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Il messaggio è lo stile. Postille per “Le sollecitudini” di Marco Ceriani

copertina-delle-sollecitudinidi Antonio Pane 

Sfogliando le pagine di Gianmorte violinista, l’ultima raccolta di poesia in versi di Marco Ceriani, vi ho sorpreso, sorpreso, una carte illustrée che l’autore mi aveva spedito anni addietro, sicuramente dopo il settembre 2014, quando il libro era apparso nella collezione «La Collana» di Stampa 2009, diretta da Maurizio Cucchi (nel timbro postale, il nitido «30.06» si prolunga in un’ombra che cela forse un «15» o un «16»): un articolo eccentrico, composto da un messaggio manoscritto che inaugurava nel verso una «forma più eroica di diffusione della poesia» (perseguita «a mezzo cartoline, flutti verde bottiglia, foderi a chiocciola di dadi o di intorti ‘annales’»), dandovi seguito, nel recto (fregiato dai tipi di Officina di Poesia che avevano a suo tempo offerto francescano asilo a primizie dello stesso Gianmorte violinista e di quelle Geosinclinali che ho qui su Dialoghi Mediterranei, nel numero 54 del marzo 2022, tentato invano d’avvicinare), con la stampa grigio-ombra di una breve quanto prodigiosa prosa poetica ora diventata, senza mutazioni e occupandolo per intero, il paragrafo conclusivo, Miller, del testo eponimo di Le sollecitudini (gli altri due sono intitolati, sempre in rito anglicano, Stiller e Twister) [1].

La nuova casa di questa gemma (costruita, secondo la Nota che la suggella, durante un decennio, «dal 2011 al 2021», e impressa nel settembre 2022 – a cura del poeta Eugenio De Signoribus, con una consonante quarta di copertina di Dario Bertini e con pregevoli incisioni di Riccardo Bucella e Andrea Guerra – per conto della benemerita Associazione Culturale «La Luna» che di Ceriani aveva adottato, nel 2016, la suite Gipsoludii) contempla 88 più o meno poetiche prose di varia estensione (agli estremi, le otto pagine di Idoli delle Cicladi e le cinque righe di Dettes), talvolta intercalate da versi veri e propri (in Ghiottone, Al sonetto in porticato della farfalla cavolaia, Paso doble, L’inverno, a K., La morte nella classe di K.) e distribuite in tre blocchi relativamente asimmetrici (il primo, NUPTIÆ BOHEMICARUM ne contiene 38; il secondo, È la premura fatta persona, scende a 14; il terzo, Come se le si affratellasse, risale a 36) preceduti da un prologo-esergo che ne dichiara la posta.

Indirizzato, nell’incipit, «Al lettore», l’insolito proemio ostende, come in una liturgia, nell’emblematica «K.», l’impronunciabile «nome dei nomi»; traccia l’itinerario di un libro attorto al labirintico filo dell’opera e della vita di Kafka [2] (e ai labirinti della sua città), a partire dal «Ka o Kra», sillabe che innescano il gioco con kavka, che «vale in cèco taccola», e Gracco, il cacciatore che «deriva il proprio nome | da gracculus, che in latino significa cornacchia»: tema che riaffiorerà nelle «beccate di una tal taccola» di Conte en bon hébreu, in Terzetto, dove troviamo una bilingue via di Praga (Celetná, Zeltnergasse) «cui una kavka ritorna, e vi si impania…», e, significativamente, nel conclusivo Fioretti, barche in secco: «Del tuo inadempierti in volo, taccola, prediligi solo le scempie: ad es. inalza per innalza, gracula per gracchia».

Il cimento grammaticale prosegue con l’evocazione del Cruccio del padre di famiglia (di cui si riproduce e discute il passo iniziale sul termine Odradek, rimarcandone lo «stile notarile», ossia il «linguaggio procedurale della vecchia Austria» intravisto da Ripellino nel Processo) [3], per passare al «libro di S.» – crittografia che sarà parzialmente svelata in Paso doble («Credi, sarai tu parte lesa e peso che obera, Stach») e poi sciolta in La classe morta di K., con il nome di battesimo (Rainer), il titolo per esteso (Ist das Kafka? 99 Fundstücke) e la definizione di «monumentale biografia in tre volumi») –, e imbucarsi infine nel toponimo «Kleinseite», la malferma contrada di Malá Strana annessa alle divinazioni kafkiane, «in cui noi passeggiamo come in un palazzo | che sbadiglia a una finestra che dà sulla Kleinseite» (e a sua volta specchiata dal «peripatetico della Kleinseite, l’anacoreta familiarizzato soltanto con le ombre, il vigilante del Grosser Ring, il passante che bivaccava tra le statue della Karlsbrücke nei rendiconti della mezzanotte pura» di Lapidario arresto e dai «cornicioni dorati dei più aviti palazzi della Kleinseite» di Due allodole).

