di Leo Di Simone
Si può affermare che la pace sia il mito prevalente del nostro tempo? Costruirlo può equivalere a costruire la pace nel concreto? Sarebbe bello costruire un mito per ottenere pace, ma il mito non si costruisce a priori, e semmai è il racconto del vissuto, di un vissuto drammatico sin dalla sua origine, di come il pensiero umano “immagina” il dramma dell’origine, l’origine della storia umana fino al presente frastornato dai fragori della guerra. È nel mito, anzitutto, che bisogna indagare, perché rimanda ad un’origine più remota, alla ricerca di uno sfondo primordiale.
Oggi un mito forte sembra essere quello della “guerra” che mette in ombra la pace di cui si parla continuamente ma più se ne parla più sembra sfuggirci: se ci fosse, e fosse forte del suo significato originario, quello divino e universale, non ci sarebbe bisogno di parlarne tanto. Eirene, la pace, è il nome divino che i Greci attribuirono ad una dea, che operava insieme a due sorelle, Eunomia, personificazione della legalità e del buon governo, e Dike, la giustizia morale, la giustizia del diritto, quella che presiede alle leggi degli uomini. Per dire che la pace non cammina mai da sola, che non può darsi senza diritto e senza giustizia.
Eirene era raffigurata con un ramoscello d’ulivo dentro una cornucopia mentre teneva in braccio un bambino, il piccolo Pluto, che in Grecia era il simbolo della ricchezza e dell’abbondanza, a significare che ricchezza e abbondanza si possono trovare solo in tempo di pace. A noi è rimasto il ramoscello d’ulivo e la colomba che lo porta, così come nel mito dell’arca di Noè, ma dei miti e dei loro significati ce ne siamo dimenticati appuntandoci sul fatto che sono “favole” che in tempi di “ragione” come il nostro valgono solo per i bambini. E invece dobbiamo comprendere che ne sono sorti di nuovi e non tutti utili a capire il senso della vita ed anzi significanti essi stessi una mancanza di significato che caratterizza la nostra epoca. Per rivivificare il mito della pace dobbiamo comprendere che oltre la sua assenza reale nella nostra vita c’è anche la sua assenza nel pensiero, perché abbiamo perso il senso della relazione e il significato delle parole, e le parole, come ricordava Heidegger, sono la casa dell’essere. La Pace attiene al mito e del mito dobbiamo ripercepire il valore.
Ogni cultura vive dentro il proprio mito, cioè dentro il senso del suo esserci. Ogni epoca racconta il suo, come principio della sua stessa identità e presenza nello spazio e nel tempo. Il mito offre ai suoi abitanti un principio e un orizzonte di intelligibilità che permette loro di forgiarsi una visione del mondo. Il mythos (per superare la banalizzazione e la volgarizzazione che il termine “mito” assume nel lessico comune) nella dinamica culturale è ciò per cui acquista senso concreto ciò che si chiama origine, bene, verità, bontà, bellezza e non per ultimo realtà. Ogni cultura crede nei propri miti e quando ci si dimentica della relatività delle convinzioni che sono racchiuse in alcuni di loro, si corre il rischio di convertire idee e valori di quella cultura in assoluti. È il rischio delle culture che si sono chiuse in se stesse, convinte della loro superiorità. Non è facile uscire dal proprio mito, né è facile accettare, né tantomeno entrare, nei miti di altre culture, a meno che un evento traumatico non ne infranga la consistenza o un incontro/scontro (un processo di acculturazione) non ne metta in evidenza la debolezza narrativa. Guerre, epidemie, cataclismi naturali, nuove scoperte scientifiche sono eventi favorevoli alla demitizzazione e al crollo dei miti. L’origine misteriosa, ignota o celata dell’ultima pandemia planetaria, per esempio, ha incrinato non poco il mito dell’onnipotenza della scienza, mentre la nostra ignoranza del macrocosmo come del microcosmo, in seguito ad importanti osservazioni scientifiche, non può che riaffermare, dopo il buon Kant, tutti i limiti dell’intelletto umano.
In questo senso, si può anche affermare che «la scienza non dice come le cose sono, ma come gli uomini di epoca in epoca le interpretano. Quindi la scienza, a pari del mito, è interpretazione», per cui «la distanza tra mito e scienza forse non è così abissale come la scienza vuol far credere, in ciò aiutata dalla religione e da certa antropologia, dalla simbologia e dalla psicologia che amano ribadire la differenza per ritagliarsi un po’ di autonomia» [1]. Ci sono allora miti che si sono amalgamati con l’epistéme, ciò che Platone indica come sapere certo, acquisito, che si contrappone all’opinione del singolo, alla doxa, e che nella sua filosofia scaturisce dal mito quale strumento metafisico, sostegno del logos, ausilio della ragione quando questa è costretta a fermarsi perché ha a che fare con enti che non sono passibili di analisi rigorosa, di misurazione certa, e la sua lingua incapace di de-finizione: essere, intelletto, anima, libertà, giustizia, amore, tempo, storia, pace… il ni-ente, Dio che non è certo un ente. L’impossibilità di dare risposta al turbamento originario da cui nasce la filosofia, il thauma che origina la domanda: “perché l’ente e non il niente?”. Così comincia il primo libro della Metafisica di Aristotele: «Gli uomini furono mossi a filosofare dal thaumazein, uno stupore che si unisce allo sgomento di fronte a qualcosa che affascina e, insieme, spaventa» [2].
Anche la filosofia è stata un mito dell’Occidente, insieme a quello della fede, della ragione, dell’umanesimo, del progresso, dell’autonomia della scienza, dell’evoluzione, della rivoluzione, della laicità, della modernità, ed oggi quello della globalizzazione che domina la cultura mondiale: un mito di origine europea e di stampo colonialista, che naviga appaiato a quello dello sviluppo economico e con esso costituisce il vanto e l’orgoglio della cultura di massa, sempre più supinamente soggetta al livellamento mitico della monoculturalità, nonostante il rilevamento del multiculturalismo gestito col mito della tolleranza e fatto passare per conquista democratica, dove la democrazia è solo un mito di bandiera e uno slogan di propaganda di un’idea senza più contenuti, come li aveva nella grecità antica e diversi da come noi li immaginiamo: nessuno sa in che cosa veramente consista, eppure molti la invocano come un mito planetario e pacificatore, mentre altri la considerano la copertura di interessi economici che speculano sulla guerra con enormi profitti. Non si riesce a capire, mancano i linguaggi, e una stessa parola assume significati contraddittori. Si può dire sia in atto la riculturazione del mito archetipico della torre di Babele? Tentazione e persuasione della sua reificazione nonostante la contraddizione del suo significato che traiamo dalla Bibbia?
Mito di fondazione della consistenza antropica nel suo archè culturale, quello della torre di Babele:
«Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”» (Gn 11, 1-5).
