di Antonino Pellitteri
L’anno 2011, quando ebbe inizio ciò che in Occidente è stato chiamato “primavera araba” (al-rabī’ al-’arabī), e da altri, soprattutto nei Paesi arabi, fawḍà al-khallāqa (caos creatore) e al-mudammira (che provoca rovina), rappresenta sicuramente un momento di svolta nella storia recente dei popoli arabi. Qualunque sia il giudizio che a distanza di sette anni si possa dare a quegli avvenimenti drammatici, viene evidenziato da molti, favorevoli o contrari poco importa, il bisogno di riaprire le finestre sulla storia dell’Islam in generale e degli Arabi in particolare.
Di fronte alla radicalizzazione che ha caratterizzato il post “rivoluzione” (al-thawra), con il carico di guerre, di violenze, di nuove miserie e povertà, di jihadismo e di diffusione del pensiero takfiri (da takfir: nome verbale derivato dalla IIa forma che ha il significato di accusare qualcuno di miscredenza, quindi di essere kafir cioè irreligioso e/o empio, iniquo), si fa sempre più larga l’opinione presso intellettuali e gruppi politici arabi e musulmani coscienziosi, per la quale è necessario tornare alla storia, intesa come narrazione e problema, come storia vissuta e storia costruita.
Si dice: è vero che il caos creatore, secondo una terribile teorizzazione dell’ex Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, ha costituito una strategia volta a mutare dall’esterno la geo-politica del Mondo arabo e islamico (strategia americana di alcuni anni fa, fatta propria dalla presidenza Obama), ma si afferma pure che tale strategia ha avuto relativo successo, grazie al fatto che gli Arabi e i musulmani hanno negli ultimi decenni trascurato di guardare alla loro storia, responsabili soprattutto i ceti dirigenti politici ed intellettuali arabi e musulmani. È questa un’analisi che mi convince molto. Personalmente ho potuto riscontrare, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, la caduta di interesse da parte dei giovani nei Paesi arabi verso la storia e la cultura, il passato, e con essa la perdita dell’approccio alla loro periodizzazione, a favore di un’acculturazione del tutto subìta. Ho potuto notare una sorta di rimozione collettiva della memoria. Ciò ha creato terreno fertile per l’affermazione della radicalizzazione attuale, della visione jihadista e dell’uso improprio della letteratura religiosa araba, utilizzati in nome dell’Islam, ma che nulla hanno a che fare con l’Islam. Ritorno alla storia quindi, inteso come riappropriazione del proprio passato e di lotta contro i mercanti del jihad, nemici dell’Islam e dell’arabismo, spesso incoraggiati dallo stesso Occidente. Una domanda innanzitutto: può l’Europa concorrere a mantenere aperta la finestra sulla storia nel percorso di ricerca di se stessa (storia) attraverso la storia del presente? Ho qualche dubbio, se si tiene conto che la Storia è anche un prodotto politico, derivato dalla padronanza del passato e dalla coscienza del tempo. Nel momento in cui gli Arabi e i musulmani vanno ripetendo oggi, dopo il 2011, che fare storia è più necessario di ieri, ciò non può che mettere l’Europa, meglio gli Stati europei e le classi dirigenti europee, di fronte alle loro responsabilità storiche (vedi tra l’altro la questione palestinese).
Per gli Arabi la storia (ta’rikh) ha a che fare con la conoscenza e fissazione del tempo. Visione antica questa, registrata con precisione dalla lingua araba, e che l’Islam ha fatto propria fin dal suo avvento nel VII secolo, tendendo a valorizzare la storia come scienza del cambiamento e della trasformazione. La storia è sempre fondata sulle tracce scritte dell’esistenza degli uomini, quindi anche per i musulmani la storia è problema e non solo storia/narrazione. Non può essere solo oggetto di memoria, per esempio non può soltanto far parlare un documento. Essa è attività elaborata che non si improvvisa. È narrazione che presuppone l’analisi. Nella visione coranica la storia è fatta di collettivi, poiché, in modi diversi, gli individui non sono chiusi nella loro singolarità. L’individuo infatti è modellato dalla comunità/società, ossia dalla storia precedente. È già nel Corano che si mette in evidenza il dato seguente: sapere che si può sapere e sapere che le opinioni sono diverse.
