Dovevo inoltrare le mie richieste a tavola, una volta seduti tutti insieme – io, mia madre e mio padre – e attendere che quest’ultimo avesse terminato di pranzare: una risposta data a pancia piena era sempre migliore di una data a pancia vuota, soprattutto se quella risposta doveva darla lui. Talvolta, però, a distanza di circa trent’anni è ora di riconoscerlo, le mie richieste diventavano eccessive: così, davanti al muro compatto che lei e lui erigevano di fronte a me (bastavano tre parole: «non – può – essere»), non mi restava che abbandonarmi a quelle crisi isteriche che ogni bambino ben accudito, specie se figlio unico, sa usare, nella conduzione dei conflitti famigliari, come arma di distruzione di massa.
Fu proprio al termine di una di quelle crisi – ancora mi agitavo sul letto con quel poco di energie rimaste (le code delle lucertole, separate dal resto del corpo, non fanno diversamente) – che mia madre entrò in camera e mi lanciò addosso un libro. «Leggi», disse, e richiuse la porta. Non capii, e mai l’ho capito, se il fatto che il tomo mi abbia colpito per uno spigolo fosse atto preterintenzionale o meno. In ogni caso, raccolsi il libro e cominciai a leggere: «Il 7 gennaio 1944 mi trovai per la prima volta sui banchi di scuola, con tre mesi di ritardo rispetto ai miei compagni…»
L’incontro con Gavino, bambino anche lui, ma costretto dal padre ad abbandonare la scuola per intraprendere il duro mestiere del pastore, fu straordinario, nel senso più letterale. Il mondo da lui descritto e vissuto, infatti, era ai miei occhi un altrove inconcepibile, a tratti fantastico. L’addestramento marziale al quale era sottoposto non trovava corrispettivi nel mio immaginario se non nelle dure discipline orientali, che io vivevo insieme ai protagonisti dei manga giapponesi: bambini anche loro e costretti a pratiche impressionanti che la pedagogia progressista avrebbe definito, senza pensarci troppo, torture. Faticavo, insomma, a crederci. Eppure non era, quello di crederci, affare dirimente. Per un bambino, d’altronde, una storia è una storia e, come sosteneva Rodari a proposito delle fiabe, servono soprattutto alla «formazione della mente». E infatti nell’intento di mia madre, esattamente come la denutrizione dei bambini africani serviva a darmi la giusta motivazione per mangiare i broccoli che si ostinavano a presentarsi nel mio piatto, allo stesso modo l’exemplum di Gavino, doveva spronarmi a pretendere di meno dalla vita, ad accontentarmi di ciò che avevo, ad amare la scuola o, quantomeno, a capirne l’importanza.
Intuii dunque di essere, tutto sommato, fortunato: e che la mia fortuna risiedeva nell’avere due genitori che non mi chiedessero altro che studiare. Questa consapevolezza non mi impedì certamente di ripetere altre sceneggiate nel corso della mia infanzia: eppure, un seme era stato gettato, insieme poi a tanti altri. Anni dopo, nel momento in cui, terminato il liceo, ho scelto di iscrivermi in Lettere per diventare insegnante e, chissà, magari scrittore, non ho certamente pensato a Padre padrone, né a mia madre che me lo lancia sulla schiena. Ma sono certo che, senza quel servizio pedagogico, solo in apparenza ossimorico rispetto al contenuto del romanzo, sarei stato qualcosa di diverso. Tanto che le riflessioni che sorgono oggi, nel rileggere Padre Padrone a cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, sono forse più complesse, ma non più profonde.
Lo straniamento provato da bambino si allarga e riverbera nel ritrovarsi di fronte alle parole che Abramo rivolge alla maestra per giustificare il ritiro del figlio – «non sarà né il primo né l’ultimo» – parole che, nell’adattamento cinematografico dei fratelli Taviani, si fanno ancora più sinistre: «Oggi tocca a Gavino, domani toccherà a voi». A leggere i dati di questi ultimi anni, infatti, quello dell’abbandono scolastico risulta ancora uno dei drammi che affliggono la nostra isola. Uno studente su cinque non va oltre la licenza media: titolo che, se paragonato alla licenza elementare dell’Italia del secondo dopoguerra, offre sicuramente minori possibilità di emancipazione. L’emanciparsi, appunto, di Gavino dal mondo agro-pastorale e di conseguenza da suo padre, monarca di quel mondo, può avvenire solo attraverso l’istruzione, ovvero attraverso l’appropriazione di quegli strumenti culturali di interpretazione e acquisizione del mondo esterno. Finché Gavino resta confinato a Baddevrustana, la sua cultura si concretizza nella perfetta padronanza dei segreti e dei toponimi della tanca, guidato nell’atto genesiaco da Abramo:
«La vedi quella grossa quercia, giù in fondo? Si chiama s’avure manna. Questa valle qui la chiamano su addiju de su palone. Quella collina boscosa lassù la chiamano su montiju de su carrasu. E quella piccola radura lì, si chiama su pianu de su aladérru».