Bruegel Il vecchio, La strage degli innocenti

Bruegel Il vecchio, La strage degli innocenti

Sin dal vestibolo, dunque, l’opera abbraccia, con ‘l’autore degli autori’, l’atto stesso della scrittura (non a caso l’incipit del testo inaugurale, Armonia, recita: «Ahinoi! Ci sono i malati dell’inguaribile scrivere; e poi ci sono i veri scrittori»), delinea un paesaggio di alfabeti e di fatti culturali, un territorio di nomi originati da nomi, di reminiscenze e citazioni, di echi figurativi e musicali che gremiranno le pagine come le figure assiepate in certi quadri del Bruegel arieggiato, da «Vecchio», in Una scena così: una concentrazione, un coacervo di segni che talora si attenua, per dare spazio a note più schiettamente narrative, a ‘ore d’aria’ benedette a volte da un sapido registro comico (penso a testi come Felinità, Chi s’attregua, Una scena così, Discussione dei «defenestrati di P., La città di Ic, Il vitigno, La quête lupesca, Eligio, Una gita in montagna, La verruca, Il pagliericcio) [4].

La mappatura di un tale edificio (fatto di ambienti che annidano ambienti, di luoghi che, come quello disegnato in La città di Ic, tendono a «moltiplicarsi in maniera abominevole, al pari delle copule di Uqbar, di cui ci parla Borges nelle sue Ficciones», di motivi che rimbalzano di testo in testo [5]) richiederebbe un volume. A darne una pallida idea, si può intanto ricordare che il nume kafkiano vi calamita una fitta schiera di consanguinei, fra cui mi limiterò a trascegliere il suo prediletto Walser, che merita il finissimo dittico formato da Die Spärlichkeit e L.-B., H.-D. (sigle di low-born e high-dead), il Don Chisciotte di Hidalgo del digiuno e A cavaliere della Mancia [6], il Ripellino figurato nel «siciliano olivastro che sbattezzi il timone della tua carrozza-scarabeo» [7] di Conte en bon hébreu (e nello «stenografo di quella città di malie» di Terzetto), Jaroslav Seifert, onorato, mi spiega Ceriani, nel terzo pannello di Interiéry (Statuario bigliardo), dal nomignolo Jaroušek, e quindi ricordato, in Arroganza, per il «suo libro di prose Všecky krásy světa (Tutte le bellezze del mondo)» (fonte di varie digressioni praghesi delle Sollecitudini), l’onnipresente Shakespeare,[8] il Lope de Vega dei sonetti per Elena Osorio (in Die Spärlichkeit e Avec toutes les herbes de la saint Jean, che eredita il titolo dalla nota d’autore a Gianmorte Violinista), l’Apollinaire del dramma surrealista Les Mamelles de Tirésias (in Senso orario antiorario, con «i venti etesii che vanno intorno al bulbo del Municipio, come le mammelle a Tiresia»).

Rembrandt. Ritratto di Arnold Tolling

Rembrandt. Ritratto di Arnold Tolling

La dovizia di questi riferimenti è per così dire aggravata da un grado di ‘perversione’ in molti casi non facile da penetrare. Per dirne qualcosa, in Una scena così [9] Rembrandt è alluso (giocando con il van Rijn del suo nome completo) nell’«imbrattatele del Reno», nel suo «storcileggi» (verosimilmente ispirato ai ritratti dell’avvocato Tolling) e nel bue che vede «i suoi quarti luccicare» (esemplato, mi scrive il perfidioso autore, su Le Bœuf écorché «di cui parla Char in Contre une maison sèche», ma avvinto in sovrappiù al bue che «muggisce dalla gran piazza di Una vecchia pagina, uno degli esemplari racconti di Kafka, raccolti in Un medico di campagna»), ed è poi convocato, nel successivo Disappunto (dall’«esperto e noto in vivisezioni alla Tulp»), per la Lezione di anatomia del dottor Tulp (riletta ancora, in Scuse o…, dal «Rembrandt a colloquio con Tulp» e, in Descrizione della mia morte, dal «novello Tulp», il «perito settore» immerso «tra le intèrite viscere»), mentre «il traliccio, assenziente, quand’incede sui trampoli di quell’incisore tedesco» di Felinità sembra rinviare, con licenza d’inventario, a La Morte e il lanzichenecco di Albrecht Dürer.