Inizia la storia della tecnologia, della cultura, l’orgoglio dell’homo faber, che viaggia da est ad ovest, si insedia, fonda le città, pretende di raggiungere il cielo come punto più alto della sua conquista, della sua intelligenza. Ma quello della monoliticità della poiesi antropica è solo un sogno, mentre la realtà del mondo non è quella di essere universo ma pluriverso. Il mito ci dice che l’interpretazione metafisica del mondo e dell’uomo stesso non corrisponde al principio di realtà e che di fatto si tratta di un mistero. Nel mythos infatti interviene il Signore a correggere il tiro:
«Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Gen 11, 6-9).
L’idea umana sembra non coincida con quella del creatore che conosce perfettamente l’essere creato; «sa che la natura dell’uomo non è gregaria, collettiva, che ciascun essere umano è un re, un microcosmo, e il cosmo è un pluriverso, non un universo. Questo creatore sembra essere nel suo proprio ruolo quando distrugge tutte le imprese umane tendenti a comode delimitazioni» [3], definizioni, recinzioni. Nonostante la disillusione l’umanità ha continuato a coltivare il sogno di una grande città che racchiuda tutto, di una grande civiltà che primeggi su tutto; di grandi imperi che accorpino territori vasti e popoli diversi; quanti ne ha contati la storia di progetti megalomani di reductio ad unum della variegazione, della ricchezza, della policromia, della polifonia dei popoli e delle culture, sotto la guida di uno solo, di un solo mitico dio, perché divino dev’essere colui che guida una tale impresa fomentata dall’orgoglio, dalla superbia, dall’illusione di essere Dio, secondo l’ammissione dell’altro mito archetipico della stessa narrazione genesiaca: «Sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 5); e la necessaria conseguenza che la prosecuzione narrativa del mito ci consegna come un mantra: l’uccisione di Abele da parte di Caino, l’uccisione della fraternità umana, del sangue come collante dei mattoni della città, la prima, il prototipo, che Caino costruirà (Cf. Gn 4, 17-18). E nella città si annida il germe della guerra, la lotta per la sua tutela, la difesa del suo limite, il sogno della sua espansione.
Qui tutta la filosoficità del mito, la sua azione reggente di un thaumazein metafisico senza l’apparenza di un logos, di un suo apodittico mostrarsi, da cui la domanda: Unde malum? Perché la brama di possesso, di conquista, di prevaricazione, di espansione oltre i limiti della contingenza storica, della fisica fragilità ontologica, a prezzo del sangue e della perversione della razionalità, distintiva dell’antropo secondo Aristotele, per fini di morte, di distruzione, di guerra? Il mito cela e rivela l’interrogazione filosofica sulla libertà che scaturisce dalla conoscenza, in quanto il divieto stesso di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza “del bene e del male” procura la conoscenza che esso stesso proibisce. La conoscenza della libertà si riflette nella coscienza come orizzonte seducente di possibilità, di desiderio, di seducibilità dell’orizzonte della vita, perché accanto all’albero della conoscenza c’è, nel giardino paradisiaco, anche quello della vita (Gn 2,9), stando al mito.
Il mito racconta che col divieto entra nel mondo dell’uomo una realtà mentale che è il pronunciare del “no” che la proibizione stessa contiene, e col “no” la paura della chiusura nella proibizione a scapito della libertà; per cui il desiderio di essere come Dio, onnipotente, e l’illusione frustrata dalla storia, dell’esserci nel labirinto della storia dal momento che la consumazione dell’albero che stava al centro del giardino ha un risultato disorientante che costringe l’uomo a pretendere di essere il fondamento di se stesso, essendo rimasto solo, senza Dio, né natura, né fratelli. In conflitto perenne con l’alterità come realtà, difficilmente “conoscibile”, un groviglio d’essere e di scelte, una complicazione della vita. Così l’albero della conoscenza torna a tentarci, facendoci dimenticare l’altro albero, quello più importante: l’albero della vita.
Ed è il disorientamento l’orientamento vagante del babelico “postmoderno” che nonostante il crollo dei miti occidentali su accennati si attarda a coltivare una metafisica dell’irrealtà, senza tener conto della decostruzione che se n’è fatta nel XX secolo da parte di una filosofia che partendo dall’affermazione nietzscheana della “morte di Dio” ha preso atto di non poter affermare con certezza il fondamento ultimo, ponendo fine, con ciò stesso, alla “necessità” dell’ateismo filosofico che è stato un altro mito della filosofia illuminista. Affermare che Dio non esiste è, infatti, mettere in campo un’ulteriore affermazione metafisica nella descrizione della realtà. Difatti non è più di moda affermare che Dio non esiste, mentre si assiste al proliferare dell’idolatria costituita oggi dalle leggi di mercato, dalle pretese norme naturali che ostacolano una legislazione più umana e fraterna, la volontà di dominio delle corporazioni di tecnocrati, dei “plutoilluminati” cui è concesso di decidere per tutti gli abitanti del pianeta in cui l’Occidente ha preteso di aver inculturato la democrazia. L’aver decretato solennemente la “morte di Dio” ha ratificato la dittatura del nichilismo, il regno labirintico del nihil, del ne-hilum, della mancanza di un mitico filo d’Arianna che consenta di uscire dal dedalico per sfuggire alla furia del Minotauro. Dove trovare un logico mitico filo che colleghi alla vita, all’albero della vita, che ci eviti la lotta, ci salvi dalla morte?
Qui si profila la necessità di plasmare un pensiero nuovo, una filosofia che ci liberi dagli idoli come pensava Wittgenstein, o una filosofia dell’agire comunicativo che raccordi verità e carità, secondo l’intuizione di Habermas, o di Lévinas, per poter riconsiderare il compito della filosofia in quanto ermeneutica, incarnazione del pensiero nella storia (non dissimile dal mythos cristiano del logos fatto sarx), e prendere atto dei mali che affliggono l’umanità, i più terribili dei quali sono oggi l’ingiustizia e la guerra e trarli dall’oscurità dei nascondigli di un pensiero politico pragmatista per illuminarli con la luce dello Spirito. È la drammaticità del reale che apre all’anelito metafisico di un “oltre” come logos dello stesso esserci, logos avvertito immanente allo stesso esserci.
E il nuovo pensiero deve saper indagare l’entità di un logos che la metafisica classica può aver permesso di equivocare impedendoci di costruire un’affermazione universale con il consenso nel dia-logo, del filo che lega e attraversa mito e filosofia nella stessa ostinata aspirazione della ricerca dell’archè che li ha originati. Quando, come ricorda Rudiger Safranski, «nel trovarsi in una situazione confusa e arrischiata si cerca un filo d’Arianna, ci si rivolge alle origini». I miti sono racconti sulle origini, e dall’origine, dall’archè «si può derivare un duplice senso: si sfugge ad essa oppure se ne proviene soltanto e, perciò appunto, non le si sfugge. Non ce ne liberiamo e ci volgiamo ad essa per cercare di capire cosa ci sta accadendo. Quindi l’origine è un inizio che ci si è lasciati alle spalle oppure un inizio che non finisce di iniziare» [4]. Per cui il mito raccoglie le metafore di base della condizione umana collegando (nel senso del colligere) ἀρχῇ e νῦν, origine e presente agiti e/o agitati, non si sa se da concordia discors o da discordia concors, e comunque ininterrotto racconto e insopprimibile memoria del presente nella sua eternità.
