioni fruibili dalle news e dai social-media in maniera istantanea, emozionale, senza dare tempo e modo alla ragione di discernere ciò che è vero, da ciò che è propaganda, errato o incompleto, e come automi si risponde con la stessa immediatezza provocando spesso danni irreparabili.
Il desiderio di approfondimento, la formulazione di un pensiero critico, di una libera opinione, sono oggi chimere di una umanità disimpegnata che vive ogni giorno una crisi della coscienza senza coscienza della crisi.
In questo periodo storico, pienissimo di contraddizioni, di odio sociale, di ostilità fomentata, risulta urgente allora parlare di Umanità.
Il mio lavoro “Humanity without borders” (Umanità Senza Confini), si pone dunque questo obiettivo. Si tratta di un reportage fotografico durato tre anni, dal 2015 al 2017, nel corso delle decine di sbarchi di migranti che hanno affollato l’hotspot di Porto Empedocle. In esso ho provato a dare testimonianza del lato umano colto in queste persone, persone non numeri, esseri umani tali e quali a noi ma che, a differenza nostra, spesso non hanno la libertà di scegliere che destino dare alla proprie vite. Il mio sguardo inizialmente scosso dalla tragedia declinata nelle sue forme più cruente, ha trovato la sua attenzione in ciò che succedeva poi, in quello che ai media non interessava perché non faceva notizia.
«La sospensione dell’approdo», così la definisce Gaetano Savatteri in uno dei testi dedicati al progetto, «l’attimo fuori dal dramma, il dettaglio che non racconta l’invasione, un lieve sospiro di sollievo, non ancora salvezza, non ancora speranza, ma il conforto di un breve attimo incerto di serenità prima di ripartire, prima di ricominciare».
Una forma di serenità nella tragedia, nata dalla consapevolezza che nulla di peggio di ciò che era passato poteva ormai accadere, una straordinaria capacità nel convivere col dramma e con la speranza di poter iniziare un nuovo percorso di vita.
Questo lavoro però non vuole descrivere solo l’umanità ritrovata nelle centinaia di uomini, donne, bambini, famiglie migranti, o negli innumerevoli volontari e organizzazioni che ogni giorno si impegnano a garantire l’arrivo dei primi aiuti; è un invito agli osservatori di queste immagini, alle loro coscienze, a riflettere e a risvegliare la loro umanità.
Andrea Camilleri, nel finale di Conversazione su Tiresia, parla di perdita di umanità, citando Primo Levi [2] e il rischio di «metamorfosi da uomo a non uomo» [3] in un’epoca dominata da egoismi e paure. Ma come possiamo oggi riappropriarci del nostro senso di umanità?
Nel Messaggio Urbi et Orbi, pronunciato il 25 dicembre 2018, Papa Francesco Jorge Mario Bergoglio ci suggerisce una via: «la salvezza passa attraverso l’amore, l’accoglienza, il rispetto per questa nostra povera umanità che tutti condividiamo in una grande varietà di etnie, di lingue, di culture, ma tutti fratelli!
Allora le nostre differenze non sono un danno o un pericolo, sono una ricchezza. Come per un artista che vuole fare un mosaico: è meglio avere a disposizione tessere di molti colori, piuttosto che di pochi!»[4].
E allora riusciamo davvero ad amare un prossimo che è diverso da noi?
Da qui si pone un altro tema molto delicato, quello dell’Accoglienza e dell’Integrazione.
«Un’errata cultura dell’integrazione inneggia inconsapevolmente all’omologazione. Tutti occidentali insomma», afferma Franco Carlisi in un altro dei testi in accompagnamento al mio lavoro. Abbracciando questo modus facendi il rischio è di porsi in una posizione di superiorità, tanto estremista quanto quelle che condanniamo e «che ci vorrebbe migliori dell’altro, chiunque esso sia», esclusivi portatori di civiltà.