Ancora, Flaubert è artatamente chiamato in causa dall’«eremita di Croisset» (Avec toutes les herbes de la saint Jean) e dalla similitudine ancorata al vapore Ville-de-Montereau, che presidia l’inizio di L’Éducation sentimentale (Pruriti & acquiescenze); Eliot per le «rovine fra le brattee» («Il verso, la parola, la muta perfezione sono rovine fra le brattee») di Perfezioni, rimando ai «fragments I have shored against my ruins» di The Waste Land; Beckett per la frase di Il pagliericcio («“Il causait rarament géodésie”»), ‘rubata’ ad Assez, un racconto di Têtes-mortes. Passando al comparto latino, la «pernicies illapsa in civium animos» di Conte en bon hébreu rielabora a piacere il ciceroniano «sensim pernicies illapsa civium in animos» (De legibus, 2, 15, 39); il «Nabis sine cortice» di In queste tue due parole saccheggia una lettera di Plinio il Giovane all’amico Gallo; lo «scelera ostendi, flagitia abscondi» di Considerazioni sulla vita condotta nel peccato condensa un passo tacitiano (Germania, 12: «Diversitas supplicii illuc respicit, tamquam scelera ostendi oporteat, dum puniuntur, flagitia abscondi»), così come il «lac concretum» di Hidalgo del digiuno (proveniente da Germania, 23) e il «transire brevi auditu quamvis magna» di Idoli delle Cicladi (Amphitheatra), ‘aggiustato’ da un luogo di Historiae, II, 59: «brevi auditu quamvis magna transibat» [10].

Rembrandt, Lezione di anatomia di Nicolaes Tulp

Rembrandt, Lezione di anatomia di Nicolaes Tulp

Un capitolo a parte meriterebbero i diffusi rimandi kafkiani, spesso portati con una sprezzatura che chiede un lettore onnisciente, in grado di coglierli al volo (e di collegarli adeguatamente al nuovo contesto). Ad esempio, l’«improvvisata K. di Kalda» di Manutergio all’isola, se il continente è un dilemma e la «Kalda improvvisata» di Cradling the receiver derivano dal frammento Erinnerungen an die Kaldabahn (nei Tagebüchern) che Ripellino assunse nella poesia n. 4 della Fortezza d’Alvernia («Siamo a Kalda, all’estrema stazione del mondo, | nuda d’ogni allegrezza, fantasma di calce e lucchetti, | perduta nelle steppe come un’urna lacrimale»); l’«affittacamere in Broskwa» di Quanti anni sono che la campo a questo modo e fino a quando potrò, schiacciando questo chiodo? origina dal frammento Die Broskwa-Skizze che si trova trascritto nel libro di Stach [11;] il «Menschen, die über dunkle Brücken» (Persone che attraversano ponti bui) di Motti, motivi è tratto da Kühl und hart, la poesia contenuta in una lettera di Kafka (9 novembre 1903) al suo compagno di scuola Oskar Pollak (poi nominato in Pruriti & acquiescenze: «né Max Brod, né Franz Werfel, né Oskar Pollak mai lo conobbero»); l’«O tu venissi, tribunale invisibile» di Erpice proviene dai Tagebücher.

La densità di questi apporti è doppiata dallo spessore dell’ambiente linguistico che li accoglie, articolato in un fraseggio a vocazione ipotattica (un ginepraio di subordinate e parentesi in cui spesso ci si perde) e in un lessico di strabiliante ricchezza (frutto di frequentazioni letterarie d’alto bordo e di accanite ricerche in molteplici repertori) che attinge a piene mani (fin da titoli come Nuptiæ bohemicarum, Die Spärlichkeit, Stiller, Twister, Miller, Dettes, Conte en bon hébreu, Avec toutes les herbes de la Saint Jean, Paso doble, Cradling the receiver, Amphitheatra, Interiéry, Tricycle porteur. Cataloque illustré envoyé franco sur demande, De civitate sene…, Braut Brust Graben Lust, Mot pour rire, Pawlatsche) ai tesori di varie lingue, spingendosi a produrre tessiture interamente francesi (in Rendita e canfora, Mot pour rire, La morte nella classe di K.) e spagnole (in Civita ancor più vecchiaia) [12]: un pullulio di voci rare (fra le più curiose, per restare alle nostrane: «chiovardo», «accline», «spedicato», «accivire», «surrepita», «sollombo», «statario», «fràngolo», «geldra», «menarola», «biavo», «stiampa», «frettazzo») in cui fanno capolino coniature originali, invenzioni come «carpente» (nel senso di carpenterie), «periesilia», «piantumativo», «gladiativo», «scalvame», «agganasciati», «stronfio», «inteschiata» (sostantivo), «pioventino», «sciamévole», «voltattrice», «quarkscontento», «brucheggiava» [13].