Platone, nel voler portare alla luce il contrasto e la discussione sull’archegos – ciò che è all’origine di tutto – e per sviluppare il ragionamento intorno alla realtà dell’essere, indica un’azione, e la individua nel polemos: per acquistare capacità di parola, di disporre del logos, bisogna avere il coraggio di ingaggiare una “battaglia”. Il polemos esercita una funzione che produce forma, che consente di realizzare fino in fondo il compito di colui che vuole sapere, del so-phòs che aspira alla luce della verità: vincere la guerra con se stessi, per non trasformare in doxa, in soggettiva opinione, la tensione verso la conoscenza della verità, salire verso la luce dopo aver dimorato tra le ombre del vero nel buio della caverna platonica dove ciò che si vede è inganno.
«Pólemos (πόλεμος) è padre (πατήρ) di tutte le cose e di tutte re (βασιλεύς)» [5].
Così sentenziava Eraclito “l’oscuro” in uno dei suoi frammenti. L’aver tradotto polemos letteralmente con “guerra” ha mortificato non poco il senso più profondo del frammento di Eraclito che si è servito del mitico Polemos, divinità della guerra, per significare il conflitto, la lotta, lo sforzo necessari per assecondare e cogliere il logos e assentire alla vocazione di sophòs. Infatti:
«Di questo logos che è sempre gli esseri umani sono incapaci di comprensione, né prima di aver sentito parlarne, né dopo aver sentito parlarne la prima volta; e anche se tutte le cose avvengono secondo questo logos (κατὰ τὸν λόγον) essi si mostrano inesperti, quando si cimentano in parole e in azioni, quali quelle che io presento, distinguendo ciascuna cosa secondo la propria natura, e spiegando come essa è. Ma gli altri uomini non sanno ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno dormendo» [6].
È compito del sapiente ascoltare il logos, perché si possa seguire la legge divina manifestata in esso. Eraclito rende esplicito il concetto che l’approccio alla verità è la legge fondamentale che l’uomo deve seguire, e la filosofia stabilisce un rapporto essenziale con la vita. Una vita che può apparire contraddittoria, dove l’identità delle cose è il loro stesso essere diverse e opposte, e ciò che vi è di identico è la contrapposizione stessa di ogni cosa alle altre. In questa contesa le cose possono essere e divenire ciò che sono. Il logos appare come mediatore interno della relazione dialettica generata dal polemos; garante della fecondità del suo stesso dis-correre nella dinamica fedele alla sua stessa natura di legare e di raccogliere nella corrispondenza duttile alla sua polisemia poliversa. Senza logos nessuna superiore e vitale ricomposizione della frattura simbolica votata al ritrovarsi, e semmai frantumazioni ulteriori, dis-soluzioni risolte nella polemomachia invece che in una polemologia. A causa del ritrarsi in sé delle parti in causa, in una illogica a-logia, in riduzione ontica e monadica, di fondamentalistica chiusura aperta solo alla guerra.
Ciò che adesso si intende dire è che il precipitare della dialettica di polemos che il logos garantisce verso il baratro mortale della “polemica” sterile e disfattiva, fino al fondo della reificazione armata di polemos in guerra cruenta e sanguinaria, è attribuibile in toto alla liquidazione del logos nella cultura occidentale, la cui nefasta conseguenza si è manifestata nelle innumerevoli guerre che l’Occidente ha combattuto dentro e fuori i propri confini a partire, almeno, da Alessandro Magno che pur ebbe come precettore Aristotele. Ma a voler essere più precisi, concausa non irrilevante del bellicismo occidentale è stata non tanto la nietzschiana “morte di Dio” già menzionata, quanto la falsificazione del cristianesimo nell’oblio del suo mythos e del suo logos. Gettando un necessario parallelismo si deve dire che anche l’islam fondamentalista ha equivocato lo sforzo dialettico, logico, spirituale, il Jihād, traducendolo in guerra cruenta di conquista. Per quanto riguarda il cristianesimo la domanda è: che valore si è attribuito e si attribuisce all’esordio del Prologo giovanneo che ha il logos per protagonista? È del tutto occasionale e fortuito che l’autore del quarto Vangelo, sia vissuto, morto e sepolto ad Efeso, la città di Eraclito? È difficile che lì si sia potuto imbattere negli scritti del filosofo che a noi sono giunti per frammenti, e abbia potuto riculturare e rielaborare nella sua raffinata teologia la dottrina del logos?
Giovanni vede il logos sub specie aeternitatis, come atemporalità dell’archè, ed in postura essenzialmente relazionale, nel suo pròs ti, ove la relazione è la stessa essenza divina:
Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος (Gv 1,1)
Contempla un logos rivolto “verso” Dio. Importante è la preposizione πρὸς per rilevare l’essenza relazionale del logos in Dio, essendo Dio ὁ λόγος. Qui il mito dell’origine è narrato nel linguaggio filosofico eracliteo e descrive il tra-scendimento del logos che, inglobando l’aspetto meramente razionale del suo essere Pensiero Ordinatore, parte dal cuore stesso di Dio e si manifesta, in Parola, quale relazione sussistente. Per la filosofia greca, per Aristotele in particolare, la «relazione» si trova ai margini dell’essere; non è «sostanza», è un «accidente», anzi sta all’ultimo posto, perché presuppone che una realtà sia già costituita, prima, in se stessa, e solo dopo si apra allo spazio delle sue «relazioni». E tale è la visione che anche oggi è prevalente nella nostra cultura; si fa fatica a pensare che la «relazione» sia costitutiva del nostro esistere. Per sant’ Agostino invece la «relazione» viene prima di tutto, è anzi costitutiva dell’essere, è «relazione che fa essere», l’essere consiste nel rapportarsi. Esistenza come relazione. Relatio ut subsistens. Così il mytos cristiano può raccontare che tale ontologia relazionale è inscritta anche nella natura physis e dunque nel composto umano cui l’antropologia biblica dà il nome di “carne”. Insistendo sul logos il mythos dice:
«Tutte le cose per mezzo di lui (il logos) sono state fatte, e senza di lui non ne fu fatta neppure una sola»: πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν ὃ γέγονεν (Gv 1,3).