Tutto ciò che è altro viene bandito. Non tanto per paura, quanto perché inutile. Così come avviene nei Malavoglia, in cui padron ‘Ntoni accusa il nipote omonimo di aver tradito i valori tradizionali del proprio mondo («Ma tu non ne hai denari, né io ne ho! Non ne abbiamo avuti mai, e ci siamo guadagnato il pane come vuol Dio; è per questo che bisogna darsi le mani attorno, a guadagnarli, se no si muore di fame»), allo stesso modo Abramo e Gavino sono due rappresentazioni plastiche di un tempo sospeso e circolare, il primo, e di un tempo contestualizzato e lineare, il secondo.
Così, se l’istruzione e i mutamenti tecnologici erano visti come un’insidia già nel ‘900, consegnare uno smartphone a un giovane con la terza media, oggi, significa creare un pericoloso cortocircuito che non porta certo all’emancipazione, ma a un sincretismo patologico. Gavino credeva di potersi affrancare dal passato attraverso la scuola: ma i gavino di oggi credono lo stesso? Tutto lascia intendere che la rivolta dell’oggetto sia, in qualche modo, ancora in corso e lungi dal trovare una propria risoluzione.
C’è poi la questione dell’identità, di un’idea di Sardegna con la quale noi stessi sardi abbiamo in più occasioni palesato un rapporto oltremodo conflittuale: l’isola arcaica, selvaggia, autentica raccontata oggi dal marketing turistico – e anche da certa letteratura – si propone in Padre padrone mostrando il suo lato tragico e oscuro. Nel documentario L’ultimo pugno di terra (1965), di Fiorenzo Serra, si descriveva così l’esistenza del pastore:
«La sua solitudine non è perciò soltanto un fatto fisico, ma più ancora una sorta di muro interiore, una fissità psicologica che gli impedisce di credere alla possibilità di cambiare esistenza; ed egli vive così, giorno dopo giorno, fuori del tempo, quasi nella preistoria».
È la prima parte del documentario, quella dove si gettano le basi per raccontare poi l’idea di futuro, la speranza della rinascita, dell’industrializzazione dell’isola. È un’immagine autentica, simile a quella dei dipinti di Giuseppe Biasi o dei romanzi di Grazia Deledda. La vita «fuori dal tempo» del pastore è determinata dalla simbiosi dell’uomo con l’attività che gli garantisce il sostentamento e con i luoghi che si trova a vivere e attraversare.
Parrebbe, questa idea, ancora oggi monopolizzare la narrazione che l’isola fa di sé stessa. Sergio del Molino, scrittore e giornalista spagnolo, nel saggio La España vacía (La Spagna vuota, Sellerio 2019), analizza la condizione delle regioni iberiche maggiormente spopolate:
«Alla Spagna vuota manca una narrazione in cui riconoscersi. Le storie che la riguardano piacciono a chi non ci vive e rafforzano due tipi di pregiudizi: quello della Spagna nera e quello dell’idillio oraziano. Il primo tipo di pregiudizio è diffuso dai telegiornali. Il secondo dalla guida Michelin. Inferno o paradiso. Non c’è via di mezzo. O assassini o amanti della natura. Anche se in qualche caso l’amante della natura può rivelarsi un assassino».
È evidente quanto queste parole possano raccontare anche la situazione della Sardegna. C’è però un’eccezione: gran parte dei sardi sembrano affascinati da questa tipologia di narrazione. Le storie che la riguardano, dunque, piacciono anche a chi ci vive. È una sorta di effetto Gabriel García Márquez: Cent’anni di solitudine è un romanzo che piace fuori dall’America latina perché conferma stereotipi e pregiudizi legati a quel luogo; ma piace anche agli abitanti delle grandi metropoli sudamericane, perché in quelle storie vogliono riscoprire qualcosa di familiare che non c’è più.
