di Silvia Pierantoni Giua
Chi sono, cosa desidero, dove sto andando, perchè vivo. Sono solo alcuni dei quesiti più profondi che ci poniamo durante l’arco della vita. Mi è accaduto spesso di chiedermi cosa desiderassi, cosa cercassi. Poi, scegliere. Che, anzitutto, significa discernere, ovvero orientarsi in sentieri inconsci, districare la matassa della propria realtà interiore e di quella esterna, altrettanto multiforme. E, per finire, quel che non vediamo e che non riusciamo a spiegare. Ciò che deriva da questo complesso lavoro va a costituire quel che può definirsi identità, la quale non si determina una volta per tutte bensì si costruisce senza fine.
È noto che sia l’adolescenza il periodo più difficile relativamente a tale processo. Sono gli anni in cui si consolida il senso di appartenenza a questo o a quell’altro valore, si rivendicano i propri pensieri, si sperimentano varie situazioni e si va a tentoni per trovare la propria direzione. A quell’età, invidiavo chi possedeva una vocazione, chi aveva le idee chiare. Io ho proceduto per tentativi: non riuscivo a scegliere tra le mie tante passioni. Teatro, musica, cultura? Ricerca, azione? Non sapevo che dopo dieci anni le avrei messe insieme trovando nell’insegnamento una via maestra per far dispiegare il mio eclettismo.
Parigi, estate 2016: vinco la selezione MIUR come assistente per l’insegnamento dell’italiano all’estero; nello specifico, tra i Paesi elencati, avevo scelto la Francia poiché, avendo conseguito il titolo di Laurea di Ricerca in Psicoanalisi alla Sorbona, pensavo di restare a svolgervi un Dottorato. Così mi ritrovo a Crest, paesello nelle vicinanze di Valence, nel sud-est francese, a insegnare la mia madrelingua a ragazzi tra i dodici e i diciannove anni, esperienza che ha cambiato la mia vita. Questo lavoro mi ha permesso di trasmettere la passione per le lingue e le culture, il viaggio, la cucina, l’arte, oltre ad avere quel contatto umano diretto e concreto per me così importante.
Milano, estate 2017: entro in graduatoria di docenza nelle scuole superiori del Comune. Mi chiamano a fine agosto per firmare il contratto come professoressa di spagnolo al CIA Manzoni, istituto diurno e serale per il recupero degli anni scolastici di grado superiore. Il Centro dell’Istruzione per l’Adulto e l’Adolescente, gestito dall’Assessorato Educazione e Istruzione, si propone di preparare gli studenti al superamento dell’esame di idoneità per il proseguimento degli studi nelle scuole statali o paritarie. Su oltre 500 iscritti quasi la metà non è di origini italiane e comunque, nella maggior parte dei casi, si tratta di persone che appartengono alle famiglie delle cosiddette fasce deboli, con situazioni problematiche che hanno favorito le bocciature e gli abbandoni scolastici (da ragazzi in carico agli assistenti sociali a casi di arresti domiciliari, da situazioni di disagio economico-sociale ad alunni in seno a Comunità di vario genere).
L’utenza estremamente eterogenea del Centro ha chiamato in campo le mie competenze in ambito psicologico e sociale, lo stesso in cui già da tempo avevo iniziato a lavorare. Questa intenzione probabilmente si è definita meglio a partire dal voler conoscere e così superare le mie difficoltà: per alcuni anni le avevo dipanate sul divano dell’analisi lasciando che si spiegasse davanti ai miei occhi la bellezza della complessità della mia persona e così, per estensione, di quella dell’essere umano. Ricomponendo il puzzle della mia storia stavo riacquistando fiducia, ovvero dando forma a ciò che ero, esplorando la mia identità .