L’atto della creazione così continua sino al suo vertice, l’uomo di “carne”, per ravvivare l’impronta logica in una umanità chiamata a rispondere e conformarsi alla logica altra ed alta del logos:
Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν (Gv 1, 14)
All’utopia filosofica succede la mitica esistenziale che narra dell’epifania del logos nei dicta, acta, facta di Gesù di Nazareth evidenziandone l’esemplarità come luce della vita, nella simbolica giovannea:
ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν, καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων (Gv 1, 4)
Avendo detto che il mito ha descritto il tra-scendimento del logos nel suo essere Principio Ordinatore che “parte” dal cuore stesso di Dio, si è inteso dire, nel contempo, che tale Principio rimanda ad un Principio Personale dato nella relazione, e si sottintende che si sta considerando il principio spirituale, che Dio cioè è Spirito (Gv 4,24: πνεῦμα ὁ θεός) e che la relazione sussistente che lo costituisce è amore (1 Gv 4,8: ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν) e che amore non è il semplice sentimento più o meno descrivibile, ma nel suo etimo è a-mors, assenza di morte, ossia vita. Il mito echeggia di un Principio Ordinatore che si tra-scende, si abbassa in quel movimento kenotico che nel cristianesimo designa l’incarnazione, e si epifanizza nell’ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν: «pose la tenda fra noi» (Gv 1,14) come il mito focalizza, vivendo in noi; echeggia inoltre che la relazione vitale sussistente nel πρὸς è Spirito in quanto vita/a-mors eterna, imprincipiata dell’ἀρχῇ trascesasi nel mondo φύσις fino all’umanità assunta dallo stesso Logos. Dice bene Vito Mancuso quando afferma che «questo amore è sorgente e meta dell’essere» in quanto sussiste nell’idea che
«il Principio Ordinatore del mondo (il Logos) rimanda ad un principio personale (il Dio trinitario) [in quanto] il Logos impersonale immanente al mondo si è manifestato come persona, perché c’è stato un uomo, Gesù di Nazaret che l’ha perfettamente riprodotto in se stesso, ha perfettamente attuato in sé e fuori di sé la logica dell’armonia cosmica, la relazione ordinata che nel suo vertice si chiama amore. Lo ha fatto al punto tale che guardando a lui è possibile comprendere che il Principio Primo dell’essere è in sé stesso relazione (in questo senso è trino) ed è in sé stesso amore (in questo senso è uno)» [7].
Questo è il senso che la mito-logia giovannea ha consegnato all’Occidente. E qui ritorniamo ancora ad Eraclito che dice:
«Non comprendono queste cose molti di coloro che si imbattono in esse, e
neppure le capiscono dopo che le hanno apprese, anche se credono di capirle» [8].
Quanto è valsa la mitica transignificazione teologica di una filosofia che si ordinò come visione della presenza del logos nel divenire dell’essere, immanente al principio del πάντα ῥεῖ, del “tutto scorre” eracliteo, pensando il carattere armonico e ordinato del reale? Il reale dove uno e molti sono poli paritetici di un unico legame dialettico, da cui si origina l’armonia del tutto: ἁρµονία come principio di unione, proporzione, ac-cordo, con-cordia, misura, musica, equilibrio relazionale, pace!
Il Prologo giovanneo è servito da pre-testo al dogma trinitario, mentre il mistero dell’incarnazione è stato presentato come prodigio irripetibile della condiscendenza divina. Dio è rimasto l’ente sommo della metafisica, che per Heidegger ha costituito l’imbarazzo della filosofia, mentre il messaggio esistenziale di Cristo è stato ridotto a dottrina determinata dagli stessi principi metafisici, nel permanere di una concezione dualistica del reale dove fisico e metafisico si oppongono antiteticamente e se n’è dedotta sul piano pratico l’inconciliabilità, e la necessità della lotta tra lo spirituale e il carnale, il divino e l’umano e la vittoria del primo sul secondo. Chi non ha le caratteristiche dello spirituale, l’altro come aliud, alieno, diverso, straniero, infedele, nemico definito metafisicamente, deve essere combattuto e vinto e la lotta dialettica, invece di essere ricondotta ad armonia dialogica, s’è ridotta a livellante monotono monismo. Tale è stato l’errore di un Occidente cristiano che, riascoltando Eraclito «non ha compreso queste cose dopo averle apprese, anche se ha creduto di capirle». Non s’è capito che il Primo Principio Ordinatore dell’essere, nel suo sussistere interpersonale è Principio esistenziale e ordina l’armonia della vita personale, «di questa esistenza personale di noi esseri umani» [9]. Non si può che dare il nome di Pace a tale armonia.
L’equivoco occidentale è consistito nel considerare il logos unicamente sotto il profilo razionale, limitandosi al principio aristotelico di non contraddizione per cui il trascendente non può farsi immanente. Si è dichiarata l’impossibilità di tale logos a relazionarsi col mythos, che dice una parola diversa ma non contraria a quella detta dal logos; il mythos che ammorbidisce la rigidità concettuale del logos rammentandogli la sua vocazione relazionale-dialogale. Quando Aristotele descrive l’uomo come «animale razionale», in realtà dice testualmente che l’uomo è l’essere vivente, zoon, nel quale il logos transita, come in tutte le altre cose viventi. Non dice che l’uomo è il possessore del logos. Manca però nell’antropologia aristotelica quella dimensione che si esplicita peculiarmente nel mito giudaico-cristiano e che può definirsi “iconica”. Come “immagine” di Dio che è Spirito, è immanente nell’uomo la dimensione spirituale che è ulteriore rispetto alla razionale e la impreziosisce superandola.
Per usare la felice immagine di Mancuso, «lo spirito è l’emozione dell’intelligenza» che dà luogo alla produzione artistica, alle intuizioni della ricerca scientifica, suscita la nobiltà della legge morale e la visione di unità e fratellanza del genere umano nel contesto dell’armonia dell’essere, la gioia di esserne parte e dà all’uomo la facoltà di poter contribuire con la propria vita, con l’esercizio spirituale della volontà e dell’intelligenza al mantenimento dell’armonia dell’ordine cosmico [10]. La poesia è sicuramente il modo più immediato di narrazione del reale. Pensiamo al Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: lì troviamo la scoperta dell’emozione dello spirito che investe tutta un’esistenza umana sintetizzandola nel saluto offerto ad ogni prossimo come alter: pace e bene. Ma tutto parte da una ricerca interiore, del logos spirituale, fino alla scoperta dell’immagine autentica di sé. Ed è la vera fenomenologia dello Spirito, iniziata da Agostino con il «suo in te ipsum redi». Lo comprese bene, per altro “verso”, anche Dante che descrisse il muoversi e il diffondersi dell’energia spirituale divina, come lavoro e movimento, nella prima terzina del primo canto del suo Paradiso:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove.
