di Abdelkrim Elalami
Biografia d’Ibn ʿArabī
Muḥyiddin Ibn ʿArabī è uno dei maggiori maestri del sufismo. Il suo nome completo è Abū ʿAbd Allāh Muḥammad Ibn ʿAlī Ibn Muḥammad Ibn ʿArabī Al-Ḥātimī Aṭ-Ṭāʾī. È soprannominato “aš-šayḫ al-akbar” (il Maestro più grande) ed è noto ai più anche come “Muḥyiddīn” (il Vivificatore della Religione). Nacque nel 1165 a Murcia, in Spagna, e morì nel 1240 a Damasco in Siria. Quella sessantina d’anni, egli li passò ricercando la via profetica percorrendo migliaia di chilometri, dalla Mecca all’Anatolia. Questo suo percorso spirituale segnato da travolgenti visioni estatiche lo portò a Siviglia, Fez, Marrakesh, Tunisi, la Mecca, Baghdad e Damasco per soddisfare la sua immensa brama di sapere.
Dopo i primi trentacinque anni della sua vita trascorsi in Andalusia, egli intraprese un lungo viaggio alla Mecca, la meta dei sapienti (al-’arifùn) e dei “fuqahā” (tradizionalisti ortodossi), in cerca di un’assemblea di Sapienti [1] da guidare nella via mistica. Durante gli ultimi 17 anni della sua vita, si stabilì a Damasco nella quale fu inumato.
Ibn ʿArabī è uno dei maestri sufi dell’Islam più difficili, a causa del linguaggio astruso delle sue opere e della complessità delle sue dottrine, ed è uno dei più fecondi e prolifici scrittori di tutti i tempi. Ibn ʿArabī è, infatti, autore di più di trecento opere, molte delle quali rimangono inedite. Il suo libro più importante è Kitāb al- Futuḥāt al-Makkiyya (Il Libro delle Rivelazioni Meccane). Nei dodici volumi che lo compongono, l’autore murciano non solo espone le dottrine inerenti al sufismo e alle scienze esoteriche, ma racconta anche le proprie esperienze spirituali. Il libro è, dunque, un enorme compendio della conoscenza spirituale in cui sono raccolte la tradizione, la riflessione e la percezione mistica.
L’altra sua opera principale è Fuṣūṣ al-Ḥikam (I Castoni della Saggezza), ove l’autore presenta il suo pensiero metafisico e la sua dottrina sul mondo e sui profeti basandosi sulle varie storie raccontate nel Corano.
Ibn ʿArabī è anche noto per le sue poesie. Oltre ai versi incastonate tra le righe dei suoi vari trattati, Ibn ʿArabī scrisse un canzoniere di poesie d’amore, Tarğumān al-Ašwāq (L’interprete delle Passioni Amorose). Questa raccolta è accompagnata da un commentario, Kitāb aḏ-Ḏaḫa’ir wa l-A’lāq fī Sarḥ Tarğumān al-Ašwāq (Il Libro dei Tesori e degli Splendori: Commentario dell’Interprete della Passioni Amorose), che spiega il significato allegorico dei versi, noto particolarmente a un pubblico costituito dal gruppo privilegiato dei Sapienti. Il diwān [2] contiene un messaggio cifrato per via dei termini mistici che costellano i versi e delle metafore e allegorie che caratterizzano il suo stile.
Quando si leggono le opere d’Ibn ʿArabī, una chiave importante per capirne i messaggi è imperniata sulla comprensione della dicotomia “Creazione e Creatore”, attraverso la chiave bipolare: conoscenza esoterica (‘ilm bāṭin) e conoscenza essoterica (‘ilm ẓāhir). Quest’ultima è accessibile alla gente comune che è sprovvista di preparazione iniziatica. Al contrario, la conoscenza esoterica è appannaggio degli iniziati, perché dipende non tanto dalle competenze mentali, bensì dalla conoscenza intuitiva e dalla percezione mistica del gusto (aḏ-ḏawq) [3]. Ciò che è recondito e inaccessibile può essere compreso e interiorizzato grazie alla sperimentazione in prima persona che appella all’ascesa mistica attraverso una serie di stati (aḥwāl) e di stazioni spirituali (maqāmāt) [4], a cui l’adepto sufi giunge tramite la rammemorazione del Nome di Allah (ḏikr) e l’estasi.
Il discorso sul ruolo svolto da Ibn ʿArabī nella diffusione del sapere e delle scienze religiose è delicatissimo, particolarmente se si prende in considerazione la bipolarità tra il suo ruolo di sapiente che prolunga la religione tradizionale ortodossa quando interpreta il Corano e diffonde i valori morali dell’Islam e il suo percorso esoterico che dà un quadro ben diverso dall’immagine dell’Islam ortodosso, perché strettamente legato ai percorsi iniziatici.