Ed è proprio la fiducia ciò su cui il CIA si propone di lavorare: fiducia nelle capacità di ragazzi disorientati e così fiducia nel loro futuro ampliando il panorama delle possibilità professionali e sociali. A tale scopo, soprattutto nel progetto diurno che ha come protagonisti studenti in fase adolescenziale, ai professori sono affiancati alcuni educatori; inoltre, un counselor è preposto alla cura della motivazione e al sostegno dell’autostima degli alunni. Sono anche previste diverse attività che vanno da incontri di educazione alla legalità a laboratori di scrittura creativa, a uscite didattiche (mostre, spettacoli di teatro ecc.), a conferenze tenute in sede da insegnanti ed esperti esterni.
In questo contesto si è inserita la mia iniziativa “In viaggio”, un laboratorio di teatro che propone agli studenti di camminare verso parti di sè ancora sconosciute, di andare oltre i propri limiti e le proprie convinzioni, cercando di favorire la loro crescita personale. La Direzione scolastica ha accolto con interesse il progetto e ho potuto in questo modo utilizzare gli strumenti che per anni avevo coltivato in ambito artistico.
Così da circa un paio di mesi, ogni mercoledì pomeriggio, io e gli alunni che hanno aderito ci ritroviamo negli “spazi-colore” della scuola, ambienti pensati dalla Dirigenza per promuovere lo sviluppo delle iniziative dei ragazzi e della loro autonomia. E, infatti, stiamo svolgendo un percorso che rende essi stessi protagonisti del processo creativo: insieme, stiamo costruendo uno spettacolo che metta in scena il lavoro fatto durante questi incontri. L’intenzione è quella di aprire loro la possibilità di sperimentarsi nella dimensione soggettiva e relazionale. Il teatro può agevolare questa ricerca, orientare verso ciò che più si sente corrispondente e vero, stimolare il pensiero, renderlo elastico; permette di sviluppare tecniche favorevoli all’apprendimento, aiuta a scoprire e superare limiti, a portare alla luce qualità e inventive utili a risolvere problemi ed ostacoli. Scoprirsi dunque in vista di una maggior consapevolezza dei propri desideri e delle proprie paure, della ricchezza data dal rapporto. Una palestra per la mente ed una finestra aperta su un nuovo modo di vedere se stessi e gli altri.
L’inter-cultura che caratterizza le classi dell’Istituto è un punto di forza strutturale del laboratorio, considerata come fonte di ricchezza e come spunto per un confronto ancora più intenso. Le proprie radici sono infatti fondamentali per lavorare sull’identità e sull’incontro con l’alterità, ricerca che adesso mi è chiaro essere alla base di ogni mio interesse e della mia attività professionale.
Lavorare nella scuola mi ha dato l’opportunità di mettere a tema questa passione e di concretizzarla all’interno del progetto “Punti di vista”, una serata di riflessione in cui, ogni primavera, il CIA prevede di dibattere problematiche storico-culturali importanti ed attuali. Quest’anno il professore di geografia, responsabile dell’iniziativa, mi ha chiesto di aiutarlo nell’organizzazione e così ho colto l’occasione per proporre l’incontro tra culture come palestra di ricerca identitaria dove ciò che è “straniero” diventa strumento di sapere. Quel che definiamo come tale provoca infatti sgomento, diffidenza e spavento perché ancora estraneo, s-conosciuto e sconosciuto è anche il nostro inconscio. Affrontare la paura è la strada della crescita, un viaggio verso una conoscenza più profonda di sè e del mondo. Il poeta indiano Tagore ha scritto: «il viandante deve bussare a molte porte straniere per arrivare alla sua e bisogna viaggiare per tutti i mondi esteriori per giungere infine al sacrario più segreto all’interno del cuore» ( Tagore, A lungo durerà il mio viaggio).
Ciascuno di noi è un mondo complesso che non si può ridurre ad un blocco monolitico di idee/credenze/pensieri né adattare ad uno schema binario di bene/male, buono/cattivo, giusto/sbagliato, Oriente/ Occidente e così via. Allora io sono italiana ma parlo arabo e una poesia cilena risuona dentro di me come una preghiera e un proverbio africano può darmi più di tanti discorsi. Sul piano individuale, la diversità trova corrispondenza in quel che ancora non è emerso di sè e dunque l’interesse per la propria consapevolezza ha terreno fertile nell’incontro con altre società e culture. Così il titolo dato all’iniziativa di quest’anno è stato “Conoscersi. Un incontro tra culture” dove il verbo”conoscersi” ha, appunto, la doppia accezione riflessiva di conoscere se stesso e l’altro.