Non è forse l’uomo il luogo dove questa gloria è stata infusa in maniera più abbondante? Lo narra chiaramente il mito genesiaco quando vede l’infusione dello Spirito di Dio nel composto di fango; la divina Rûah, “soffio vitale” che pervade la biosfera, espandendosi ovunque nello spazio e costituendo una realtà cosmica invisibile ma concreta. È mediante questo “spirito vitale” che il Dio trascendente manifesta la sua presenza nel mondo e negli esseri viventi, concedendo il “respiro” della vita agli uomini e anche agli animali [11], cioè a tutti gli esseri provvisti di “anima” (in ebraico nepheš, con il significato “che respira”). È in tal senso che va compresa la concezione antropologica che caratterizza la parte più antica della Bibbia, secondo la quale l’essere umano è indicato come basâr (cioè “carne”, in gr. “sárx”), nepheš (“anima”, in gr. “psyché”), e Rûah, (“spirito”, in gr. “pneûma”) laddove l’insieme dei tre termini indicano l’intera persona vivente, che è tale per il fatto che Dio le dona il “soffio vitale” della Rûah (Cf. Gen 2,7), mentre l’anima spirituale (“psyché”) è l’organo sensore della Rûah e distingue l’uomo dagli altri animali. «Il Dio della pace – dice san Paolo – vi santifichi totalmente e il vostro essere, spirito, anima, corpo (τὸ πνεῦμα καὶ ἡ ψυχὴ καὶ τὸ σῶμα), siano custoditi irreprensibili» (1 Ts 5,23).
Ma è sempre chiara questa percezione? La storia ci dice di no. Ci dice che l’uomo in quanto essere divino può regredire dal vertice creaturale ponendo a capo di tale condizione la ragione non fecondata dallo spirito. Già Kant aveva individuato i fondamenti non razionali della ragione quando, scandagliando la ragione e il congegno delle sue regole aveva scoperto la “fantasia”: non come una facoltà distinta dalla ragione ma come fondamento “vertiginoso”, in quanto senza fondo. L’abisso della fantasia rende irreali tutti i fondamenti ben fondati della realtà. Nella fantasia, possiamo dire, la ragione sfiora la follia, quando non si identifica con essa, per assenza di relazione tra logos e spirito. La ragione si assolutizza in quell’orgoglio “calcolante” teso all’aumento della gloria del proprio autismo, in quel tentativo fantasmatico di edificare, quasi la coatta fatica di Sisifo, la torre di Babele, anche a costo delle guerre sempre più terribili e sempre più numerose, senza chiedersi, come lucidamente fa Safranski, «se intanto non siano state irrevocabilmente distrutte le basi per la sopravvivenza delle generazioni future» per cui «è difficile fugare il sospetto che oggi la globalizzazione non sia in realtà che la forma di organizzazione dei consumatori finali» [12].
Neanche la lezione della storia ci basta. Celebriamo ogni anno compuntamente la Giornata della Memoria ma le istituzioni politiche che ipocritamente sembrano promotrici di tale manifestazione non traggono da quella tragedia epocale nessun insegnamento morale concreto. Non si può stigmatizzare polemicamente la celebre frase di Anna Arendt, «banalità del male», con cui la filosofa ha inteso contrassegnare quella maniera impersonale, fredda, burocratica e scrupolosa con cui uomini, di apparente normalità che tornando a casa suonavano Mozart, mettevano in moto una inumana macchina di morte. Non è forse così anche oggi quando rispettabili capi di Stato o di governo istruiscono guerre micidiali dal salotto buono dei loro palazzi? Riconsiderando l’esperienza terribile e funesta dell’Olocausto, e in particolare il fatto che il male fu commesso da molti, Timothy Snyder ha scritto:
«Forse immaginiamo che in una futura catastrofe noi faremo la parte dei salvatori. Ma se gli Stati venissero distrutti, le istituzioni locali sprofondassero nella corruzione, e l’omicidio incentivato economicamente, pochi di noi si comporterebbero bene. Non ci sono molte ragioni per pensare che siamo meno vulnerabili al genere di idee tanto efficacemente propagandate e attuate da Hitler» [13].
Se la pace appartiene all’ordine dell’armonia, la guerra si caratterizza per ignoranza di logos e assenza di Spirito. Dobbiamo dunque continuare a fare l’elogio della follia, aggiungendo paradossi alla tagliente critica erasmiana alla cultura di un Occidente che si apriva alla “modernità” con le lotte fratricide per l’accaparramento delle terre del “nuovo mondo” appena scoperto, dove il calcolo per il dominio e la ricchezza economica venivano camuffati con le nobili intenzioni della “civilizzazione” e della “evangelizzazione” di quei popoli di antichissima cultura. Gli imperi d’Europa, impegnati per la promozione di un nuovo mondo “incivile e selvaggio”, scatenarono tra loro una lotta furibonda che insanguinò tutto il XVI secolo. Erasmo diede la parola alla follia:
«Non si può compiere nessuna azione di un qualche rilievo senza il mio stimolo, né sarebbero mai state inventate le nobili arti senza che io ne fossi l’artefice. Non è forse la guerra la fonte e il coronamento di ogni celebrato atto eroico? Cosa c’è di più folle dell’affrontare per motivi insignificanti uno scontro nel quale entrambe le parti traggono più danno che vantaggio? A proposito dei caduti, poi, non si spende neppure una parola» [14].
L’impegno di Erasmo che osservava la smania della follia che aveva invasato l’Europa si concentrò tutto nell’elaborazione di una philosophia Christi o philosophia christiana, una filosofia in cui entra in gioco con un ruolo decisivo non tanto l’intelletto, che si può pervertire anch’esso impazzendo, quanto il cuore, l’amore, fondandola sullo spirito di Cristo. Cristo che per venire in aiuto alla follia dei mortali si fa artefice di un’altra follia, che quella umana reputa folle:
«Si è fatto in qualche modo stolto, quando assunta la natura umana si è presentato sotto l’aspetto d’uomo […] e non ha voluto curarci in altro modo che con la follia della Croce, per mezzo di Apostoli rozzi e ignoranti ai quali ha indicato la stoltezza come precetto fondamentale, stornandoli dalla sapienza quando li chiama a seguire l’esempio dei bambini» [15].
Questa follia cristiana per Erasmo ha per sfondo la proibizione genesiaca, «il fatto che Dio, architetto del mondo, proibisce di gustare il frutto dell’albero della sapienza, proprio come se la scienza fosse il veleno della felicità» [16].
Ma era da tempo che la cristianità, che Erasmo legge come corpo istituzionale e di potere incarnata al suo tempo dal papa guerriero Giulio II e dal cortigiano Leone X, aveva abiurato alla follia di Cristo preferendole quella dell’umanità. Una follia che prese corpo in uomini che sono passati alla storia come eminentemente spirituali, o che tali furono giudicati dal metro comune della follia diventata istituzione, dalla follia della doxa che si arrogò il titolo di “gloria”. Lo psichiatra Vittorino Andreoli, nel suo libro Follia e santità, prende in carico una serie di santi e di sante noti per le loro bizzarrie, per atteggiamenti mistici ed estatici, e dopo attenta analisi ne redige le cartelle cliniche. Mette in parallelo due giganti «antitetici» della santità occidentale: Francesco d’Assisi che nel quadro della follia si collocò da solo e Bernardo di Chiaravalle, posto sin dalla sua epoca tra i grandi mistici, titolare di estasi e di visioni soprannaturali. L’uno noto per il famoso Cantico delle creature, l’altro per la smisurata produzione letteraria e per l’oratoria imbattibile, capace di radere al suolo la neonata Scolastica di Abelardo. Ebbene, mentre la diagnosi di Francesco approda ad una «organizzazione della personalità di tipo fobico-ossessivo» con accenti di bizzarria e di stranezza comportamentale [17], per Bernardo «non è stato messo in luce alcun elemento che possa essere considerato psichicamente rilevante», salvo la patente «contraddizione tra il teologo mistico, il sostenitore dell’ascetismo monastico, il poeta colto e ispirato da un lato e, dall’altro, l’impetuoso, veemente, intollerante, a tratti aggressivo propugnatore della lotta agli eretici, della crociata, della guerra santa» [18].