Il Mi’rāğ nella concezione d’Ibn ʿArabī
Il senso primario del termine è la Scala usata dal Profeta Muhammad per salire ai Cieli. Dietro il suo immediato significato si nasconde la percezione di ciò che è recondito e inaccessibile ai sensi, ma che può essere visto esclusivamente dagli eletti di Dio. Così, al Mi’rāğ vengono attribuiti due significati: il primo, più prettamente spirituale, basato sul versetto coranico «Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota, di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni» (Cor, 17.1) [5], è la professione di fede nei Segni di Allah, mentre il secondo è quello, più teologico, che risponde alle norme ricevute da Muhammad durante il suo colloquio con Dio, e particolarmente l’obbligo dei precetti come la preghiera e il digiuno [6].
Dall’Ascensione del Profeta ha preso radice, nella cultura araba e persiana, la letteratura del Mi’rāğ che ha adattato le scene narrate nel testo attribuito al tradizionista Ibn Abbas [7] a personaggi reali. L’imitazione del Mi’rāğ è da ricondurre a una corrente di pensiero mistico, in cui accanto alla fede nel messaggio del Profeta e nella rivelazione del Corano sono necessarie anche la ricerca e l’acquisizione della gnosi (al-ma’rifa) di tipo sperimentale o intuitivo, con la guida di un maestro. Ciò avviene attraverso il compimento dell’itinerario spiritualis nella via ascetica per aspirare al colloquio intimo con il divino amato e alla visio beatifica, il supremo segno della raggiunta prossimità a Dio.
Non è un caso, quindi, che anche per Ibn ʿArabī, il tema del viaggio oltremondano diviene una rappresentazione dell’ascensione del Profeta attraverso la quale egli aspira al contatto diretto con Dio, senza mediazione alcuna. L’imitatio prophetae è una modalità simbolica di ricerca della conoscenza, che si acquisisce, come da lui riportato nell’ introduzione delle Futuḥāt [8], per mezzi diversi:
a) Le conoscenze ottenute con la ragione (al-’aql);
b) Le conoscenze pervenute tramite la via dello svelamento intuitivo (al-kašf) e del gusto spirituale (al-ḏawq) [9] ;
c) Infine, la conoscenza dei misteri divini (‘ilm al-asrār), infusa nel cuore dell’adepto dallo spirito disceso dal Cielo. È chiamata “al-ma’arifa” (la gnosi) [10].
Data la sua origine divina, l’unico metodo che rende possibile il suo ottenimento è una profonda iniziazione mistica. L’iniziato deve unirsi ad una comunità di gnostici e, tramite questa catena iniziatica, una luce fluisce dalla fonte della rivelazione e s’infonde nel suo cuore. È una conoscenza superiore a quella acquisita con la ragione e a quella che si ottiene via lo svelamento e la percezione del gusto spirituale.
Emulando l’archetipo, Ibn ʿArabī cerca di conoscere fino al massimo della sua capacità i misteri divini che l’esperienza celeste simboleggia. Ibn ʿArabī la definisce con il termine “Elisir degli Gnostici” (iksīr al-’Arifīn) quando dice: «(la gnosi) è la scienza dell’Elisir nell’Alchimia Naturale che è l’“Elisir degli Gnostici”. Non conosco nessuno che abbia parlato di questo all’infuori di me stesso» [11].
Intimamente associati con l’ascensione sono il concetto di conoscenza e la figura della guida. Il ruolo della guida spirituale è centrale, ma dal punto di vista della gnosi è importante evidenziare che la ricerca della conoscenza è un percorso che comporta la prova della stanchezza la quale, alla fine, viene coronata con il raggiungimento della meta finale. E per illustrare il suo concetto, Ibn ʿArabī narra l’episodio avvenuto a Mosè quando intraprese un viaggio, assieme ad un ragazzo chiamato Yusha, in cerca di un uomo sapiente che elevasse il suo sapere (al Khidr). Citando il seguento passaggio coranico: «Quando poi furono andati oltre, disse al suo garzone: «Tira fuori il nostro pranzo, ché ci siamo affaticati in questo nostro viaggio!» [12], Ibn ʿArabī associa il viaggio alla prova della fatica che si conclude col momento del riposo e del pranzo. Perciò, la realtà della fatica e del coronamento come aspetti integranti della peregrinazione non va negata. Di fatto, il frutto della fatica del viaggio è la verità rivelata. Allo stesso modo di come il peregrinare terreno conduce il viaggiatore a meditare sui segni incontrati, nell’itinerario spiritualis lo studio dei segni dell’esistenza e dei loro significati mena il viatore alla conoscenza della potenza divina, avvicinandolo, in questo modo, all’Artefice dei segni.
