Corrado Melfi (1850-1940), barone di S. Giovanni, è una delle figure chiave della storia della cultura chiaramontana di fine Ottocento, affiancandosi al Guastella nello studio e divulgazione della storia locale, nell’ambito di quel generale risveglio delle ricerche di etnografia e storiografia, seguito al farsi definitivo dell’Unità d’Italia. Le storie locali interessarono centinaia di studiosi, che pubblicarono preziose monografie, sulle quali ancora oggi si lavora e con le quali ci si confronta, soprattutto da parte dei più attenti studiosi contemporanei.
Le pubblicazioni a stampa del Melfi sono note: al centro di tutto c’era la sua città, Chiaramonte Gulfi, la “terrazza di Sicilia”, che guarda la vasta “plaga” del Sudest Sicilia. Si pensava che tutto fosse stato scoperto, che lo stesso studioso avesse pubblicato tutto quanto aveva negli anni prodotto, quando ecco spuntare un inedito manoscritto, che è stato scoperto da un altro chiaramontano doc, come il Melfi e il Guastella, Giuseppe Cultrera, acuto studioso e operatore culturale dell’area iblea fin dai gloriosi anni 70-80 del Novecento. Si tratta di un manoscritto in cui il barone ha raccolto un organico studio sull’etnografia chiaramontana, oggetto dei suoi interessi, culminati in articoli e lettere di corrispondenza, intercorsa negli anni, tra gli altri, col grande maestro Giuseppe Pitrè.
Non fu solo, il Melfi, in questa meritoria opera di raccolta e divulgazione, affiancato, il più delle volte in astiosa concorrenza, al più noto Serafino Amabile Guastella. Nella antica provincia di Siracusa (Siracusa e Ragusa) Pitrè tesse una rete di collaborazioni che in alcuni casi diventano solide e belle amicizie (Mattia Di Martino), altre volte formali rapporti che spesso nascondono diffidenza e sottintesa ostilità (Vigo). In altri casi gli informatori (Guastella; Crescimanno) funzionano da punto di raccolta di altre informazioni ricevute da amici e collaboratori locali. É il caso di alcuni informatori palazzolesi come G. Italia Nicastro o A. Italia. Le pressanti richieste del Pitrè suscitano un clima di fervore scientifico e danno luogo a nuove ricerche locali, a indagini sul campo e soprattutto stimolano la raccolta di documentazione, anche visiva, che oggi viene alla luce [1].
Giuseppe Cultrera ha dunque recuperato dagli eredi del barone Melfi un manoscritto che tratta quasi esclusivamente di “usi, costumi, usanze” (come si diceva ai tempi) del popolo chiaramontano, secondo il ciclo calendariale delle feste e delle usanze dell’anno. Lo fa il Cultrera con un volumetto di 104 pagine, illustrate, con una sua preziosa introduzione. Il testo del Melfi ha il titolo Usi costumi e pregiudizi del popolo chiaramontano. Seguono tre appendici e una nota finale del curatore. Il manoscritto, che il Cultrera edita e cura, «è un quaderno (cm 21 x 15) di 63 pagine numerate e una decina, non numerate, riservate a note, brevi riscritture o aggiunte; in buona grafia, poche correzioni e predisposizione per la stampa tipografica (paragrafi, capoversi, indicazione dei corsivi, evidenza delle parti in versi e in lingua siciliana). Contiene una coerente trattazione di quelle stesse parti che il Melfi aveva già inserito nell’opera Cenni storici sulla città di Chiaramonte (capitolo IX), cui l’autore dà una coerente disposizione e uno svolgimento calendariale più completo. Alcune parti erano state già pubblicate nel prestigioso “Archivio per le tradizioni popolari”, edito da Giuseppe Pitrè, e nella dai più sconosciuta rivista “La Siciliana”, di Gaetano Gubernale. Sono materiali – ribadisce il Cultrera – che fanno riferimento alla ricerca sul campo, durata oltre mezzo secolo e che il Melfi tiene a ribadire, come si deduce da parecchie note polemiche affioranti in alcuni scritti, agli studiosi del settore, in primis il Pitrè col quale ha una lunga e fitta collaborazione».