Francesco, il “folle in Cristo” che va a cercare pace dal Sultano a rischio della vita; Bernardo, il cantore del Verbo incarnato che si lancia nell’impresa militare della Crociata e istituisce una appendice del suo ordine monastico creando i Templari, monaci guerrieri, per i quali scrive un vero e proprio trattato di propaganda: Liber de laude novae militiae ad Milites Templi. Si sono forse rovesciate le posizioni o è che la “follia cristiana” è alimentata dallo Spirito e si lancia in imprese irrazionali ma positive che nessuna persona “normale” si sognerebbe di compiere, mentre quella umana, detta sapienza dei sapienti, seguendo una ratio estranea al logos spirituale, ma fedele al politically correct dello spirito del tempo, è causa di contrasti insanabili di cui le guerre sono il prodotto più marcio? Anche Erasmo osservava che il crescere della “civiltà” non corrispondeva ad una crescita in umanità, ad un incremento della concordia e della pace, mentre la follia di Dio viene derisa dagli uomini:
«La parola della croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione,
ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l’intelligenza degli intelligenti.
Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?» (1 Cor 1, 18-20).
Non è forse mancata e non manca, assolutamente e assordantemente, alla cultura occidentale la dimensione dello Spirito? Avendo l’Occidente sfinito quella razionale esasperandola nel «pensiero calcolante» come diceva Heidegger, non le rimangono più neanche i termini della dialettica, che già rappresenterebbe qualcosa, discorso opinabile e tendenzioso, come Socrate valutava quello di Gorgia, ma pur sempre parvenza di un discorso. Non si avverte la ricerca di un logos spirituale nei dibattiti che pretendono di risolvere i problemi dell’umanità; né i più terribili, quali la fame dei popoli e le ingiustizie, vengono menzionati come vere cause delle guerre e ostacolo alla pace. Il dibattito si muove sui poli delle “ragioni assolute” delle parti in conflitto, e il conflitto infuria come agonismo di assoluti, aporetico, senza logica prospettiva. L’impossibilità del dia-logos è tutta da attribuire alla mancata considerazione del logos come Spirito, la manifestazione cioè nella ratio umana di una realtà ad essa superiore capace di creare l’inutile, il non calcolabile utile, consentendo invece di apprezzare l’inapprezzabilità dell’arte, della bellezza, della verità, della giustizia come emanazioni di quell’armonia di cui parlava Eraclito e che per Platone risiedeva nell’idea del bene.
Anche la Pace, in quanto armonia è inapprezzabile e disprezzata da una cultura come l’attuale che ha globalizzato la morte espellendo lo Spirito dalla vita con la dichiarazione stessa della “morte di Dio”. Una dichiarazione presa alla lettera e con molta allegria, perché se Dio è morto tutto è possibile, come affermava Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: siccome non c’è più Dio che pone la sua forza etica nella nostra coscienza, abbiamo la possibilità di fare qualsiasi cosa. In realtà con il suo proclama lo Zaratustra di Nietzsche alludeva al fatto che la filosofia ha preso atto di non poter afferrare con certezza il fondamento ultimo ed è rimasta “senza filo”, scivolata nel baratro senza fondo del nihil. Per Gianni Vattimo, che è stato uno dei più raffinati interpreti di Nietzsche, questa morte annunciata, se letta nel senso giusto, costituisce una risorsa piuttosto che una catastrofe. Alla luce della nostra esperienza post-moderna, dice Vattimo,
«vuol dire: proprio perché il Dio fondamento ultimo, e cioè la struttura metafisica assoluta, non è più sostenibile, per ciò stesso è di nuovo possibile credere in Dio. Certo non nel Dio della metafisica e della scolastica medievale, che comunque non è il Dio della Bibbia, cioè del libro che proprio la metafisica razionalistica e assolutistica moderna aveva a poco a poco dissolto e negato» [19].
Si tratta, allora, di mettersi in ascolto del mythos che la tradizione biblica tramanda con le immagini «della creazione e della contingenza e storicità del nostro esistere» che tradotti in termini secolari e filosofici significano che
«in base all’esperienza del pluralismo post-moderno, noi possiamo pensare l’essere soltanto come evento e la verità non più come rispecchiamento di una struttura eterna del reale, ma come messaggio storico che si tratta di ascoltare e a cui siamo chiamati a rispondere» [20].
Anche il mythos a questo punto necessita dell’irrorazione dello Spirito, per indirizzarsi alla fede; e non immediatamente a una fede come credenza, ma a una fede come apertura alla consapevolezza della propria ignoranza, consapevolezza dell’infinito, del mysterion; fede come esperienza antropologica la più disarmante e per ciò rassicurante. Una fede che ha come logos l’interculturalità, poiché lo Spirito non è monopolio di una cultura o di una religione e ogni religione professa una fede plasmata da secoli nella cultura in cui tale fede si è incarnata rendendola credenza. Una fede anch’essa relazionale, che prenda sul serio quella dell’altro considerato non più né mai come aliud, esso, estraneo, ma alter, alter ego. La fede cristiana, la credenza cristiana come modo di esplicitare e vivere la fede, parla di amare il prossimo, l’alter, come se stessi, come alter ego. Bisogna fare pace con l’aliud e amarlo come alter.
Bisogna tornare alle religioni, allo Spirito di cui ogni religione vive e allo Spirito che vive in ogni religione. Proprio perché la religione è veicolo dello Spirito, l’habitat in cui può meglio manifestarsi come epifania nel mythos, nel suo linguaggio simbolico drammatizzato nel rito, creduto come logos nell’ethos che è fine e principio del suo inveramento, del suo radicarsi nel mondo, per ricreare sempre l’armonia del mondo. Il simbolo di tale virtuosa dinamica credo si possa trovare, ancora, nella famosa quanto difficile da tradurre, e perciò ritenuta oscura, espressione di Eraclito: Ethos anthrópoi daimon (ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων) [21], che comunemente è tradotta: «il carattere dell’uomo è il suo destino». Ma né “carattere” né “destino” sembrano traduzioni soddisfacenti. James Hillman, descrivendo Il codice dell’anima elabora una esaustiva esegesi che conduce il daimon nel regno degli “Invisibili”, facendo del daimon «la sorgente dell’etica umana» che si imprime come “carattere” nell’essere umano determinando personalità; un “carattere” che proviene da un annuncio, date le diverse e convergenti traduzioni di daimon nelle diverse culture, e tutte denotanti il suo “carattere” spirituale, dal genius latino all’angelo custode della tradizione cristiana, passando per l’ánghelos greco [22] che nella narrazione evangelica è la «buona notizia» che viene da Dio: εὐαγγέλιον, il Vangelo che è stato ridotto all’insignificanza di un libro tra tanti altri, mortificandone il significato vero di annuncio lieto e sconvolgente.