Non si può trovare migliore illustrazione di quest’associazione (fatica/frutto) del Mi’rāğ del Profeta. Il famoso versetto «Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota, di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni» Cor, 17.1 è un riferimento diretto al fine dell’ascensione, ossia la visione dei segni dell’Artefice. Di fatto, l’archetipo e le imitazioni comportano entrambi, a livelli differenti, gli aspetti della prova e del suo frutto spirituale, intendendo questo termine nel suo senso universale, come verità divina contenuta in una forma rivelata.
L’ascensione alla ricerca della Perfezione
Per Ibn ʿArabī, tutti gli esseri prendono parte a un viaggio universale senza fine, in questo mondo e nell’altro. Nel suo trattato Kitāb al-isfār ‘an natā’iǧ al-asfār [13] (La Rivelazione degli Effetti del Viaggio), Ibn ʿArabī distingue tre tipi di viaggio (as-safar):
1) as-safar ‘an Allah (viaggio proveniente da Allah): Tale è il viaggio [compiuto] dall’uomo che, dopo aver visitato i vari mondi (‘awālim), è allontanato da Dio;
2) as-safar ‘ilā Allah (viaggio verso Allah) ed è un viaggio spirituale dell’uomo compiuto con l’aiuto di una guida al fine di attingere alla “Stazione dell’Unione con l’Intelletto Universale dopo la Separazione” (maqām al-ğam’ ba’da al-tafriqa);
3) as-safar fī Allah (viaggio in Allah) che culmina nel raggiungimento della meta finale, l’incontro intimo con il divino amato. Per questo, è chiamato baqā’ bi-Allah (la perenne compagnia di Dio) [14] e per questo è riservato agli eletti (ḫawāṣ).
Sebbene per molti la visio beatifica rimanga solo una possibilità latente, i santi eletti (ḫawāṣ) ne hanno sempre avuta piena esperienza. La loro meta finale, però, non può conseguirsi se non soddisfano alcuni requisiti (šurūṭ). Alcune di queste condizioni sono rispettate dal viandante adepto (as-sālik al murīd) e altre sono ricevute da una guida spirituale. Anche il viaggio del Profeta è effettuato sotto la guida dell’arcangelo Gabriele in persona.
L’intera questione del viaggio in Allah e l’unione che lo simboleggia evidenziano il ruolo importante del Maestro Istruttore, che è la fonte di una forma occulta di conoscenza e istruzione. Ma per diventare degno di questa sapienza, l’adepto viandante (as-sālik) non si deve limitare a compiere i precetti della šari’a (La Legge Islamica) ed adempiere agli obblighi religiosi, ma deve soddisfare quattro requisiti: il silenzio (aṣ-ṣamt), la lontananza dagli uomini (al-’uzla), la fame (al-ğū’) e la veglia (as-sahar). L’osservanza sincera di queste condizioni risveglierà nel cuore dell’adepto un amore (maḥabba) che crescerà fino a diventare una passione (‘išq); ed è questa passione che porterà l’uomo al cospetto di Allah. Durante il suo viaggio, il discepolo percorrerà una serie di stazioni (maqāmāt o manāzil) dove apprenderà varie conoscenze (ma’ārif). Una volta è purificato il suo cuore, egli può rimuovere il velo interiore (al-ḥiğāb) che lo separa dal Divino e avviene l’unione (al-waṣl).
Il racconto del viaggio del profeta comincia col viaggio notturno (al-isrā’) dalla Mecca alla Moschea Remota di Gersusalemme e prosegue con l’ascensione celeste (al-Mi’rāğ). Per l’adepto sufi che effettua l’imitatio prophetae, la vita nel mondo terreno è finalizzata all’acquisizione delle scienze, mentre la vita eterna nell’aldilà è dedicata al godimento. Per questo, con il peregrinare terreno egli aspira ad ottenere l’Adempimento (at-tamām) ma con l’ascensione verso l’altro mondo egli aspira alla Perfezione (al-kamāl). Per poterla avere, dovrà possedere contemporaneamente la conoscenza acquisita con le opere e la riflessione e la conoscenza rivelata. In ogni caso, le verità rivelate superano le conoscenze acquisite, ma la perfezione è fondata sull’unione di entrambe. Questa unione è esemplificata dal primo figlio di Abramo, Ismaele, che è allo stesso tempo «acquisito» perché chiesto dal padre quando chiese a Dio di donargli un figlio [15], e «donato» perché ad Abramo Allah ordinò di risparmiare la sua vita e di sacrificare al suo posto un agnello.