A questo proposito e meritoriamente il Cultrera pubblica tre lettere del Pitrè al Melfi (mentre mancano dall’epistolario del Pitrè le lettere del Melfi allo studioso palermitano, purtroppo!). L’ultima di queste tre lettere pare essere la più significativa, non fosse che si tratta di una lettera datata 5 gennaio 1916, cioè pochi mesi prima della morte del grande demologo palermitano. Scrive il Pitrè: «Onoratissimo signor Barone, L’archivio è sospeso da più anni: ecco perché non posso accogliere il suo scritto. Appena verrà a Palermo il prof. Raccuglia, porgerò a lui detto scritto. Con i migliori ossequi. Palermo 5/1/1916. Suo dev.mo G. Pitrè». Si intuisce lo scrivere di un uomo stanco che sta mollando, costretto a passare il materiale fornito dal barone chiaramontano ad un suo collega. Le altre due lettere, inedite, sono nello stile del Pitrè maturo e vigile: scritte entrambe nella solita carta intestata del museo Pitrè. Nella prima datata Palermo 3 luglio 1914. lo studioso comunica di aver ricevuto un’opera a stampa del Melfi su Chiaramonte Gulfi e la “borgatella” di Pedalino. Egli lancia una sorta di appello in favore del suo Museo verso il quale nutre grande preoccupazione sul futuro. Interessante la rivelazione di aver avuto in programma una visita della “Contea” di Modica, mai portata a compimento a causa dei malanni fisici e della morte di ben due figli su tre! un peccato davvero, un’occasione perduta per la regione Ragusana.
La seconda è di un mese più tardi (il 18 agosto). In essa il Pitrè ringrazia il barone per l’invio di una serie di oggetti in creta, di cui solo una statuina da presepe è giunta integra: «Interessante, invece – scrive il Pitrè – è il pastore che chiede l’elemosina il quale fa proprio per me ed avrà subito il suo posto nella grande vetrina delle figurine da presepio». La figurina era un’opera del pasturaru chiaramontano Ignazio Ferlito, detto natichedda, come chiosa il Melfi a margine della stessa lettera. L’episodio conferma il grande spirito di collaborazione degli ambienti più avveduti culturalmente del Ragusano, generosi e disinteressati.
Come detto, il testo del manoscritto, trascritto diligentemente dal Cultrera, prende il titolo complessivo di Usi e costumi – Pregiudizi e superstizioni – Scongiuri- Leggende, e si sofferma su quello che definiamo oggi il ciclo della vita (dalla nascita alla morte). Esso, come ritiene il Cultrera, è collocabile tra il 1912 e il 1925. Inizia con un antichissimo ed arcaico rito, chiamato della acquazzina (la rugiada), che si celebrava dalle donne la mattina del 1° febbraio vigilia della cannilora (la Candelora), dedicata alla purificazione di Maria. In questa mattinata le contadine «a far dell’alba, si recavano sul monte Arcibessi recitando rosari ed il canto seguente […]. Dopo recitata la lauda s’inginocchiavano e disguazzavano le mani nell’erbe stillanti di rugiada dicevano tre ave e si segnavano col pollice umido nella fronte, nel labbro e nel petto. Così intendevano purificarsi mercè l’abluzione della rugiada e credevano che in tal modo potevano sottrarsi al potere delle maliarde».
Scorrendo le pagine del libro edito dal Cultrera si incontrano altri usi e costumi del popolo chiaramontano, tra cui spicca il rito del pellegrinaggio alla grotta di S. Rosalia. Scrive il Melfi: «Questa grotta, dentro la quale scaturisce una sorgente di purissima acqua, oramai racchiusa in una chiesetta che sorge in una valle dove scorre il fiume Irminio a circa 6 chilometri da Chiaramonte. Il popolino crede che in questa grotta si ricoverò S. Rosalia, e nella sorgente avervi lavato gli indumenti, i quali li strofinava in una pietra che ivi si mantiene come oggetto sacro.
Nessuna tradizione ci trasmette che S. Rosalia sia stata in queste contrade, e quindi non si sa spiegare la ragione di questo pellegrinaggio conservato nel solo popolino chiaramontano in un territorio di Ragusa. Non meno che una storiella dovette essere d’incitamento a promuovere il culto alla santa in questa grotta con voti ed offerte. Ciò nonostante a questa devozione il nome di Rosalia in Chiaramonte è imposto a rarissime donne a cominciare dai primi del secolo XVII come si rileva dai libri parrocchiali. Un canto che ho raccolto pare avere attinenza con la leggenda:
Rosalia dda lavava,
dda stinnia dda si stava,
supra u munti accianava,
e ccu Diu la passava.