La scrittura della storia, passata e presente, del mondo musulmano, con riguardo particolare al mondo arabo, pone quindi allo storico delicati problemi di approccio metodologico. La lettura del passato infatti, e/o rilettura come si tende a fare nel nostro Occidente, non solo legittima diversi punti di vista e diverse angolazioni, ma utilizza categorie d’indagine, il più delle volte, di derivazione europea. Sicché l’uso politico delle fonti prevale, con le dovute eccezioni ovviamente, sulla comprensione dei fenomeni. Nella visione islamica la storia si basa invece sul rapporto dell’uomo con il tempo e sulla relazione tra questo e il luogo o spazio, sui collegamenti reciproci tra gli individui ed i gruppi. Tale fu anche la visione del pensiero storiografico musulmano classico, come quella del tunisino Ibn Khaldun (morto al Cairo nel 1406), la cui opera è nota in Occidente. Nella “Prefazione” o Muqaddima alla sua voluminosa storia, Ibn Khaldun attribuiva alla lettura del passato una organica funzione sociale, la quale era testimoniata dall’uso di termini e concetti legati all’idea di wasl – silat, ossia sistema di legami, correlazione. Questo è ancora il filo conduttore, lungo il quale lo storico arabo contemporaneo tende a ri-collocare gli avvenimenti, con riguardo alla conoscenza del tempo e al “problema” che essa conoscenza pone.
La storia è movimento, cioè è il contrario della quiescenza ed inattività. Nel Corano è intesa non solo come cambiamento ininterrotto, ma si afferma che la storia è unità di tempo (wahdah zamaniyyah), dove passato, presente e futuro non sono separabili. Da qui deriva l’idea che la storia è movimento finalizzato ad uno scopo (harakah hadafiyyah). Una sorta di work in progress e di determinismo storico con l’occhio rivolto a Dio. Sembra di capire dalla lettura della Parola di Dio che la storia ha una ragione finale che volge lo sguardo al futuro. Essa non è un semplice movimento determinato dalla causa e/o legato alla sua causa, al suo passato, ma è teso allo scopo finale nel futuro. Nel senso che il futuro è il vero motore di ogni vitalità della storia. Il futuro è, nella realtà, ciò che spinge in avanti l’uomo in base alla sua esistenza intellettiva. Da ciò deriva, secondo il Corano, il ruolo decisivo dell’uomo nell’opera di realizzazione del movimento della storia.
Se si considera ciò, il compito precipuo dello storico è quello di acquisire con precisione, ed essere in grado di valorizzare, la nozione del tempo e quindi la complessa relazione tra tempo e spazio. La storia è opera di trasformazione e di cambiamento (al-tahawwul wa al-tagayyur), essendo costituita da una serie di passaggi da una situazione ad un’altra. L’idea del passaggio è più volte ribadita nel Corano, come per esempio nella Sura della Caverna o surat Ahl al-kahf, e nelle narrazioni relative ai profeti, da Adamo a Muhammad, il sigillo del ciclo islamico della profezia.
Quando oggi si parla di ritorno alla storia, che, come si è qui accennato, è necessità legata al recupero della memoria e alla politica, lo studioso arabo e musulmano si trova di fronte al problema di assegnare un determinato valore e/o ridefinire il patrimonio storico-culturale nazionale, attraverso la riedizione della produzione costituita da importanti storie regionali e locali, e nello stesso tempo riportare i fenomeni nel loro alveo, quello khalduniano, del sistema dei legami e della interazione. Operazione non facile, che si diversifica a secondo i Paesi e le politiche culturali, così come hanno caratterizzato l’epoca della decolonizzazione nei diversi Stati arabi. Si trattò in genere dell’affermazione della visione storiografica derivata dalle culture dei Paesi colonizzatori, tesa a separare e a distinguere, con la conseguenza di annullare il sistema delle relazioni e delle interazioni all’interno del mondo islamico ed arabo (affermazione degli Stati Arabi territoriali).