Sarebbe auspicabile invece una forma di integrazione sostenibile, che assicuri l’unica vera modalità di convivenza possibile, basata nel riconoscimento reciproco delle altrui diversità in nome di un’unica identità, quella umana appunto.
Ma in questo processo che ruolo ha la fotografia?
La fotografia è testimone dei tempi, serve a rendere consapevoli, a far aprire gli occhi su quanto accade nel mondo, «serve a far conoscere le cose alla gente, a più gente possibile. A quelli che stanno lontani e non potrebbero essere testimoni dei fatti, a quelli che preferiscono ignorare quello che succede in luoghi lontani e a volte vicini.
Io te l’ho detto, te l’ho fatto vedere attraverso il mio sguardo, attraverso le mie fotografie, adesso non puoi più ignorare, non puoi dire non lo sapevo. E se non fai nulla per cambiare, allora sei complice».
Questo afferma Tony Gentile descrivendo il ruolo del fotogiornalismo oggi, nella denuncia dei fatti affinché inducano un moto di civile risentimento verso ciò che pensiamo sia sbagliato e che vorremmo cambiasse. «Una fotografia non è un’ideologia che stravolge le menti, è un seme: se sposta qualcosa lo fa piano, crescendo dentro chi la guarda» [5], così ci dice invece Paolo Pellegrin dell’agenzia Magnum. La fotografia è quindi uno strumento, come lo sono la scrittura, la poesia, l’arte, la musica. Essa usa le immagini come linguaggio per parlare alle menti, per far attecchire il seme della consapevolezza anche nel più arido dei terreni.
Ricominciamo a ragionare con le nostre menti, sviluppiamo un pensiero critico verso i fatti e le notizie, e forse ci riapproprieremo nuovamente di noi stessi senza che nessuno si arroghi il diritto di dirci cosa credere e chi odiare. Non dobbiamo temere di esprimere il nostro disappunto ad alta voce, nonostante ci vogliano far credere che sia inutile o superfluo.
Sono tante gocce a formare l’Oceano. Riflettere, dissentire, agire, significa riappropriarci della nostra umanità, e fare ognuno la propria parte di uomo tra gli uomini.
Dialoghi Mediterranei n. 37, maggio 2019
Note
[1] Bryan, William Jennings, The World’s Famous Orations, Funk and Wagnalls, New York, 1906
[2] Primo Levi, Se questo è un uomo, F. De Silva, Torino, 1947
[3] Andrea Camilleri, Conversazione su Tiresia, Sellerio editore, Palermo, 2019
[4] Papa Francesco Jorge Mario Bergoglio, Messaggio Urbi et Orbi del Santo Padre Francesco, Città del Vaticano, 2018
[5] Paolo Pellegrin, Intervista di Michele Smargiassi, in La Repubblica, 13 aprile 2015
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Nuccio Zicari, fin da principio manifesta la sua poliedricità di interessi associando gli studi medici a quelli artistici. Agli esordi si dedica alle arti figurative, dal disegno alla pittura, fino ad approdare alla fotografia che diventa il suo strumento di comunicazione più congeniale. Da autodidatta studia meticolosamente la Storia dell’Arte e della Fotografia e ne perfeziona gli aspetti tecnico-comunicativi durante la sua permanenza a Milano dove frequenta la Fondazione Internazionale per la Fotografia FORMA, la Nuova Accademia di Belle Arti NABA, l’Accademia di Fotografia JOHN KAVERDASH e la LEICA Akademie. Si confronta con molteplici soggetti e conosce vari autori che daranno un’impronta fondamentale nello sviluppo del suo stile e della sua personale visione fotografica. Il suo principale interesse è l’aspetto documentario della fotografia, che considera imprescindibile, sia nel racconto di storie brevi sia nei progetti a lungo termine. Il suo reportage fotografico Humanity without borders è stato incluso nel 2017 all’interno della “Italian Collection” del Premio Voglino, piattaforma che celebra ogni anno le più importanti storie fotografiche degli autori italiani.
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