Ad accrescerne il peso (e il prestigio) concorre il singolare versante sonoro, caratterizzato dallo scandalo della rima e, per usare le parole di Ripellino, dall’«arroganza della Paronomasia» [14]: risorse del poeta cui il prosatore non sa rinunciare, facendone anzi un punto di forza, un vessillo di nobiltà allegramente rivendicato nelle «figure di suono in cui la scorciatoia del dire loro non è che asseverata en bon hébreu». Il discorso procede anche e soprattutto per attrazioni fonetiche, sembra dire Ceriani, per sposalizi che ‘accadono’ e, accadendo, producono un senso tutto loro, sebbene sottratto al ‘comune sentire’, sebbene non ulteriormente illustrabile: fecondi come un idioma sconosciuto che, sorprendentemente, ci parli, assimilandoci quasi ai Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi che negli Atti degli apostoli (2, 4-11) sentono annunciare nelle loro lingue le grandi opere di Dio. Dal cospicuo catalogo (che basterebbe, da solo, a dare la ‘ragione sociale’ dell’opera) si possono qui ritagliare gli accoppiamenti, più o meno giudiziosi, consumati in Una scena così («orde di genti straniere, barbe appuntite alla tartara come la puntura di un geco, minii ai contorni degli occhi come pitture del Greco»), Hus («in un opificio che presenta vele quadre e canestre non cercherete chi ha mani tanto callose da preparare molle per le balestre»), Scuse o… («Così nessuno suona alla tua trombetta i cachinni per dare il segnale d’inizio alle tue incredule Erinni!»), Lapidario arresto («quel genio portato alla rarefazione, che dissipava il giusto affinché lo scrutinato fosse per l’espiazione»), La verruca («eretto patibolo, sulla città denominata d’Ur, borgo annerito in dominant dur»), o le annominazioni di Disappunto («per constare che consti, o costar del sangue»), Hidalgo del digiuno («Miniandoci del nostro minarci»), Idoli delle cicladi («Pena con spene»), Interiéry («il vicino ponte di pietra adorno di tutta la sua centuria statuaria o del suo centone statario»).

Unito alla scelta di esotizzare il nostro idioma e insieme di contaminarvi parlate straniere, il lusso dei commerci sillabici tradisce una spinta ‘glossolalica’ che riconduce da un verso all’apostolico ‘dono delle lingue’ e dall’altro (sulle piste di ‘irregolari’ come Toti Scialoja e Fosco Maraini) ai moduli delle filastrocche infantili e alla tradizione del limerick, configurando la poetica del non sense e del ‘fallimento necessario’ prospettata, sin dal montaliano titolo [15], in Ciò che siamo non è ciò che vogliamo («Principio di contraddizione è principium individuationis. Solo contraddicendoci ci promuoviamo»), quindi in Socrate («L’uniforme è nel maculato e l’interìto nel fatto a brani; il solido è in ciò che si disgrega e si fionda con tutto sé stesso in cenere, al suolo; il volatile è in quel che provvede, in pianta stabile, qui, alla nostra vita sulla terra, degno ricovero!»), in Perfezioni («Quello che resta sono rovine o ancor meno, se davvero si anela a perfezione e a niente di meno»).

Copertina della prima edizione di Fiori freschi

Copertina della prima edizione di Fiori freschi

Queste fiondate metaletterarie sono il cuore pulsante di un libro che scrive in primo luogo il suo scriversi, innamorato dei suoi tormenti. Ne saranno parte, in che Che significa?, la ricerca del ritmo, «la mia sacra grolla da cui bevo un arcano veleno che mi dà la stizza», e la fede nelle «concretezze, oggetti e pose, mandate a memoria», e in Ciò che siamo non è ciò che vogliamo, quasi a denegare la povertà francescana dell’esordio [16], la controversa elezione di uno strumentario sontuoso, la «ricchezza di un desco mosso qua e là da bagliori di fiandra», la chiesa piena «di paramenti e altro, incensi». Così non meraviglia che l’autobiografia intellettuale si trovi a defluire nella nuda vita (quella dell’uomo giunto all’evo dei bilanci e dei testamenti), veicolando un patetismo finora sconosciuto alla scrittura di Ceriani. In Chi s’attregua il «marciatore, negli anni piagati della vecchiaia», dinanzi alla «precisione aritmetica di modi e tempi» della natura si chiede: «avrebbe potuto dire altrettanto della sua prosa?». In Che significa? l’io narrante confessa: «Scrivendo, sento che sto per interdirmi lo scrivere e che l’ultima gogna davvero è che questa mia scrittura sia resa pubblica, un’asta per i gessi mortuarî gloriati. | Solo nell’anonimato sarebbe portentosa» (in Cataloque illustré envoyé franco sur demande la medesima angoscia sarà demandata a un depresso plurale maiestatico: «l’asprezza e l’altezza dei propositi cui ci siamo obbligati ci inducono a pessimistiche riflessioni circa l’esito di questa nostra traversata»). Die Spärlichkeit espone il «cielo del mio cervello, arato da un acro d’ubbie e di ceneri» e le «vergogne delle affaticate parole». In Civita ancor più vecchiaia risuonerà il desolato «te derrumbaste en mi como el atronado de alud» di Don Chisciotte alla sua giovinezza; in Stelo il terrificante anatema Běda tobě, dlouho žijící (Guai a te, troppo longevo!).