Lu Dimoniu la tintava
“Marititi Rosalia – ci ricia -
“Nun mi vuogghiu maritari
Ca cu Diu sugnu spusata».
Subito dopo il Melfi si sofferma sulla festa di Natale e sul curioso rito “dell’alloro”, che vi si svolge ad un certo momento della novena:
«La festa di Natale è stata sempre preceduta da una novena, durante la quale nella parrocchia ogni sera si cantano i vespri, però quando il celebrante doveva intonare l’antifona, andava a mettersi sotto alcuni ramoscelli di alloro legati in un’asta a forma di alberetto che manteneva il sagrista. Tale consuetudine, che si dice introdotta nel sec. XVII dal parroco Salinaro oriundo calabrese, è stata già abrogata nel sec. XX». L’usanza è assai curiosa e ci induce a pensare che spesso i riti vengono introdotti da personaggi realmente esistiti, che li portano con sé dai luoghi d’origine. Ma è davvero così, o non è piuttosto che si tratta di antichissime pratiche di origine precristiana, come le dendrophoria, o feste dell’alloro, di cui l’etnografia moderna si è abbondantemente occupata? [2].
La descrizione delle antichissime pratiche natalizie chiaramontane sono di estremo interesse etnografico e ancora oggi sorprendono per la loro assoluta “arcaicità”. Nella serietà delle feste poi si insinua, e lo fa notare il nostro barone, quella sana ironia tutta iblea, che non risparmia il sacro. A più riprese il Melfi riporta, con bonaria indulgenza, lontano dalla corrosività del Guastella, episodi comici che si insinuano nella sacra liturgia natalizia. Scrive il Melfi:
«Il giorno dell’epifania ne ha luogo un altro [esempio di sacra rappresentazione natalizia] nella chiesa di S. Giovanni (1859). Vi prendono parte i Re Magi che vengono un dopo l’altro con splendido seguito di cavalieri a prostrarsi dinnanzi al Messia e ad offrire oro, incenso e mirra. Ciascuno dei tre Re ha un costume proprio, indiano il primo, persiano il secondo, arabo il terzo, e così il seguito che va mano mano ingrossando e avvicinandosi con pompa sempre maggiore. Ma ciò che ha fatto distinguere lo spettacolo non è né lo sfarzo e la grandiosità di esso, sibbene una trovata che ebbero i direttori della festa poco prima del 1860, quando all’asino di cartone, figurante nel presepe, vollero sostituire un asino vero. La trovata era geniale; ma … andate a dirlo agli abitanti dei paesi vicini! Questi cominciarono allora a riempire il mondo di lor canzonature e fecero un sanguinoso rispetto i cui versi suonavano così:
A Ciaramunti paisi ri cucchi
supra l’autaru mintunu li scecchi
[A Chiaramonte paese di gufi / sopra l’altare mettono gli asini].
In molte famiglie si preparavano artistici presepi, che il popolo in forma di pellegrinaggio andava di sera a visitare. Nella veglia che si faceva da tutti nella notte di Natale, in ogni famiglia non mancavano dei diversi giuochi con delle nocciole, e fra i dolci che si offrivano sono speciali le mendechine (paste al miele), la cubaita (sesamo e miele), la mostata farina e mosto cotti e asciugati al sole), i susameli (paste di mandorla e zucchero) ed altri.
Le donne dell’ultima plebe illuminavano la stanzuccia con l’olio raccolto nelle famiglie agiate nel giorno precedente, contraccambiandolo con dei Giafaggiuna (cefaglioli, Chemeropus umilis – giummara, il cui torso presso la radice si mangia), che di proposito i contadini ed i pastori portavano dai nostri boschi. Questi svaghi si prolungavano fino alla mezzanotte, quando al suono della campana della parrocchia tutti si recavano alla chiesa a vedere sull’altare l’artistico congegno delle nuvole che tremolanti dilatandosi apparisce il Bambino Gesù, la Madonna e S. Giuseppe. Indi andavano ad ascoltare le quattro messe che per privilegio si celebravano in unico altare ai Cappuccini. Era durante tale funzione che i vecchi pecorai, che col suono della cornamusa avevano allietate le loro riunioni domestiche, insegnavano ai loro figli, nipoti ed amici la Razioni ri l’attaccata ri li lupi a fine di potersene giovare nei casi di bisogno, dovendosi imparare esclusivamente la notte del Natale, poiché il recitarsi fuori tempo è una profanazione che torna a danno […]».