È possibile aggiungere che il viaggio comporta due dimensioni: l’ascensione alla ricerca della Visio Beatifica [16] e il ritorno dall’aldilà. La prima dimensione è propria di coloro che si arrestano eternamente alla contemplazione dell’Essenza divina. Si tratta della categoria dei wāqifūn. La seconda categoria è quella di coloro che ridiscendono sulla terra (ar-rāği’ūn) [17] per perseguire la perfezione o per guidare le creature. Il viandante che ritorna dall’aldilà per perfezionare se stesso per una via diversa da quella che ha seguito è chiamato «al-’ārif» (lo gnostico). Se, invece, egli è inviato alle creature per dirigerle e guidarle con la parola, questi è chiamato «al-’ālim al- wārit» (il sapiente erede). Ed è il caso d’Ibn ʿArabī che, in virtù del suo statuto di erede della santità muhammadiana, assume il ruolo di vicario (ḫalifa) del Profeta sulla terra e svolge la funzione del Polo [18] chiamato a guidare le creature.
Le visioni d’ Ibn ʿArabī
Quattro testi d’Ibn ʿArabī traggono ispirazione dal racconto del Mi’rāğ e raccontano in maniera diversa i suoi viaggi nell’aldilà. Nel 1198, egli compose a Fez kitāb al- isrā’ [19] (il Libro del Viaggio Notturno). A Konya, egli scrisse sette anni più tardi [20] l’epistola Risālat al-anwār (L’Epistola delle Luci). Nell’epistola rivolta ad un amico, egli descrisse la sua ascensione mistica attraverso i livelli dell’essere e della conoscenza per raggiungere la visione del Signore, il grado più alto della perfezione umana. Nel capitolo 327 di Kitāb al-Futuḥāt al-Makkiyya, (Il Libro delle Rivelazioni Meccane), l’esperienza ascensionale del mistico murciano è raccontata nel dettaglio. La sua ascesa, anch’essa proiettata verso l’ottenimento della gnosi, si conclude con il ritorno al mondo delle creature dotate della conoscenza [21]. Se in queste tre visioni, il viaggio d’Ibn ʿArabī nel mondo dell’aldilà si attua in prima persona, nel trattato intitolato “kimiyā’ as-sa’āda” (l’Alchimia della Felicità), che appare nel capitolo 167 delle Futuḥāt [22], la descrizione dell’ascensione avviene in modo impersonale.
Il viaggio come esperienza personale (Il capitolo 327 delle Futuḥāt)
L’ascensione d’Ibn ʿArabī è stata a lungo considerata un perfetto esempio del ciclo del al-Mi’rāğ attraverso il quale è espressa l’aspirazione di conoscere il Signore e di contemplare i misteri celesti. Ibn ʿArabī, in virtù del dono dell’intuizione visionaria, attualizza in spirito l’ascensione in corpore di Muhammad, di cielo in cielo fino al Trono Divino. Ma prima di intraprendere il viaggio, egli si spoglia degli elementi umani, perchè la sua ascesa è un’esperienza estatica e non un viaggio con il corpo e l’anima come quello del profeta. Tutto ciò ch’egli contempla e tutte le figure profetiche ch’egli incontra sono il frutto della sua immaginazione creativa, com’egli conferma: «Il mio viaggio si è effettuato dentro me stesso» [23]. Non per niente le principali narrazioni dell’Ascensione dei sufi sono fatte in prima persona. Ciò li ha indotti a rivendicare per sé soli il grado della santità (wilāya) e il privilegio di poter dialogare con il Signore.
Il resoconto dell’ascensione in prima persona è riportato in kitāb al- isrā’ [24] (il Libro del Viaggio Notturno) e in Risālat al-anwār (L’Epistola delle Luci). L’attenzione di questi due testi è focalizzata non sulle modalità dell’ascensione, né sugli incontri con i profeti, né tanto meno sulle conoscenze aquisite, ma piuttosto sull’esaltazione del viandante eletto, cioè sul suo ruolo di gnostico erede che ha conseguito dopo essere giunto al loto del limite (sidrat al-muntahā) ed essersi annichilito in Dio.
Anche il racconto del capitolo 327 delle Futuḥāt proclama l’elezione dell’autore mistico mettendo in risalto il suo alto grado di perfezione, che lo distingue dalla gente comune. In questo testo si legge una descrizione più dettagliata dell’evento con immagini che ricordano gli incontri e le dotte discussioni dell’Alchimia della Felicità. L’ascensione avviene attraverso i sette cieli dell’ordine caldeo (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) e in ognuna di queste sfere planetarie, il pellegrino incontra i profeti (Adamo, Gesù insieme a Giovanni Battista, Giuseppe, Idris (Enoch), Aronne, Mosè e Abramo) che gli insegnano i misteri della filosofia naturale e della cosmologia.
Prima di giungere al primo cielo dove incontra il Padre dell’Umanità Adamo, egli si spoglia del suo corpo [25] e prosegue il viaggio con l’anima. In questo cielo, Adamo gli rivela che la Felicità eterna rappresenta il destino per tutti gli uomini senza eccezione e che il castigo dell’Inferno e l’ira divina non sono eterni ma cesseranno nel Giorno del Supremo Giudizio.