All’ultimo giro di giostra rimane solo l’anziano che, sul pretesto di una vecchia edizione dei Fiori freschi di Mario Praz, commemora il «chierico nostalgico di cattive o viziate letture» (Per stecchire), il «tempo che in quella casa garrivano le feste e i conciliaboli», l’essere «del tutto solo», che «aspetta solo di coricarsi in un letto di lenzuola di frasche e pannocchie» (La cena del solitario), quello «che per l’innanzi fu solo a cenare, con sé stesso avendo riguardo soltanto di lasciar tinnire nel piatto il cucchiaio, tendendo pigramente l’orecchio al pallido acquario del televisore» (Risveglio secondo), quello che, infine, si intua (con lo struggente «sveller da te tutto il me stesso» di Braut Brust Graben Lust e con l’estatico «Ora appartengo davvero, nella perfezione del mio abito, che si uniforma al suo, senza né gale né trine, per intero, alla solitudine, la sua la mia» di Abiti) nell’autore supremo.

Copertina della prima edizione delle Metamorfosi

Copertina della prima edizione della Metamorfosi

Ma gli ‘umani, troppo umani’ lamenti, concentrati soprattutto nella terza parte (che prende il titolo da Descrizione della mia morte, laddove si invoca una fraternità nel duolo), sono il ‘valore aggiunto’ di un libro autarchico, indipendente dalla ‘realtà’ e refrattario al significato, infisso nel disumano della parola che si basta, fatta ennesima quanto caparbia chiosa nella «mappa dei nostri glossarî schiumanti in secoli di glosse infinite» (Descrizione della mia morte). Il suo culmine, il suo trionfo, è forse la celebrazione dell’avverbio che inaugura La metamorfosi («Als Gregor Samsa eines Morgens»), distribuita, quasi un Leitmotiv, lungo le tre sezioni, a cominciare dalla misteriosa epifania di La dama senza scacchiera:

«Non c’è come un così impronto avverbio di tempo che, alla stregua di Als, miniaturizzato nella molecola del soffio, nella mescola del tonfo, valendo ‘quando’ oppure ‘mentre’, ma anche un modale ‘come’, possa meglio descrivere tant’anfiteatrica segretezza d’anima, segreta in quanto introvabile. L’incipit che esso dissuggella, come noi dissuggelleremmo le buste col messaggio dell’Imperatore, vi celebra i suoi trionfi. Non c’è come un così ascoso avverbio di tempo che possa stanare tanta stocastica improbabilità d’anima, che in quanto non stanabile, né da alcuno mai scovata, legittima il suo ‘mutarsi’ a uno stadio in cui non c’è mutazione più, ormai, se non da ninfa a pupa, da ifa di selva a lupa».

Conservando l’anonimato, la voce occhieggia, come «avverbio scivoloso», in Paso doble, per piantare la sua fluttuante bandiera in Idoli delle Cicladi (sullo spunto di un’esegesi di Franco Fortini e di una disamina dei problemi di traduzione), asse di una lettura ‘a tutto campo’ del racconto, in cui una fervida facoltà interpretativa gareggia con le accensioni di una fantasia ingovernabile (quella, ad esempio, riservata alle «K., che ci battono come un colpo in testa di martelli a vapore, o insistono, grattugie nella notte che precedette l’orrore»), per salutarci, incollata al suo incipit, in Con babbucce di organza e Mot pour rire. A riprova di questa febbrile (e per certi versi tragica) passione onomastica (vi senti, come nell’eloquente Barche non amarrano o «ammarrano»?, «il brusio degli alveari e la confusione delle lingue, come se si fosse ancora nel cantiere di Babele») sta l’appunto che Ceriani mi ha benevolmente fornito a spiegazione del titolo Eligio: «è un nomignolo (cristianissimo) per il grillo talpa, suggeritomi da religio: religare, legare insieme, vincolare (il grillotalpa è ‘vincolato’ al suo rifugio; lega insieme dei rami per costruirsi l’uscio d’ingresso…); o da, se non ricordo male, relegere: raccogliere ordinatamente (il grillotalpa ammassa e ordina provviste nel suo rifugio)».