Nel 2004 Giulio Angioni pubblica Assandira, la storia di Costantino Saru, un pastore sardo che, insieme al proprio figlio, decide di trasformare l’antica casa di famiglia in un agriturismo con lo scopo di attirare turisti stranieri desiderosi di sperimentare la “vera” vita sarda. Il romanzo porta in qualche modo avanti la lunga, cronica riflessione sull’identità dell’isola che, in questi anni sempre di più, si riduce ormai a un souvenir di una vacanza. Non è un caso che, nella trasposizione cinematografica di Salvatore Mereu (2020), a interpretare Costantino sia proprio Gavino Ledda. Così i gavino del ventunesimo secolo non imparano a mungere le pecore, ma le macchine del caffè; non guidano greggi, ma comitive di turisti; non impugnano bastoni intagliati, ma vassoi di plastica. Il tutto in nome di una «vocazione turistica» che richiama una visione di Sardegna, ma la edulcora e scolpisce per essere appetibile come meta da sogno per soggiorni estivi.
Rileggere oggi Padre padrone obbliga a confrontarsi con questa idea di Sardegna in maniera più schietta; significa riscoprire un’isola arcaica, sì, ma anche arretrata; selvaggia, ma anche barbara; autentica, ma abbandonata. Una Sardegna che, se cinquant’anni fa scriveva dei propri padri, oggi potrebbe raccontare solo i propri padroni. In questo, la letteratura deve avvertire la responsabilità che le compete: quella di creare i miti della contemporaneità, di sublimare la realtà dell’oggi, di offrire a un’isola una narrazione che la rappresenti per quello che è, seguendo l’esempio che i grandi scrittori e le grandi scrittrici hanno offerto. In un’epoca in cui a dirci chi siamo sono i manifesti pubblicitari, è un dovere per ogni artista rivendicare il proprio ruolo all’interno della società. Forse, però, questo agli esperti di marketing non piace. A me, invece, piacerebbe poter fare con tanti di loro quello che mia madre fece con me.
Quando ho cominciato a scrivere Adeu, il mio primo e finora unico romanzo, avevo trent’anni. È la storia di un figlio che, per volere della società, è costretto a uccidere il padre, ormai vecchio e improduttivo. Inizialmente il figlio è riluttante, ma a poco a poco comincia a farsi sedurre dal potere dell’indipendenza, dalla liberazione da un legame così forte e complicato. Il fatto è che trascorrere tanti anni da soli, nella stanza buia della vita, ci ha esposto al rischio della dipendenza, al furore dell’amore reciproco. Prima di mettermi a scrivere, ho ripreso in mano il libro che mia madre, anni prima, mi aveva lanciato addosso.
Nel rileggere la storia di Gavino, che lotta disperatamente per liberarsi dal giogo paterno, un gioco stretto, aspro e freddo, che costringe il figlio ad affondare nel solco del padre, ho provato e provo ancora oggi un’invidia disperata. Perché ribellarsi contro un padre padrone è un atto salubre, terapeutico, del tutto naturale; ma lottare per affrancarsi da un padre buono può essere una guerra al di fuori dell’umana portata. Forse anche per questo, negli anni, ho tentato di essere diverso da lui, di essere meglio, senza accorgermi che il primo a volermi diverso da sé era proprio lui. «Studia», diceva. «Studia» Nient’altro. A differenza di Gavino, non ricordo il tintinnio dei campanacci, né il passo pesante del mulo che segna il suo funesto arrivo. Solo il ciondolare delle chiavi, la porta che si chiude, uno sbadiglio per le scale mentre fuori neanche albeggia. E la mia testa ancora sul cuscino.
È proprio vero che «alla scuola del babbo si imparavano cose ben più profonde di quelle aste e di quelle consonanti» che si imparavano a scuola. E dunque, caro Gavino, dimmi: come posso non invidiarti?
Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
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Ignazio Caruso, nato a Catania, vive da sempre Alghero, in Sardegna. Insegnante di Lettere nelle scuole superiori, collabora con festival letterari (Isola delle storie – Gavoi, Entula, Dall’altra parte del mare), scrive su quotidiani e riviste e lit-blog. Suoi racconti sono stati selezionati per il Premio Calvino Narrativa Breve e per il Premio Treccani, altri sono stati pubblicati su quotidiani (Unione Sarda, Nuova Sardegna) e antologie. Adeu (2022), edito da Giulio Perrone Editore, è il suo primo romanzo.
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