di Tony Gentile
Faccio fotografie da sempre e sono riuscito a trasformare la mia passione in professione, e non è facile ai nostri giorni. Sebbene mi piaccia la fotografia in tutte le sue forme quel settore professionale che da sempre mi ha attratto e appassionato fortemente è il fotogiornalismo, in particolar modo la fotografia di attualità, quella che in gergo, noi fotogiornalisti di agenzia di stampa, chiamiamo la fotografia di news.
La fotografia che riempie quotidianamente le pagine dei vecchi giornali di carta e dei modernissimi giornali on line. La fotografia è sempre più democratica, come diceva la scrittrice Susan Sontag, alla portata di tutti, con l’avvento di smartphone e fotocamere digitali, ma soprattutto vista da tutti, da chi se ne occupa professionalmente ma anche, e soprattutto, da chi di fotografia non capisce nulla ma legge i giornali e conosce le storie anche attraverso le immagini e i fotoreportage provenienti da varie parti del mondo. Fotoreportage che raccontano di fatti e storie spesso ignorati dalla grande stampa, fatti e personaggi che a volte senza un buon fotografo/giornalista resterebbero sconosciuti e non avrebbero voce. Per questo amo ancora questo mestiere.
Alcune di queste immagini, a volte, travalicano il loro originale e semplice ruolo di documentazione e si trasformano, per fatti e cause molto spesso non dipendenti dalla volontà del fotografo, in qualcosa di più, in icone. La fotografia perde la sua forma bidimensionale e si converte da oggetto a concetto, prende vita in modo autonomo, rinasce pronta ad entrare nell’animo delle persone, a scuotere le coscienze.
Io di questo sono stato testimone con una mia fotografia che ha avuto l’onore di vivere una magica trasformazione diventando icona della legalità, dell’amicizia, della complicità, della possibilità, per un intero popolo, di ribellarsi all’oppressione della mafia.
Analoga sorte ha avuto recentemente un’altra fotografia, diventando icona di un dramma che quotidianamente si ripete nel Mediterraneo, la foto del piccolo Aylan disteso senza vita su una spiaggia turca e realizzata da Nilufer Demir.
In un momento storico in cui gran parte dei Paesi europei avevano lasciato sola l’Italia ad affrontare l’emergenza dell’immigrazione, proveniente dal Nord Africa e dal Medio Oriente, questa foto è riuscita a scuotere tutti, governanti compresi, e a costringerli ad aprirsi, anche loro, all’accoglienza, sebbene innescando innumerevoli problematiche non ancora risolte e che sembrano spingere l’Europa verso una deriva di intolleranza e razzista. È proprio degli ultimi giorni la notizia che in Austria il primo turno delle elezioni presidenziali ha sancito il trionfo dell’estrema destra.
Personalmente è dai primi anni ‘90 che mi sono occupato di immigrazione con i miei reportage. Vivendo a Palermo e collaborando con l’agenzia di stampa Reuters, spesso mi recavo a Lampedusa o in altre zone della Sicilia per “coprire” le varie ondate di emergenza immigrazione che ciclicamente si ripetevano sull’Isola. E anche dopo che mi sono trasferito a Roma ho continuato a seguire storie di immigrazione. Oltre la cronaca dei fatti ho sempre cercato di raccontare piccole storie capaci di aiutare il lettore a comprendere meglio il dramma di esseri umani che mettono a rischio la propria vita per attraversare il Mediterraneo. Il Mare Nostrum, un mare generoso ma anche assassino che negli anni ha inghiottito migliaia di uomini, donne e soprattutto bambini senza che noi lo sapessimo, senza che noi riuscissimo a sentire le loro grida di paura, mentre affogavano nelle stesse acque che avrebbero dovuto restituirgli la libertà.
Ho un ricordo chiaro dei fatti e delle persone che ho fotografato in questi anni, a cominciare da quella fune lanciata dagli uomini delle guardia costiera per agganciare una barca al largo di Lampedusa. Era il 1998. In quegli anni arrivavano sull’isola pelagica fino a dentro il porto, sotto lo sguardo, a volte indifferente, dei turisti che al pari dei “clandestini”, come eravamo abituati a chiamarli, affollavano l’isola.
Una notte, nell’albergo dove ero alloggiato, lo stesso dove erano ospitate le forze dell’ordine, sentii un gran movimento e pensai subito che doveva essere successo qualcosa di straordinario. Mi alzai e provai a capire cosa fosse successo. La polizia non mi diceva nulla, e allora con il motorino seguii le loro macchine e arrivando in aeroporto mi accorsi che gli immigrati, ospiti in quel momento nella vecchia struttura di accoglienza, avevano fatto scoppiare una rivolta incendiando i capannoni dove dormivano. Per pura fortuna non ci furono vittime.