Copertina della traduzione italiana di Ist das Kafka

Copertina della traduzione italiana di Ist das Kafka

Di analoghe sottigliezze sarà cosparsa La città di Ic, con il toponimo che «ci rammenta il simbolo romano che designa il numero 99, anzi lo istiga alla cattura d’una imperfetta centuria», e la sua «c» incinta di pronunce sassoni, slave, spagnole, inglesi, tedesche, italiche; per non parlare del tour de force di Inverosimiglianza, ‘istigato’ dall’inconsueta resa, da parte di Emilio Castellani, di un sintagma del racconto kafkiano Il nuovo avvocato, comunemente tradotto «battaglia alessandrina». Il suo «pugna alessandrea» vi è insignito, nell’ordine, di: «altisonante»; «ben dissonante da quello che indugia in editto, il cui unico squillo sembrerebbe andarsene in cenere, raccolto da quella pesante eredità greca o troiana per migrare in un certo altro Alessandro, e che ascoltiamo svaporare letteralmente dalla nube di latte e vapori d’un illecito in letteratura, per, se m’è concesso il bisticcio, un suo torvo alessandrinismo»; «In una cucciolata di neri cagnolini, un nèo di cucciolo scarlatto o albino: un’interdizione dolorosamente iperbolica, una frattura epitetica, per esser così fatalmente letteraria, della semplicità di K.?»; «che scaturire ci pare dal più puro alveo dei varia minora, con un tic linguistico rannicchiato nello spessore della sua ombra».

Il risultato di una simile sfida (filigranata nell’«oltranza di quel seguitare la via che ci designa nel carattere» e nella parallela invettiva rivolta a «coloro che ci mutilano delle nostre legittime ambizioni» di Hidalgo del digiuno, e condotta alle estreme conseguenze in prove come Nuotatore & rematore, Rendita e canfora, Cradling the receiver) è semplicemente mostruoso. Anche a considerarne le oasi di relativa affabilità [17], il lettore non vi ha scampo. Posto dinanzi a una produzione autofagica (quella che uno dei suoi più sagaci interpreti ha dovuto, obtorto collo, ritenere imparafrasabile e irrappresentabile [18], e che sembra obliquamente autodenunciarsi nel capitale Isole delle Cicladi, quando «l’Ulcus persecutionis si abbatte su di lui, Gregor Samsa, per solipsismo»), non può che farsene, letteralmente, mangiare, darsi in pasto alla sua corrente, alla marea di suoni che senza tregua si sorpassano, sforzandosi di mantenere la cresta di quelle perigliosissime onde, di pareggiarne il ritmo, di ‘eseguirne’ l’estuoso spartito, dimenticando ‘contenuti’ e ‘messaggi’ diversi da quelli che il «pettine delle liti nella controversia tra due tarli» (Conte en bon hébreu), il «reclutatore di ceneri» (Senso orario antiorario), la «Dama Mortinvìta» (Quanti anni sono che la campo a questo modo e fino a quando potrò, schiacciando questo chiodo?), nella sua «palandrana, cucita con la stoffa del diamante di Malebolge» (De civitate sene), «generalmente bisbiglia o sussurra, ma mai urla» (L.-B., H.-D.?) [19].

