di Gianluca Serra
“Carico residuale”, “sbarchi selettivi” (6/11/2022). Scelgo queste parole come pretesto per una riflessione che vuole in ogni caso andare oltre la loro contingenza mediatica.
Il nuovo governo italiano di centro-destra ha aperto l’ennesima stagione della politica migratoria nazionale coniando termini che, nell’apparente e asettica freddezza burocratica, rivelano una profonda crisi del linguaggio, riflesso a sua volta di quella ben più profonda del pensiero.
Ancorché riferita alla letteratura, resta valida la diagnosi che Italo Calvino fece nella lezione americana dedicata, non a caso, alla regola della “Esattezza”:
«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva (…) come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla (…)» [1].
Nella Lettera sull’Umanesimo, Heidegger scrisse:
«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono» [2].
Aggiungerei, per mettere su una scia filosofica questa breve riflessione, che anche i politici e i governanti dovrebbero contribuire alla custodia della comune dimora in cui l’essere, inverandosi, produce quella che oggi è cronaca, e domani potrebbe diventare storia. Ne discende che l’uso della lingua – il linguaggio appunto – da parte degli esponenti delle istituzioni pubbliche dovrebbe essere più cauto e confacente alla natura umana delle “cose” di cui parlano.
La mia critica non vuole essere un invito al vacuo “politically correct”, l’orientamento ideologico e culturale che predica un estremo e affettato rispetto verso tutti finalizzato ad evitare ogni potenziale offesa verso qualunque forma identitaria o di genere. Vorrei piuttosto rilevare che, in una materia così delicata come quella migratoria, il linguaggio non è un involucro neutrale ma è già politica e, come tale, richiede una preventiva assunzione di responsabilità nella selezione delle parole che si usano.
Piaccia o no, i mezzi di comunicazione di massa, e fra questi i social con il loro quotidiano martellamento, sono diventati la contemporanea “casa dell’essere”. Un luogo apparentemente incustodito dove quella che Heidegger chiamava “la manifestatività dell’essere” è ostaggio della competizione, purtroppo impari, fra slogan e pensiero.
Il pensiero, si sa, è un motore diesel, ha bisogno di tempo per scaldarsi e spiegarsi compiutamente. Un pubblico distratto e impreparato si perde alla prima subordinata, al primo lemma che non è registrato nella versione bignami del Devoto-Oli per Facebook e Instagram.
Gli slogan invece sono frasi presuntivamente assiomatiche (cioè che pretendono di non necessitare di una dimostrazione), orecchiabili e suggestive, destinate a rimanere impresse nella mente e a persuadere l’ascoltatore al fine di orientarne l’opinione. Per la loro intrinseca natura a-critica, gli slogan sono strumenti di propaganda, vettori di marketing azionati ad arte da chi persegue obiettivi particolari, non necessariamente dichiarati. Gli slogan, meglio del pensiero, si prestano alla comunicazione politica, cioè la comunicazione di coloro che dovrebbero per primi essere i custodi della casa dell’essere.
Sarebbe ingenuo credere che non vi sia alcun movente dietro l’ossessiva presenza nella narrazione mediatica di un corpus di messaggi fra loro coerenti costruiti attorno all’idea che lo straniero-migrante sia il nuovo “nemico” perché è un costo netto per il sistema nazionale, perché alimenta la criminalità, perché sottrae opportunità di lavoro al cittadino…
Una recente puntata di Presadiretta dall’eloquente titolo “Armi di controllo di massa” [2] ha avanzato il legittimo sospetto che la narrazione anti-migranti sistematicamente in atto in Europa (e non solo) ormai da anni sia orchestrata ad arte dalle lobby del settore industriale specializzato nella ricerca, nello sviluppo e nella commercializzazione di tecnologie e prodotti (robot, droni, scanner, visori, sistemi di intelligenza artificiale e riconoscimento biometrico) per controllare e rendere impenetrabili le frontiere esterne (cioè extra-UE) degli Stati membri e respingere i migranti ancor prima che si avvicinino. Un mercato in cui i principali acquirenti sono i governi nazionali e che, in nome della visione politica dell’Europa-fortezza, cresce tra il 7 e il 9% all’anno, fatturando tra i 65 e i 68 miliardi di euro.