Questo è stato lo spirito alla base di un evento che ha visto come protagonisti esperti del dialogo culturale e donne di fede cristiana e musulmana ma anche musicisti e poeti, arabi e italiani: una conferenza-spettacolo ricca di confronti.
A conclusione, la proiezione del video dell’intervista svolta precedentemente a due dei nostri studenti, uno italo-uruguaiano e l’altro italo-algerino, che hanno risposto in modo sincero e spontaneo a domande che spaziavano dal significato di spiritualità al proprio gusto in cucina e in letteratura. Poi, una lunga coda di domande ci ha accompagnati all’orario di chiusura della struttura. È stata un’esperienza molto emozionante poichè ho condiviso me stessa davanti a un’aula magna più spesso abituata alle relazioni virtuali di Facebook e all’intrattenimento passivo della televisione.
Ecco ciò che forse più di tutto mi colpisce dello spaccato sociale che presenta la scuola e che rappresenta il nostro futuro: una specie di svogliatezza e apatia di fronte allo sforzo e al lavoro. O magari questa mia visione è deformata dell’essere professore? O chissà dal ricordo del passaggio all’età adulta che mi sembra vicino ma che in realtà è un po’ distorto dalla distanza del tempo trascorso?
Io faccio parte di una generazione a cavallo tra due periodi, pre e post internet, che paiono vere e proprie ere nonostante si distanzino di poche briciole d’anni. È una considerazione che sembra banale così come ogni ultimo modello di cellulare passato di moda non appena fabbricato e come le mie parole, che paiono anche antiquate nonostante abbia trent’anni e non sia nostalgica del passato. Certo, la società è in continuo cambiamento e l’ipercineticità della nostra epoca fa sì che questa evoluzione sia accelerata in maniera esponenziale.
Ciò che osservo mi sembra diverso e allo stesso tempo uguale a quel che ho già vissuto e così da un lato mi rispecchio nei problemi degli adolescenti a cui ora insegno e dall’altro me ne distanzio non riconoscendomi in ciò che vedo. Non sarà che filtro la realtà col mio vissuto rendendo unico il mio essere e così straniero ciò che è al di fuori?
So che la mia ricerca sull’identità mi ha giovato e che proporla può favorire il percorso di chi accetta la sfida. Penso anche che il rispetto sia senza spazio e senza tempo; e così, insieme alle regole grammaticali, provo a insegnare quelle che per me sono alla base del rapporto amoroso, lavorativo, sociale e culturale; in una parola, di quello umano.
La storia suggerisce che sì, possono cambiare le maniere e gli strumenti con cui si affrontano i problemi e chissà anche il modo di sentire, ma non la sostanza delle nostra materia umana, ovvero quell’inquietudine universale che spinge ad essere in continua ricerca, in particolare dell’amore. Universale è dunque la questione identitaria e comune le difficoltà implicite nel dire “sono”.
Se rifletto a quanto tempo ho pensato alla necessità di fare attenzione al verbo “essere” ed al pericolo delle etichette spesso ad esso legate, ora ne scopro e ne gusto anche il valore perché voglio bene a quei “sono” che, adesso che li ho scelti, mi appartengono.
È quindi su una strada complessa e tortuosa che provo ad accompagnare i miei studenti, cercando di far scoprire loro la preziosità dell’essere a scuola.
Conosco già la prof.ssa Pierantoni ed ho il piacere e forse anche la fortuna di essere un suo alunno. Mi ero già fatto un’idea di quanto fosse in gamba, ma non sapevo ancora nulla sulle sue esperienze professionali del passato. Ora sono ancora più contento, anzi orgoglioso di averla come docente, perché oltre ad essere un’insegnante modello, è anche una persona di cuore.
Entrerà sicuramente nel cuore di tanti altri alunni!