Qui, come non mai, il messaggio è lo stile: uno stile che si misura (alla pari, fuori da ogni pavido epigonismo) con i messaggi dei nostri eroi novecenteschi della forma, dei ‘creatori di lingua’ (da Ripellino a Pizzuto a Gadda a D’Arrigo), e che appare oggi, per dirla ancora con Ripellino, «fuori tempo, fuori mafia, fuori festa» [20]. Il messaggio di Ceriani (che non ha mai frequentato né mai si sognerà di frequentare corsi di scrittura creativa) non raggiunge il presente; guarda al remoto futuro di civiltà sideree e alle insegne «appese a garrire al pennone di un parlamento di secoli» (In queste tue due parole), alle combuste e assiderate civiltà memorabilmente assunte in Descrizione della mia morte: «Quel corteo, quella cordata – Dario che attraversa col suo esercito un inverno di tale neve turbinante in chicchi ciechi, Alessandro che brucia la sua Asia, anzi le sue, Minore e Maggiore, d’Occidente e d’Oriente, col solleone dello stemma e lo schema dell’Impero –, quel corteo oggi è dietro di me». 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
 Note
[1] Prima che in questa sede, le ragioni del titolo si accampano in Ritratto in uno snaturato specchio, che guarda a Kafka (e, diagonalmente, allo stesso autore che osa riflettervisi) «come se dovesse, nella cornice dello snaturato specchio, il tuo profilo corrispondere alla sollecitudine che, la Dio mercé, metti in ogni frase quando ti curvi sulla scrivania in noce e biffi riga per riga il dossier degli ordinativi».
[2] Folgorata in Inverosimiglianza («uno che dirige le sue avvocature con una parsimonia diligente e operosa d’insetto o con l’oziosa cura degli scritturali applicati come granchi al loro scranno tenuto per scoglio») e in Lapidario arresto («viveva tra gli stantuffi e i martelli a vapore delle sue tempie in subbuglio»), così come, in Interiéry, l’enigmatico volto: «aguzzo lo zigomo, la guancia incavata e ben rasa, il caduceo di garofano dei polmoni malati, ma i denti perfetti come d’jena intorno al cerchio d’una carogna, con alle spalle il deserto come sola quietanza».
[3] Vd. Angelo Maria Ripellino, Il processo di Franz Kafka (testo dello spettacolo allestito dalla Cooperativa Teatro Mobile, diretta da Giulio Bosetti, nella stagione teatrale 1975-76 – prima assoluta: Lucca, novembre 1975), Verona, Antëditore, 1976: 2 (Note).
[4] Per averne un minimo specimen, si legga questo impagabile tratto di Felinità: «Di tutto l’arco, dall’estremo ovest del pentacolo all’estremo est della falange, nel suo atletismo, quel viciniore antifelino solo il pollice a raccolta aduna come meditasse, collocandolo alla base del naso e ripiegando le superstiti quattro dita, che se la sentono appena di simulare un quasi pugno che soggóla, verso il pomo. | Delle cinque dita il mignolo in opposizione circa alla radice del naso, le quattro altre dita che accarezzano invece la barba incolta, sulla gola che fu liscia, or è appena qualche giorno, adesso è una tal bazza».
[5] Per fare un solo esempio, lo scuotimento della pelliccia passa da Hus (dove l’«invecchiano persino le pulci nel bavero della nostra pelliccia» chiama in causa un brano di Dinanzi alla legge, parabola contenuta nel Processo) a Idoli delle Cicladi (nella sezione Pavana per l’insetto defunto, con il riferimento al Goethe dell’«atto secondo del suo secondo Faust», quando ne fuoriescono cicale, scarafaggi e farfarelle: «Er schüttelt den herabgenommenen Pelz; Zikaden, Käfer und Farfarellen fahren heraus») a Nei caffè di P. (per «il cartiglio in cui rimbomba l’editto e tuona al tuo bavero di pelliccia il suo conteggio di tutte le pulci») a Il naufragio del piroscafo «Speranza» (collegato al «Giudeo Shylock» e al suo «bavero di pulci che reclamano la loro di libbra»).
[6] Erede dell’ombra che inaugurava Dulcinea encantada, il decimo gipsoludio, e ulteriormente richiamato in Quanti anni sono che la campo a questo modo e fino a quando potrò, schiacciando questo chiodo? (che lo vede «reggente la sua lancia tutt’interìto nel biasimo per Sancio lo scudiero Panza») e in Civita ancor più vecchiaia, a scontare «condena perpetua» e «pena eterna».
[7] In una chiosa a mio pro, Ceriani vi vede un’«allusione alla miracolosa sintassi di Praga magica», ma anche «alla carrozza che, uscita dalle rimesse viennesi, porta Mozart a Praga per il Don Giovanni e di cui narra, in un mirabile capolavoro, Mörike» (il racconto Nach Prag zu Wien, 1856, incorporato nel testo come «la novelletta stessa in viaggio). Puntuali omaggi alla «miracolosa sintassi» ripelliniana si possono considerare il «cavallo cachettico» di Discussione dei «defenestrati di P.», fortemente imparentato con la «Bugatti cachettica» della poesia n. 7 di Lo splendido violino verde, e il «paradiso deliziano» di Perfezioni, tratto da Apocalisse in stile liberty (recensione a La nube purpurea di M. P. Shiel, apparsa, con il titolo Apocalisse in stile liberty, su «L’Espresso», 18 febbraio 1968: 18): «invece che in un paradiso deliziano, il peccato verrà consumato nella cabina di una nave (Yachting style!) al largo di Portsmouth».