Nell’esperienza di Socrate, narrataci da Platone il daimon costituiva per il filosofo una sorta di istanza divina, una dimensione superiore tesa a stabilire una relazione privilegiata tra la ragione e l’anima e tra l’anima e la divinità: l’ethos dello Spirito come abito (mos-moris in latino da cui morale) che riveste e che guida l’antropo al conseguimento della felicità. Ethos anthrópoi daimon è allora l’accoglienza dello Spirito nella vita dell’uomo tramite il desiderio, perché lo Spirito proviene dall’alto, de-sidera; lo Spirito che lo “caratterizza” nell’etica del bene, come la vita di Socrate ha mostrato, con la coerenza fino alla morte, per non rinnegare il principio spirituale che lo abitava; e non diversamente nel cristianesimo, che crede nella presenza totale dello Spirito nella vita di Gesù di Nazareth, in virtù della relazione sussistente di cui abbiamo parlato. In virtù dello Spirito Gesù è “unto” Cristo e il suo ethos diventa il paradigma di una vita nuova come possibilità di compimento e pienezza dei miti profetici che vedono «giustizia e pace baciarsi» (Sal 85,11), pre-visione di una umanità nuova. Socrate e Gesù rappresentano due luci nella tradizione occidentale, l’una come luce dell’intelletto illuminato dallo Spirito, prevede e precorre, a suo modo, il pieno brillare nella tenebra umana di una vita/luce completamente abitata dallo Spirito, quella di Gesù che in quanto Cristo ne ha fatto dono all’umanità, irradiando le tenebre che cercano di soffocarla:
καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει, καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν (Cf. Gv 1, 5).
Il Prologo giovanneo delucida la relazione osmotica logos-mythos: per il potere del logos l’antropo diviene consapevole del suo mythos e questo recede alla valenza di postulato pragmatico, dell’esserci «nelle tenebre e nell’ombra della morte»; mentre il λόγος /φῶς, come «sole che sorge» dirige i passi dell’umanità «sulla via della pace» (εἰς ὁδὸν εἰρήνης) come riecheggia il mito lucano (cf. Lc 1, 78-79). Ogni mito evangelico ha intenzionalità soteriologica, di guida luminosa nella situazione esistenziale dell’antropo.
Il mito, inoltre, della tradizione profetica, non disgiunge mai la pace dalla giustizia, ed è così che deve essere tramandato con forza dalle Chiese, dalle religioni e da quanti percepiscono una voce nella coscienza che reclama tale congiunzione, relazionale anch’essa come nel mito greco di Eirene, senza la quale non si può parlare di pace: perché Eirene viene tradita con le sue sorelle, Eunomia e Dike, in quanto è ritenuto giusto che la legge della guerra legittimi l’omicidio. Dall’oracolo di Isaia: «L’opera della giustizia sarà la pace e l’azione della giustizia tranquillità e sicurezza per sempre» (Is 32, 17) all’enunciato di Giacomo: «Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3, 18), la biunivocità tra pace e giustizia deve “evangelizzare” ogni sproloquio sulla pace e deve convertirne l’orientamento. Tale biunivocità deve rendere possibile un nuovo linguaggio e un nuovo pensiero in ordine al dialogo interculturale quanto mai urgente in un momento come l’attuale in cui la guerra, frutto della babelica incomprensione tra le culture, rischia di risolversi nella conflagrazione planetaria. Da questo punto di vista si rende necessario un disarmo culturale, anzitutto, come suggerisce la riflessione di Raimon Panikkar, il filosofo, teologo e poeta cristiano che ha coniugato nella sua vita la cultura occidentale con quelle orientali [23], sviluppando il suo pensiero nell’ottica di una interculturalità che rappresenta una sfida per la globalizzazione omologante e una chance per il transito da Babele (una sola lingua senza Spirito) a Pentecoste (tante lingue un solo Spirito) [24]. Il disarmo culturale esige anzitutto un processo di demitizzazione:
«l’interculturalità mette in discussione i miti prevalenti dello status quo attuale, de-assolutizza le nostre convinzioni più profonde e rischia di farci affondare in un relativismo mortale o di portarci ad una relatività liberatrice, a patto di tenere il terzo occhio aperto alla realtà mistica che ci fa superare ogni assolutismo. Per dirla in altre parole, l’interculturalità ci invita a scoprire l’universale nell’approfondimento del concreto» [25].
I “tre occhi”, spiega Panikkar, sono una specialità tibetana, ma anche Ugo da San Vittore parlava, nel medioevo cristiano, di «oculus carnis, oculus mentis, oculus spiritus», tre finestre o tre porte che abbiamo per entrare in contatto con la realtà [26]. Ciò dimostra che alcuni miti sono in partenza interculturali, si incontrano e si intrecciano. Gli apologhi buddisti, i miti greci o indiani, i racconti africani e le parabole dei Vangeli, la ragione dell’Illuminismo, gli archetipi della psiche umana e le novelle della letteratura «hanno un passaporto timbrato con molti visti culturali e sono essenzialmente polisemici, ma non possono rivendicare una validità universale». Alcuni, in virtù del “terzo occhio” vanno demitizzati, anche se sono duri a morire: come la «persistenza del mythos che spinge ad annientare il male eliminando il presunto colpevole»; è il mito del “capro espiatorio” esaustivamente smentito e smontato da Renè Girard: ma il pericolo sta nel consenso popolare di questo mito che una certa propaganda continua a reiterare: «Il nazismo ha voluto eliminare gli zingari e soprattutto gli ebrei e attualmente l’antiterrorismo vuol vincere il terrorismo eliminando qualsiasi terrorista sospetto. Il mythos perdura» [27].
Il disarmo culturale per Panikkar deve essere contestuale ma anche precedente l’eliminazione delle armi. Le culture sono spesso bellicose, trattano gli altri come nemici, come barbari, «selvaggi, primitivi, pagani, non credenti, intolleranti, non sviluppati. Inoltre in molte culture la ragione stessa è usata per vincere, anche se si dice con-vincere». Ciò dipende dalla mancata distinzione tra aliud e alter di cui abbiamo parlato e che connota in maniera fondante la riflessione di Panikkar sull’interculturalità e il pluralismo; è la mancata attenzione al riconoscimento dell’alterità «la quale implica la mia stessa essenza […] L’altro può essere il mio nemico, per quanto sempre con un volto umano, un tu e non un esso, un’anonima entità sotto le nubi e dentro la casa o il rifugio che io bombardo» [28]. Sembra impresa ardua operare questo transito, questa Pasqua della cultura: si potrà demitizzare, almeno nella cultura occidentale e prevalente, il mito del “sé” (self) che ormai permea il nostro linguaggio quotidiano con cinquecento e più composti (self-control, self contempt, self-satisfaction…) secondo il New Oxford English Dictionary, ciò «che ha reso l’occhio moderno cieco agli Invisibili», osserva Hillman, con l’affermarsi del razionalismo frutto dell’Illuminismo? [29].