Nel secondo cielo, il viandante incontra Giovanni Battista (Yaḥyā) e Gesù. Questi gli spiega che i suoi miracoli (il guarire i lebbrosi, il risuscitare i morti e il dare vita a degli uccelli di argilla) sono segni provenienti dalla sua natura spirituale primordiale che detiene dall’angelo Gabriele quando apparve (tamaṯṯala) a Maria sotto forma d’uomo perfetto e le soffiò (dentro) lo spirito di Gesù. Giovanni Battista, da parte sua, gli ricorda il suo privilegio di far «morire la morte» nel Giorno della Resurrezione, in virtù del suo nome «Yaḥyā» [26] datogli da Dio. Ibn ʿArabī ribatte: «Ma nel mondo ci sono molti uomini che portano il nome «Yaḥyā». Allora, Giovanni Battista gli risponde: «Sì, ma io possiedo la preminenza di questo nome (martabat al-awwaliyya). Così, poiché io sono la manifestazione del Nome al-Muḥyī, attraverso me vivono questi uomini.»
Al terzo cielo, Ibn ʿArabī incontra Giuseppe che gli fa un’interpretazione del ḥadīth [27] del profeta Muhammad: «Che Allah abbia misericordia di mio fratello Giuseppe, se fossi stato al suo posto sarei uscito dalla prigione senza altro indugio» [28]. Questo ḥadīth fa allusione all’episodio coranico in cui Giuseppe rispose al messaggero di Faraone che avrebbe accettato la sua liberazione soltanto se la moglie del visir, che lo aveva accusato, avesse confessato di aver tentato di sedurlo.
Al quarto cielo, Ibn ʿArabī è accolto da Idris (Enoch), il quale lo saluta e gli parla del tağdīd al-ḫalq (il rinnovamento continuo della creazione). Al quinto cielo, Ibn ʿArabī incontra Aronne che gli rivela che in questa sfera si realizza la missione del califfo per l’umanità e gli afferma ch’egli rappresenta l’«Erede perfetto».
Al sesto cielo, Mosé gli spiega la nozione della teofania divina (taĝallî) ricordandogli com’egli cadde abbattuto al vedere la teofania di Dio schiacciare la montagna [29]. Poi aggiunge che gli Uomini di Dio, invece, restano impassibili alla contemplazione di Dio in virtù dei propri stati spirituali, Infatti, i santi contemplano la teofania divina con gli occhi della trascendenza (tanzîh) e della rassomiglianza (taŝbîh), in relazione i primi con l’Essenza, gli altri con i Nomi e gli Attributi di Dio. Ed è in virtù della scienza che possiede dei Nomi Divini che il santo ha ricevuto, la teofania gli assegna il valore incommensurabile d’una manifestazione divina ch’egli è in grado di ricevere a seconda della sua preparazione iniziatica.
Giunto al settimo cielo, il viaggiatore Ibn ʿArabī trova Abramo appoggiato colla schiena contro la Ka’aba Celeste (al-bayt al-ma’mūr), e da qui prosegue la sua ascensione in direzione del Loto del Limite (sidrat al-muntahā). Ibn ʿArabī poi racconta la fine dell’Ascensione dicendo: «Diventai tutta luce …poi Dio fece scendere su di me la Sua parola: «Di’: «Crediamo in Allah e in quello che ha fatto scendere su Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e le tribù, e in ciò che, da parte del Signore, è stato dato a Mosè, a Gesù e ai profeti: non facciamo alcuna differenza tra loro e a Lui siamo sottomessi». Attraverso questo verso, Egli mi ha dato tutti i versi… Così seppi ch’ero la totalizzazione di coloro che mi erano annunciati (mağmū’ man ḏukira lī); questo era per me l’annuncio ch‘io avevo raggiunto la Stazione Muḥammadiana. Durante questo Viaggio Notturno, ottenni la significazione di tutti i Nomi Divini e appresi che tutti si riferivano ad Uno solo e ad una Unica Essenza. Questo Uno era l’oggetto della mia contemplazione e questa Essenza il mio proprio essere. Io avevo viaggiato dentro di me e verso di me stesso ero stato guidato; così, seppi ch’ero un servitore puro, che non possiede la minima traccia di sovranità
Qui termina il racconto visionistico d’Ibn ʿArabī che, alla fine ammette la propria «condizione di servitù» (al-’ubūdiyya) davanti all’assoluta sovranità di Dio, come espressione della suprema esperienza dell’annientamento di sé.