[8] Se ne richiama Il racconto d’inverno (In queste tue due parole), Amleto (Cradling the receiver, La morte nella classe di K.), Il mercante di Venezia (Disappunto, Il naufragio del piroscafo «Speranza») Riccardo III (Ciò che siamo non è ciò che vogliamo), Come vi piace (Braut brust graben lust), nonché il suo luogo natale, ribattezzato in La dama senza scacchiera e in La morte nella classe di K. «Scaffold on (o upon) Avon», per diventare in Cradling the receiver un altrettanto lugubre «Ghost town upon Avon o upon Thames».
[9] Un brano ricco di suggestioni figurative ‘animate’ come in certi film di Lech Majewski. Penso a quel «fumo pigro e lento, denso granuloso scuro come un grembiule di cuoio graffiato dall’uso», o ai «capannelli di uomini e cavalli che andavano su e giù per l’acciottolato, cozzando cogli zoccoli sui sampietrini a rodarli» che sembrano, più che restituirne l’ecfrasi, mettere in movimento scenari bruegeliani come Il trionfo della morte e Strage degli innocenti. Un’operazione affine tocca, in La disfatta di Cosroe, la Battaglia di Eraclio e Cosroe di Piero della Francesca, quando «tutto il sangue che l’arena staglia nel fumo, e di cui ne fu intrisa la singhiozzante sabbia aprica, pare adergersi schiumante in un palcoscenico di vertigini, e a contumelie di spade che cozzano sugli scudi e poi sibilano tra gl’inguini, solo un sipario di cavalli pare s’agiti…».
[10] Un altro ‘aggiustamento’ riguarda le estreme parole di Keats riportate da Joseph Severn: il «comes like ice» diviene, nel magnifico finale di Considerazioni sulla vita condotta nel peccato, «run like ice».
[11] I due toponimi saranno capziosamente riuniti in La città di Ic: «preferisco credere che si lasci trasportare all’opposto verso Kalda o Broskwa».
[12] Ne fanno parte i testi in dialetto lombardo (assegnati dall’autore a «una delle tante varianti ‘barbariche’ dell’Alto milanese») di Gianmorte violinista (cit.: 65, 83-88).
[13] Si noti che la fabbricazione di nuove parole è autoironizzata in Chi s’attregua?: «Avrei voluto dire: attreguarsi (cercare un refrigerio qualsiasi sotto la muscolosa volta d’una galleria alberata!), ma non m’è consentito un sì neologismo».
[14] Vd. Angelo Maria Ripellino, Di me, delle mie sinfoniette, «L’ozio», a. I, n. 1, maggio-agosto 1986: 11: «Al sottovoce, al sommesso, al da camera di altri poeti contrappongo un ardente ordito fonetico, agganci ed incastri di suoni, l’attività dei bisticci, delle omofonie, l’arroganza della Paronomasia».
[15] Modulato sul celeberrimo explicit di «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato».
[16] Il prosimetro Iscrizioni, accolto nella quarta sezione (Quaderno collettivo) di Poesia uno, a cura di Maurizio Cucchi e Giovanni Raboni, Milano, Guanda, 1980: 115-122.
[17] Penso a testi come Ritratto in uno snaturato specchio, Felinità, Chi s’attregua, Una scena così, Considerazioni sulla vita condotta nel peccato, Tana, Interiéry, Arroganza, La classe morta di K., Perfezioni, Il pagliericcio, Risveglio secondo, La cena del solitario.
[18] Vd. Rodolfo Zucco, Qualcosa di personale, postfazione a Gianmorte violinista, cit.: 97-107.
[19] Si veda anche la chiusa di L’inverno, a K.: «Siamo pochi che nell’anima del passo | I nessi valichiamo come anime perdute, | un passero danza nella neve com’illuso, | Cerca la briciola il miglio e la scagliuola | Spanti da mani alla superficie di quel nulla | che li fa prodighi d’una neve che li annulla».
[20] Vd. la poesia n. 64 di Autunnale barocco.

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, Giacomo Debenedetti, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto, sono parzialmente raccolti in Il leggibile Pizzuto (Polistampa, 1999). Ha, inoltre, dato alle stampe le raccolte poetiche Rime (1985), Petrarchista penultimo (1986), Dei verdi giardini d’infanzia (2001). Fra i suoi lavori più recenti, i commenti integrali a Testamento e Sinfonia di Antonio Pizzuto (Polistampa, 2009 e 2012), i saggi Notizie dal carteggio Ripellino-Einaudi (1945-1977) (in «Annali di Studi Umanistici», 7, 2019), Bibliografia degli scritti di Angelo Maria Ripellino (in «Russica Romana», xxvii, 2020), Per Simone Ciani: un ricordo nel giorno della laurea (in «Annali di Studi Umanistici», IX, 2021) e la cura di volumi di Angelo Maria Ripellino (Lettere e schede editoriali (1954-1977), Einaudi, 2018; Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), Aragno, 2020; Fantocci di legno e di suono, Aragno, 2021; L’arte della prefazione, Pacini, 2022) e di Antonio Pizzuto (Sullo scetticismo di Hume, Palermo University Press, 2020).

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