Di particolare rilievo appaiono le notizie del Melfi sul “raccolto delle ulive”. «Il raccolto delle ulive per le donne è stato sempre un lavoro allegro…». Qui mi fermo su queste parole: “un lavoro allegro”. Oggi le macchine fanno tutto. Si produce un olio che dicono “doc”: ma le voci, e i colpi di ramazzu (batacchio)? e gli innamoramenti? e i canti polifonici degli operai olivari? Si produce e non si vive. Così va il mondo oggi.
Non ci resta che ringraziare, comunque e dovunque, Giuseppe Cultrera, vero genius loci chiaramontano, che dalla fine degli anni ‘70 pubblica, anche con una famosa casa editrice, che non poteva non chiamarsi “Utopia”, riportando alla luce relitti di un passato che non finisce mai di sorprenderci, come dimostra il prezioso manoscritto pubblicato, opera di un barone che a suo modo amava il popolino, le classi popolari, gli ultimi, cui una etnografia a suo modo “impegnata” ha ridato voce e sguardo, insomma vita.
E come non ringraziarlo quando al termine della sua introduzione al manoscritto del Melfi ci ricorda che Chiaramonte non è solo la terra dei nobili Guastella e Melfi, ma ha “generato” la scrittura “proletaria”, alternativa e “matta” di Vincenzo Rabito. Ma leggiamo con attenzione cosa ne scrive il Cultrera: «Nell’ultimo anno del secolo XIX [1899] era morto Serafino Amabile Guastella, il barone dei villani – come lo definirono Italo Calvino e Leonardo Sciascia – ed era nato un oscuro figlio del popolo più povero, Vincenzo Rabito.
Il Melfi non lo conobbe sicuramente, suo nipote Nunzio invece ne fece un proprio galoppino politico, dandogli un posto di cantoniere alla provincia. Che permise al nostro di affrancarsi dalla miseria […]. Aveva fatto la grande guerra […] lui tornò vivo […]. Il tutto volle raccontare in un diario, narrando come aveva percorso il Novecento, tra fame guerre e tentativo di riscatto, “contromano”.
Il Guastella e il Melfi avevano scritto per i posteri, Rabito scriveva per sé, per un conto privato con la vita e la storia; e doveva restare segreto difatti, ma il manoscritto giunse, postumo, per fortunose congiunture, all’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano. Vincitore nel 2000 del premio omonimo, sette anni dopo viene pubblicato dalla Giulio Einaudi col titolo di Terramatta.
E ironia della sorte la fama, rincorsa a lungo dagli intellettuali, più o meno provinciali, della piccola Chiaramonte (il Melfi e il Guastella tra costoro) si introduce nella umile dimora del contadino Rabito e si orna della sua particolarissima lingua “terremotata”, dove gli usi e costumi e superstizioni raccolti dal Melfi sono sostrato e malta cementizia. A volte i vinti (ricordate i diseredati del Verga?) si ritrovano vincitori. Raramente accade, ma accade: per esempio al popolano Vincenzo Rabito».
Noi a nostra volta, ribaltiamo ulteriormente i piani e rendiamo onore a un nobile che certamente guardava alle classi umili con l’attenzione di chi vuole documentare: e non è poco. Due manoscritti insomma che, meritoriamente portati alla luce, restituiscono un prezioso spaccato della vita quotidiana dei ceti popolari tra Ottocento e Novecento, inediti contributi alla conoscenza della cultura tradizionale iblea.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Sui “corrispondenti del Pitrè cfr. Pitrè e Salomone Marino. Atti del convegno internazionale di studi a 100 anni dalla morte, a cura di R. Perricone, Palermo, edizioni del Museo Pasqualino, 2017, in particolare i saggi specifici di Burgaretta (corrispondenza Bianca-Pitrè), Cusumano (corrispondenza Castelli-Pitrè) e Lombardo (corrispondenze Guastella-Pitrè; Italia Nicastro-Pitrè).
[2] Si vedano fra tutti i lavori di I. E. Buttitta sulle feste dell’alloro.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023).
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