Nel 2002 un altro grande sbarco si verificò a Catania, un gruppo di curdi arrivarono su una nave mercantile: piena zeppa di donne e bambini. E la foto di un ufficiale della polizia che porta in braccio un bimbo di pochi mesi si rivelò fondamentale per comprendere il dramma umano di queste famiglie.
Sempre nel 2002 realizzai una serie di ritratti di migranti ospiti di vari centri di accoglienza. L’idea era quella di raccontare le storie di questi uomini che io definivo “ultimi”, ma questo progetto non si concluse mai, anzi è sempre in continua evoluzione.
Gli sbarchi a Lampedusa non sono mai terminati e neanche le rivolte che di tanto intanto gli immigrati inscenano per denunciare le difficili condizioni di vita alle quali sono sottoposti.
Più recentemente mi sono imbattuto in storie di grande dolore, ma a volte anche storie di speranza. Come nel caso dei giovani migranti richiedenti asilo del CARA di Mineo: hanno fondato una squadra di calcio che negli ultimi anni ha sbaragliato tutti gli avversari per raggiungere la Promozione. Alcuni di loro, che continuo a seguire su Facebook, forse anche grazie al nostro servizio, oggi giocano con società semi-professionistiche in giro per l’Italia e qualcuno anche in Germania. (https://widerimage.reuters.com/story/sicilys-migrant-soccer-squad)
Ma non tutte le storie sono a lieto fine, spesso arrivando in Italia i loro sogni si spezzano di fronte alla drammatica realtà e sono costretti a vivere esperienze drammatiche, come gli immigrati che lavorano da anni nelle campagne pugliesi per la raccolta del pomodoro, in condizioni di vita disumane e sfruttati dai caporali.
Molti di loro invece non sono mai arrivati sulla nostra terra e hanno perso la vita durante l’attraversamento del Mediterraneo, magari asfissiati sul fondo di un barcone. Questa storia me l’ha raccontata Alpha, un 36enne della Sierra Leone, che nel Mediterraneo Assassino ha lasciato sua moglie, e madre della sua bellissima bambina Prosperin, morta soffocata dalla calca nella stiva di un barcone durante la traversata, senza che il suo uomo riuscisse a salvarla.
È proprio per raccontare il dramma degli innumerevoli uomini che ogni anno perdono la vita durante il viaggio della salvezza che ho realizzato un servizio fotografando gli oggetti ritrovati dalla polizia scientifica nelle tasche dei naufraghi. È stata un’esperienza molto forte, indagare tra le fotografie della polizia scientifica per cercare di trovare delle storie umane che valesse la pena raccontare non è stato semplice. Alla fine ognuna delle foto che ho realizzato, pur non raffigurando esseri viventi ma solo oggetti, racchiude in sè la vita di questi uomini e donne. Nelle loro tasche avevano tutto quello che possedevano, una foto di un familiare, le medicine, un telefonino con i numeri dei loro cari, i soldi necessari per attraversare l’Europa e per raggiungere amici e parenti più fortunati. Insomma still-life, nature morte per raccontare la vita perduta.
(https://widerimage.reuters.com/story/traces-of-migrants-unfinished-journeys
Tornando alla foto del piccolo Aylan che ha fatto svegliare le coscienze sopite di molti, mi viene in mente una frase del noto fotografo e attento scrittore Ferdinando Scianna, il quale, durante un incontro in cui si parlava di foto-icone, ha detto «L’icona, quasi sempre, è un’immagine che rimanda ad un’altra immagine, cioè, che noi più che vedere riconosciamo». Io non so a quale immagine nota si sia ispirata inconsciamente la fotografa Nilüfer Demir quando ha realizzato questo scatto, ma so per certo che immagini come questa non vorrei più vederne.
Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
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Tony Gentile, dopo aver collaborato nel 1989 con il Giornale di Sicilia e con l’agenzia Fotogiornalistica Sintesi, grazie alla quale, già nei primi anni di lavoro, ha pubblicato le sue foto sui maggiori quotidiani e periodici nazionali ed internazionali, nel 1992 ha cominciato una collaborazione con l’agenzia di stampa Internazionale Reuters che lo porterà a diventare staff-photographer nel 2003 trasferendosi a Roma. Per la Reuters oggi segue i maggiori fatti di attualità di interesse internazionale, tra cui i viaggi internazionali dei Papi e grandi avvenimenti sportivi come mondiali di calcio ed Olimpiadi. Ha ricevuto notevoli riconoscimenti per la foto di Falcone e Borsellino sorridenti e recentemente ha pubblicato un libro per raccontare gli anni vissuti a Palermo durante la guerra di mafia degli anni ‘90 (La guerra, una storia siciliana, fotografie di Tony Gentile con un racconto di Davide Enia, ed Postcart, 2015)
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