La storiografia araba ha sempre sostenuto che gli avvenimenti che accadono in determinato territorio arabo si combinano con quanto avviene negli altri e ne influenza lo sviluppo storico generale. Non a caso se si sfoglia un libro di storia, antico e moderno, si coglie un interessante e sapiente uso della terminologia legata al suddetto sistema di legami.
I territori all’interno del mondo dell’Islam non hanno confini fisici, l’unico confine è quello giuridico costituito dalla presenza dell’Islam e dei musulmani. Ogni territorio è considerato mamarr (passaggio), mahatta (stazione), marhala (luogo di sosta), bab (porta). Le società composite che vivono in questi territori interagiscono e convivono, poco importava l’esistenza di dinastie governanti diverse. La storiografia europea coloniale ha stravolto una tale visione. Basti pensare al Vicino Oriente ed alla formazione di Stati e staterelli fondati su basi confessionali (o ta’ifiyya), all’Algeria de-arabizzata, alla Libia. Essendo questo un territorio che più interessa a noi italiani, è utile citare le definizioni coloniali riferite alla Libia come esemplificazione: regno del vuoto; creazione recente; province separate senza alcun rapporto tra loro; occasionalità dei rapporti tra popolazioni dell’interno e quelle delle zone costiere e urbanizzate; federazione di province senza passato.
Non solo non si coglie, e volutamente, il sistema delle aree comunicanti o dei diversi cerchi combinati tra loro, ma si privilegia una visione “separante”, ancora oggi diffusa, anzi in ripresa dopo gli anni Sessanta in cui si affermarono gli ideali del nazionalismo arabo e dell’unità araba, grazie alle politiche di Nasser e del partito al-Ba’th. Si tende a riaffermare la visione eurocentrica, che si vorrebbe imporre alla storiografia araba e musulmana. Un riferimento ancora alla Libia è pertanto utile, allorquando si vuole disconoscere che, come afferma la storiografia araba tradizionale, la Libia è stata porta d’ingresso (madkhal) dell’arabismo e dell’Islam, della civiltà islamica verso Occidente. Nello stesso tempo porta verso l’Oriente e verso il cuore del mondo islamico. Si vuole cioè che la storiografia araba e musulmana non si riappropri del senso di concatenazione in rapporto all’azione del mettersi in movimento che ha connotato la storia dell’Islam e degli Arabi fin dall’avvento dell’Islam. La qual cosa significò anche collegamento e vincolo, quindi mettersi in relazione con qualcuno, appartenere a qualcuno, derivare la propria origine da un determinato legame, e non da una etnia. Credo che sia questo che si voglia evitare, cioè l’affermazione di una idea di appartenenza svincolata dalle etnie e dalle tendenze confessionali.
È evidente che la strategia politico-militare dell’Occidente nei confronti del mondo arabo e islamico in questi ultimi vent’anni, a partire dalla guerra contro l’Iraq del 2003 in particolare, è fondata sulla divisione, sull’affermazione dei nazionalismi e delle diverse etnie, sullo scontro confessionale all’interno dell’Islam (sunniti e shi’iti) e tra questo e le comunità cristiane orientali. Quel che è accaduto in Siria a partire dal 2011 è assai significativo da tale punto di vista. È certo che attorno alla crisi siriana si muovono forti interessi economici regionali e strategico-militari internazionali. Ma non si capirebbe l’accanimento con cui Stati Uniti e certi Paesi europei, Francia e Gran Bretagna soprattutto, operano contro il governo e lo Stato siriano, se non si guarda al progetto portato avanti a favore della divisione e della scomposizione dell’articolata società siriana.