L’ascensione come esperienza impersonale (kimiyā’ as-sa’āda)
Il titolo di questo trattato suonerà in qualche modo familiare ai conoscitori della vasta letteratura sufi e teologica del mondo islamico. Infatti, il titolo kimiyā’ as-sa’āda richiama immediatamente altre due opere omonime. L’una scritta dallo stesso Ibn ʿArabī ha come titolo «kimiyā’ as-sa’āda li ahl al-irāda» (L’ Alchimia della Felicità destinata agli uomini animati dalla volontà Divina); l’altra, anch’essa intitolata kimiyā’ as-sa’āda (L’Alchimia della Felicità) è scritta da Algazel (Al-ghazāli) (1058-1111) ed è una versione persiana del suo monumentale compendio (‘ihyā’ ‘ulūm ad-dīn) (La Vivificazione delle Scienze Religiose). Questo libro è un’enciclopedia teologica che tratta i costumi, l’ascesi spirituale e le pratiche rituali. In altri termini, l’Alchimia é pressoché inesistente in questo libro e la Felicità di cui Algazel fa l’apologia è imperniata sulla dimensione dell’etica religiosa.
Quanto a Ibn ʿArabī, la sua concezione dell’Alchimia della Felicità è largamente diversa. Nelle prime pagine del suo trattato, Ibn ʿArabī si esprime sul significato del titolo e definisce il concetto di «Felicità» dichiarando che la «Perfezione» ne è la fonte metafisica [30].
Contrariamente a quanto si possa intuire dal titolo, il testo non offre una «ricetta» per ottenere la felicità. La felicità qui intesa non è quella che l’uomo aspira ad avere nel mondo terreno, ma è la «Felicità Paradisiaca» (sa’āda ğanāniya) propria della natura angelica degli esseri paradisiaci. Per ottenerla, l’uomo deve ricercare la Perfezione divina (al-kamāl) per cui Dio ha creato l’uomo [31] e per raggiungere tale «Perfezione» bisogna assimilarsi al Principio originale che è la fonte unica della vita e della conoscenza. Così, Ibn ʿArabī si propone di mostrare in questo trattato che la Ricerca della Perfezione esige di compiere, sotto la guida del Profeta delle anime (l’Inviato Celeste), un’ascensione verso l’aldilà ad imitazione del Mi’rāğ del profeta.
Al contrario di kitāb al- isrā’ ilā al-maqām al-asrā (Libro dell’ascensione verso la stazione più nobile) e di Risālat al-anwār (L’Epistola delle Luci), in questo testo il protagonista non è più l’autore che attraverso la visione giunge alla presenza di Dio, bensì due pellegrini. Il primo è l’«adepto», un discepolo credente che rimette l’anima e la fede all’«Inviato celeste», il quale ha una funzione iniziatica per gli awliyā’ (i santi) esattamente come quella che ha svolto l’Angelo Gabriele nei riguardi del profeta Muhammad. Perciò, egli è accolto dai sette profeti che gli insegnano i misteri dell’Universo. Il secondo personaggio è il pensatore razionale che disdegna l’aiuto dell’Inviato, non riconoscendo in lui la superiorità riguardo alle facoltà cognitive e la capacità di guidarlo attraverso la «Scala degli spiriti» alla presenza dei profeti e quindi alla Perfezione. A differenza dell’adepto, egli può soltanto intrattenersi e discutere con le Intelligenze celesti, le quali sono servitori dei profeti.
L’ascensione dei due viandanti si compie con mezzi diversi. Mentre il pensatore razionale si giova del burāq [32], simbolo della ragione umana, l’adepto è trasportato via una ghirlanda luminosa (ar-rafraf) [33], che simboleggia la luce della grazia divina. I due viaggiatori attraversano le sette sfere planetarie nell’ordine caldeo (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno). In ciascuna di queste sfere, il pensatore razionale conversa con le Intelligenze angeliche, che secondo la cosmologia neoplatonica e avicenniana, recepita da Ibn ʿArabī, presiedono al moto di ciascuna sfera. L’adepto, invece, apprende i misteri della filosofia naturale e della cosmologia che i profeti vanno via via svelandogli. Nelle dotte discussioni di cui è pregna l’opera si concentrano le questioni fondamentali del sistema teologico, teosofico e filosofico d’ Ibn ʿArabī.
La seguente è una tavola riassuntiva in cui accenniamo ai personaggi incontrati dai due pellegrini e ai temi discussi in ogni sfera.