Un linguaggio che rappresenta il fenomeno dell’immigrazione clandestina come un fatto di allarme sociale punta a creare e a mantenere vivo nell’opinione pubblica il convincimento della necessità della sua criminalizzazione. Il tutto nell’ottica di giustificare la produzione di diritto come conseguenza di presuntivamente prevalenti orientamenti etici in una società, per così dire, democratica (ubi societas ibi ius). Quando il diritto sembrerebbe piuttosto discendere da un’interessata strumentalizzazione dei flussi informativi sul tema migratorio (ubi media ibi ius).
Il rumore di fondo che il linguaggio distorto della comunicazione insinua nel dibattito pubblico sul tema migratorio finisce per creare una domanda politica di azione normativa positiva per rivestire di legittimità formale azioni repressive contro fatti che la forza della legge è persino capace di trasformare in reati. Fatti, come le migrazioni, che sono connaturati alle dinamiche della storia umana, specialmente alle nostre latitudini. Fatti iscritti nel DNA culturale del Mediterraneo tanto in profondità da aver segnato gli albori stessi della letteratura europea. Ridotti alla loro essenza, i due grandi “poemi dei ritorni” (nostoi), Odissea ed Eneide, cos’altro sono se non cicli epici che descrivono (e legittimano a posteriori) la migrazione di genti orientali (rispettivamente achei vittoriosi e troiani esuli) verso occidente? [3]. Passando dall’epos alla storia, e saltando millenni, giova ricordare che circa 90 mila italiani, fra fine Ottocento e inizio Novecento, emigrarono in Tunisia, allora protettorato francese, alla ricerca di un futuro migliore. E che grazie alla immigrazione maghrebina la marineria mazarese è, in un passato molto più recente, riuscita a “ristrutturarsi” e rispondere al deficit di manodopera marinara causato, come in altri comparti, dal rigetto dei mestieri “di fatica” da parte delle nuove generazioni ispirate dai nuovi modelli di vita della società dei consumi.
Occorre interrompere il circolo vizioso sopra descritto promuovendo soprattutto al livello istituzionale un linguaggio che torni “casa dell’essere” umano. Perché prima di pronunciare parole come “carico residuale” e “sbarchi selettivi” si possa in futuro accendere nel politico di turno la luce della coscienza e comprendere quanta disumanità e quanto danno possano, a cascata, indurre i meta-messaggi di “umanità residuale” e “umanità selettiva”.
Occorre, su un tema così complesso, avere il coraggio di tornare dal digitale al dialogico, prendersi e richiedere tutto il tempo di cui il motore diesel del pensiero ha bisogno per dispiegare la sua coppia. Far seguire al pensiero un linguaggio costituito di parole che tornino a essere rispettose dei significati che hanno l’onere di rappresentare.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] Italo Calvino, Lezioni Americane, Milano, 1988 (consultato nella ristampa Mondadori del 2021: 60).
[2] Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II: 285-286.
[3] In merito, si legga l’avvincente saggio di Valerio Massimo Manfredi, Mare Greco, Milano, 1992 (consultato nella ristampa del 2011).
[4] Disponibile su RayPlay, cf. https://www.raiplay.it/video/2022/10/Armi-di-controllo-di-massa—Presa-Diretta—Puntata-del-17102022-77b58031-f343-4b74-9737-55802300d982.html
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Gianluca Serra, dottore di ricerca in diritto europeo, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche in prestigiose riviste giuridiche nazionali e internazionali sui temi della tutela dei diritti fondamentali della persona e della ricostruzione dello Stato in contesti post-bellici. Dal 2020 al 2022, dopo varie esperienze lavorative nella funzione pubblica internazionale (in Afghanistan, Somalia, Estonia, Belgio), è stato dirigente dell’agenzia europea per gestione operativa delle frontiere comuni esterne, con sede a Strasburgo. Attualmente ricopre l’incarico di vice-direttore amministrativo presso l’Agenzia Europea di Difesa (Bruxelles).
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