Non sembra conveniente all’Occidente che gli Arabi e i musulmani tornino a riappropriarsi della visione storiografica sopra delineata in termini islamici. Ciò non è un bene, non solo per gli Arabi e i musulmani, ma non lo è neppure per l’Europa in preda ad una islamofobia, manifesta ed occulta, sempre più diffusa. Essa nel lungo periodo, ma non troppo, potrebbe provocare pericolosi irrigidimenti nelle relazioni con gli Altri musulmani (immigrati), e con le antiche popolazioni musulmane europee, dei Balcani soprattutto.
Sono del parere che occorra liberarsi e presto di certi approcci storiografici eurocentrici e neocoloniali, che tendono ad affermare la visione separante, e di termini e concetti funzionali, anche quando adoperati in buona fede, all’uso di detti approcci. Penso a termini come tolleranza e cosmopolitismo che non esistono in Islam, dove si preferisce invece l’uso della forma verbale “ta’ayasha” che vuol dire convivere/coesistere, laddove la con-vivenza è fondata giuridicamente, secondo i testi classici del diritto musulmano. Ma per concludere, vorrei fare due esempi.
Il primo concerne la scrittura della storia della nostra Sicilia in epoca islamica (IX-XI sec.). Michele Amari, arabista e uomo del Risorgimento, ne ha tracciato lo sviluppo nella sua voluminosa Storia dei Musulmani di Sicilia. In essa però l’uomo del Risorgimento nazionale ha sottolineato il dato autonomistico della presenza dell’Islam nella Sicilia del Medioevo, soprattutto quando ha definito il governo della famiglia dei Kalbiti a Palermo, come caratterizzata nel sec. X-XI in senso “nazionale”. Non avere tenuto conto del sistema di legami profondi che intercorsero tra governatori kalbiti e la dinastia shi’ita fatimide, prima in Nord Africa e poi anche in Egitto e Vicino Oriente, sminuì il valore della centralità siciliana all’interno dello spazio mediterraneo, creato dai fatimidi, con il concorso dei Kalbiti siciliani, fedeli servitori di quella grande dinastia musulmana. Si trattò di uno spazio ed una koinè fatimide mediterranea, rivolti ad Oriente attraverso l’Egitto ed il mar Rosso, in particolare al mondo iranico ed all’India, che influenzò la politica, la cultura e l’arte dei musulmani siciliani in quell’epoca, come attestano le fonti arabe coeve. Quella di Amari fu pertanto visione separante, che purtroppo perdura ancora oggi in molta produzione siciliana e nell’uso, non appropriato, dell’arabo trattino normanno.
Il secondo caso, e concludo, è quello riguardante il perdurante uso di Maghreb per definire i Paesi arabi musulmani del Nord Africa. Maghrib in arabo è registrato fin dall’antichità, indica i territori ad occidente, dove tramonta il sole, il suo corrispettivo è Mashriq, ossia oriente, dove il sole sorge: ex Oriente lux, ripetevano i Romani e non riguardava solo il sorgere del lucente astro. Il termine Maghrib usato dagli Arabi e dai musulmani non era riferito a caratteri distintivi ed appartenenze particolari. Ancora oggi gli Arabi utilizzano il termine Maghrib per definire in generale i Paesi ad occidente dell’Egitto, ma fanno seguire al termine gli attributi “arabo e islamico” (al-’arabi wa’l-islami). Ciò vuol dire che nell’uso dell’espressione “al-Maghrib al-’arabi wa’l-islami” si vuole comprendere l’antico sistema di legami e le unitarie appartenenze su cui si fondano la storia e la cultura comuni. Nella letteratura araba classica col solo termine Maghrib era indicato l’attuale Marocco, l’estremo dove tramonta il sole.
Questo uso del termine Maghreb, che è ormai invaso anche presso le comunità musulmane del Nord Africa viventi in Europa, esprime una visione separante e distintiva, derivata da acculturazione imposta soprattutto quando si tende a rimarcare una connotazione berbera dei Paesi detti Maghreb. Oggi per esempio si assiste invece al recupero di quel sistema di legami in un Paese come la Tunisia, fenomeno interessante di cui però si parla poco.