Il mito del self pare riassuntivo di tutte le assolutizzazioni culturali e delle ideologie religiose che nella storia conosciuta hanno provocato guerre e distruzioni. Producendo gli 8.000 trattati di pace censiti e puntualmente disattesi, fino al presente. La vittoria di una cultura su di un’altra non ha mai condotto alla pace. «La natura umana è più forte della volontà umana» osserva Panikkar e «la distruzione del nemico non distrugge l’inimicizia. Se si brucia la zizzania si brucia anche il grano (Mt 13, 29-30)». L’annientamento del nemico risveglierà
«gli archetipi repressi che reclameranno “compensazione”. Senza l’antisemitismo non si può capire lo Stato di Israele, senza l’antica Indocina non si spiega la resistenza del Vietnam, come senza la guerra del Golfo non si spiega il cosiddetto “terrorismo musulmano” e non va dimenticato che l’America precolombiana non è ancora morta, il mondo colonizzato non ha ancora presentato la sua “fattura” ed è da temere che lo faccia violentemente» [30].
Ciò che abbiamo sottratto, rubato, adesso viene reclamato. Solo la spontanea restituzione, con gli interessi, potrà rasserenare gli animi e condurre alla pace.
Sembra un resoconto veridico quello del mistico filosofo Raimon Panikkar, viandante tra Oriente e Occidente seguendo il filo logico dell’interculturalità per una philosophia pacis e osservatore, col “terzo occhio”, dei miti religiosi fondanti le civiltà; sempre attento a non scadere in un sincretismo livellante, mantenendo la sua identità cristiana, ma in ascolto della voce dello Spirito risuonante nelle altre religioni con uno stesso significato: Libertà e Amore, l’immanenza-trascendenza che anima la Vita, il vento che «soffia dove vuole», inafferrabile, ineffabile, che si può solo amare, servire, seguire senza mai pretenderne il possesso. La relazione filosofia-religione come logos pneumaticòs deve configurare il mito della pace che si profila già in crescita nel nostro tempo e che va trattato con molta delicatezza, evitando che diventi un’altra bandiera o uno slogan pubblicitario di cui ogni astuto sofista si può appropriare. La filosofia deve ritrovare il suo thauma originario nella scoperta dell’uomo e la Religione il suo tratto rivoluzionario che la pone nel mondo come occasione di salvezza.
Non si può sperare in un immediato ripensamento della politica, ormai completamente votata all’adorazione del profitto e alla causa dei plutocrati del pianeta che pontificano nei templi delle loro banche. Non si trovano più tra i politici uomini spirituali del calibro del Mahatma Gandhi o di Giorgio La Pira. Adesso soltanto nani, e per giunta scesi dalle spalle dei giganti che hanno snobbato. La filosofia può invece impegnarsi in una metafisica della luce, che non ha fondamento pur essendo fondamento, e rivisitare la fenomenologia dello Spirito scendendo nella coscienza dove abita la Verità, secondo l’intuizione di Agostino. Le Religioni devono rivedere gli equilibri relazionali tra i quattro elementi che le costituiscono: mito, rito, logos ed ethos; basta un niente, una pur lieve accentuazione di uno di essi per cadere nel fondamentalismo, nel dogmatismo, nella superstizione, nel moralismo, nell’idolatria. Per il dialogo tra le religioni Hans Küng formulava questo assioma: «Senza pace tra le religioni, guerra tra le civiltà. Ma non c’è pace tra le religioni senza il dialogo tra di esse. Non c’è dialogo tra le religioni senza lo studio dei loro fondamenti» [31]. Sarà perché i fondamenti spirituali delle religioni sono stati sommersi sotto le loro elefantiasi istituzionali e dogmatiche che gli uomini e le donne del nostro tempo le hanno abbandonate? Sostituendole con gli alcolici e le droghe con cui si illudono di trovare un mondo spirituale?
L’approccio interculturale per l’edificazione del mito della pace deve consistere in una critica radicale del pensiero, delle religioni, delle culture con le loro istituzioni, rilevando che tutti questi ambiti hanno legittimato un “sistema mondo” oggettivamente ingiusto. L’unico dato oggettivo rilevabile è questo: il mondo vive nell’ingiustizia e questa lo sta distruggendo con la guerra. Mentre la pace è opera della giustizia la guerra lo è dell’ingiustizia. Intraprendere il difficile lavoro per la pace è urgente, ma non sarà immediatamente risolutivo; la posta in gioco è un mutamento antropologico epocale. Chi intraprende questo lavoro sappia che è come colui che semina, mentre altri raccoglieranno i frutti. Così è la fede di «chi è nato dallo Spirito» come dice il mito.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli, Milano 1992: 153.
[2] Aristotele, Metafisica, A, 2, 982b
[3] R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, Jaca Book, Milano 20212: 18.
[4] R. Safranski, Il male, Longanesi, Milano 2006: 11.
[5] Eraclito, frammento 22DKB53.
[6] Id. 22DKB1
[7] V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007: 134.
[8] Eraclito, frammento 22DKB17.
[9] V. Mancuso, cit.: 133.
[10] Cf. Ivi: 64.
[11] Cf. Gen 6,17; 7,15; Ez 37,10; Sal 104,29-30.
[12] R. Safranski, cit.: 109.
[13] T. Snyder, Black Earth: The Holocaust as History and Warning, The Bodlev Head, London 2015: 320.
[14] Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, edizioni Paoline, Milano 2004: 175
[15] Ivi: 290.
[16] Ivi: 291
[17] V. Andreoli, Follia e santità, Rizzoli Milano 2010: 193-195
[18] Ivi: 160
[19] G. Vattimo, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano 2002: 9
[20] Ivi: 10
[21] Eraclito, frammento 22DK119.
[22] Cf. J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997: 317-322
[23] Raimon Panikkar Alemany (Barcellona 1918-Tavertet, 2010) è stato filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo, di cultura indiana e spagnola. Intellettuale dal sapere vastissimo.
[24] Cf. R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, cit.: 287.
[25] Ivi: 285-286.
[26] R. Luise, Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani, San Paolo ed., C. Balsamo 2014: 253.
[27] Cf. R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, cit.: 282-284.
[28] Ivi: 39-40.
[29] J. Hillman, Il codice dell’anima, cit.:319.
[30] R. Panihhar, Pluralismo e interculturalità, cit.: 292-293.
[31] H. Küng, Cristianesimo, Rizzoli, Milano 20054:773.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Attualmente è Referente diocesano per il Sinodo dei Vescovi. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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