Ordine | Luogo | L’interlocutore dell’Adepto | L’interlocutore del Pensatore razionale | Gli argomenti affrontati |
Sfera I | Luna | Adamo | Intelligenza della luna | -Influsso creatore dei numeri che, per Ibn ʿArabī, sono i prototipi di ogni sostanza creata.-I fenomeni fisici del cosmo sublunare |
Sfera Il | Mercurio | Gesù e Giovanni Battista | Intelligenza di Mercurio | Eziologia divina del Corano, il mistero generatore della parola “fiat” [34] (Kun) e meccanismo esoterico dei miracoli di Gesù. |
Sfera III | Venere | Giuseppe | Intelligenza di Venere | -Ordine, bellezza e armonia del cosmo-L’arte della poetica-La scienza occulta dell’interpretazione dei sogni |
Sfera IV | Sole | Enoch | Intelligenza del Sole | Cause astronomiche dell’alternarsi del giorno e della notte e il suo senso mistico |
Sfera V | Marte | Aronne | Intelligenza di Marte | Il retto governo dei popoli, le sue norme fondamentali, benignità della legge coranica |
Sfera VI | Giove | Mosè | Intelligenza di Giove | -Spiegazione del sistema mistico di Ibn ʿArabī a partire dall’esegesi del miracolo della verga di Mosè, mutata in serpente:-sono le forme e gli accidenti che cambiano, mentre la sostanza (Dio) rimane immutata |
Sfera VII | Saturno | Abramo | Intelligenza di Saturno | La vita futura |
Nel cielo di Saturno, Abramo, appoggiato al muro della Casa abitata (la ka’aba celeste), spiega all’adepto la questione escatologica della vita futura. Non potendo ottenere tali spiegazioni dall’Intelligenza celeste che presiede al moto di questa sfera, il pensatore razionale si rivolge al profeta Abramo. Questi non solo si rifiuta di venirgli incontro ma introduce l’adepto dentro la Casa Abitata dai beati (la ka’aba celeste) mentre lo lascia scornato alla porta. Qui si ferma la sua ascensione mentre quella dell’adepto prosegue in tre tappe. Infatti, questi sale dapprima al Loto del Limite [35] prima di giungere alla sfera delle Stelle Fisse, popolata da cori angelici e anime sante. Infine, egli arriva all’ultima sfera, il Cielo dello Zodiaco, che presiede con il suo influsso ai fenomeni del Paradiso Celeste. La luce ineffabile del Trono Divino abbaglia l’adepto che cade in estasi. Finalmente, egli raggiunge il Trono, che è sostenuto da cinque angeli e tre profeti (Adamo, Abramo e Muhammad).
Da questa tappa, inizia l’ultima parte del viaggio che riguarda le idee mistico-speculative d’Ibn ʿArabī. L’adepto contempla rapito il mondo delle idee platoniche elementari (la materia, la natura, l’anima e l’intelletto universale) che sono emanazioni dell’Uno Creatore e si manifestano all’adepto sotto simboli coranici. Il viaggio del pellegrino, invece, termina dentro un Nembo misterioso, epifania di Dio e simbolo della materia primordiale che nella filosofia «neo-empedoclea» d’Ibn ʿArabī è concepita come sostanza comune al Creatore e alla creatura. Qui termina il viaggio dell’adepto che ritorna e ritrova il suo compagno di viaggio di fronte alla porta del Regno Celeste. Questi rinnova il suo pentimento e si converte alla fede musulmana.
Poichè i maggiori esponenti del sufismo hanno imitato l’esperienza suprema del Mi’rāğ del profeta, è legittimo parlare del ciclo del Mi’rāğ formatosi sul modello del viaggio ultramondano raccontato nel Libro della Scala e nel ḥadīth d’Ibn Abbas.
Perciò, possiamo concludere che l’archetipo del viaggio mistico d’Ibn ʿArabī è il Mi’rāğ del profeta Muhammad, com’è dimostrato dalla perfetta somiglianza tra i sette livelli percorsi dal viandante lungo il suo cammino ascensionale verso Dio, nonché il dialogo con i profeti e la posizione del Loto del Limite in cui accade il fana’ fi’llah, l’annichilimento dell’anima del pellegrino e la sua resurrezione in Dio e del Trono.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] In arabo (ǧamā’at al-’arifīn)
[2] Termine arabo che indica raccolta di poesie o canzoniere
[3] Riferimento alla percezione spirituale del cuore, una qualità intellettuale ottenuta dopo un percorso iniziatico
[4] Il termine “maqām” nella tradizione sufi si riferisce ad una stazione spirituale. I sufi sperimentano diverse stazioni spirituali e ognuno parla della propria esperienza. A differenza del termine “ḥāl” che indica la stazione spirituale concessa da Dio all’adepto sufi, il termine “maqām” si riferisce alla stazione alla quale giunge il mistico attraverso lo sforzo personale.
[5] Per la versione italiana dei significati del Corano, è stata utilizzata la traduzione a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton Compton Editori 2015
[6] Tra le norme ricevute c’era l’obbligo di compiere cinquanta orazioni quotidiane. Su suggerimento di Mosè, Muhammad chiese a Dio di alleggerire il precetto finché Allah lo ridusse a cinque orazioni ogni giorno.
[7] Ibn abbas è parente di Muhammad. Questa versione autentica del Mirag è stata poi raccolta da Muhammad Ibn Ishaq, morto verso il 768, nel suo Siràt al Rassul (Biografia del Profeta)
[8] Ibn ʿArabī, Futuḥāt, vol. I.: 33 sqq. Cf. Anche III: 505.
[9] Si tratta delle conoscenze e delle realtà divine che non si possono ottenere con la ragione. Anzi, queste conoscenze vengono intuite dall’iniziato sotto forma di svelamento intuitivo.
[10] Ibn ʿArabī, Le dévoilement des effets du voyage (Kitāb al-isfār ‘àn natā’ig al-asfār), tradotto da Denis Gril, Editions de l’Eclat, Combas 1994.
[11] Ibn ʿArabī, kimiyā’ as-sa‘āda (L’alchimia della felicità), trad. nostra. Slaiki editore, 2023.
[12] Cor, 18.62.
[13] Ibn ʿArabī, Le dévoilement des effets du voyage (al-isfār ‘àn natā’ig al-asfār), op. cit.
[14] Questo viaggio è riservato agli eletti. Colui che l’effettua raggiunge la sua meta, la visio beatifica e l’Unione con l’Intelletto Universale, e perciò gode della perenne compagnia del Signore.
[15] Malgrado la vecchiaia, Abramo rivolse a Dio la preghiera di avere un figlio sottomesso a Dio, che portasse avanti la fede nel Dio unico «donami un [figlio] devoto» (Cor. 37-100)
[16] S’intende la visione del volto di Allah, che, pur essendo inaccessibile alla gente comune (perché Allah è “Luce su Luce”, Cor, 24.35 e nulla è pari a Lui), al walī appare vicina interiormente.
[17] Ibn ʿArabī, Risālat al- anwār (L’Epistola delle Luci)
[18] Ossia l’intermediario diretto tra il mondo e Dio che ha la responsabilità di guidare la gente.
[19] kitāb al-isrā’, op. cit.
[20] nel 1205
[21] Non a tutti è dato comprendere le sue dottrine
[22] Ibn ʿArabī, Futuḥāt, II: 270-283
[23] Ibn ʿArabī, Futuḥāt, III: 350.
[24] kitāb al-isrā’, op. cit.
[25] Al contrario del Profeta che compie la sua ascensione in corpore, gli “awliyā’” (i santi) ascendono solo in spirito dopo avere rinunziato al corpo.
[26] Che significa letteralmente («egli vive»).
[27] Una narrazione relativa a fatti del Profeta o a detti attribuitigli
[28] ḥadīth n.591 narrato da Abu Huraira.
[29] «E quando Mosè venne al nostro luogo di convegno, e il suo Signore gli ebbe parlato, disse: « O Signor mio, mostraTi a me, affinché io Ti guardi». Rispose: «No, tu non mi vedrai, ma guarda il Monte, se rimane al suo posto tu Mi vedrai». Non appena il suo Signore si manifestò sul monte esso divenne polvere e Mosè cadde folgorato. Quando ritorno in sé, disse: «Gloria a Te! Io mi pento e sono il primo dei credenti» Cor, 7. 143.
[30] Ibn ʿArabī, Futuḥāt, II: 275-280.
[31] Ibn ʿArabī, Futuḥāt, II: 375.
[32] Secondo i lessicografi arabi, il significato del nome “al-burāq” è «fulgore, splendore». Ma “al-burāq” citato nella letteratura del Mi‘rāğ è una cavalcatura alata. Questa curiosa interpretazione va riconnessa con l’aggettivo «abraq» riferito alla caratteristica di avere abbinati insieme il bianco e il nero.
[33] Il “rafraf” è la ghirlanda luminosa che innalzò il profeta Muhammad fino al Trono Divino.
[34] La parola «fiat» deriva dalla frase biblica fīat lūx ‘sia fatta la luce’ pronunciata da Dio nell’atto di creare il mondo. Il verbo latino fiĕri che significa letteralmente «divenire» è alla terza persona singolare del presente congiuntivo mentre il verbo «kun» che significa «esisti» è alla seconda persona dell’imperativo.
[35] Il Loto del Limite (sudrat al-muntahā) è un albero paradisiaco i cui frutti simboleggiano le opere meritorie dei beati. Ai piedi di questo albero scorrono quattro fiumi mistici: tre rappresentano il Pentateuco, i Salmi e i Vangeli, mentre il maggiore rappresenta la fonte degli altri, ossia il Corano.
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Abdelkrim Elalami, professore di lingua e letteratura italiane presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura Italiana dell’Università di Rabat, ha studiato al Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna. Specializzato nella letteratura comparata, particolarmente nei rapporti tra Dante e la cultura islamica e nel Sufismo musulmano, ha ricoperto l’incarico di capo del Dipartimento degli studi italiani presso la Facoltà di Lettere e Scienze Umane di Rabat e ha contribuito alla promozione del Master di Traduzione Letteraria e Culturale presso la stessa Facoltà.
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