CIP
di Franca Zuccoli
Il tema della casa, dell’abitare, è un elemento imprescindibile nella vita dell’essere umano, un aspetto che pone punti di riflessione e interrogazione, necessitando di continui approfondimenti e confronti, e che da sempre ha richiesto l’apporto di molte e differenti discipline. Mettere in relazione questa tematica con un’altra “costruzione umana”, il museo, macchina dell’esporre e del condividere, arricchisce il percorso di studio, svelando alcuni fattori che grazie a questo accostamento è possibile evidenziare. Lo scritto qui presentato è frutto di un convegno che ha visto svilupparsi, nell’alveo della Fondazione Museo Ettore Guatelli e del lavoro del suo comitato scientifico, uno stretto dialogo.
Il convegno, nato grazie a questa articolata tessitura, è risultato un ricco e fecondo banco di prova, in cui ogni partecipante ha potuto, partendo da assunti che nascevano dalla propria disciplina di riferimento e dai propri ambiti di ricerca, approfondire le tematiche proposte, portando uno sguardo e un punto di vista, in un meticciamento e uno scambio costante di esperienze, pensieri, ricerche. La scelta del titolo di questo contributo “Il museo-casa e le case che diventano musei. Luoghi per esplorare, conoscere, riflettere” rimanda, infatti prioritariamente, all’ambito di studio e ricerca proprio della pedagogia e della didattica del patrimonio, che pone una forte attenzione al percorso di partecipazione, mediazione, interpretazione all’interno dei luoghi di una cultura intesa come forma viva, in dialogo, in ascolto, pronta a trasformarsi nel divenire sociale.
Per affrontare questa tematica il primo punto di partenza è stato, per me, il ricordo di un’esperienza legata all’esposizione di Alessandro Mendini “Quali cose siamo” per la terza edizione del Triennale Design Museum nel 2010. La domanda che Silvana Annicchiarico, allora direttrice del Museo del Design, poneva ogni anno ai differenti curatori individuati era quella di provare a esplicitare cosa fosse il design italiano, grazie a un’esposizione, con tematizzazioni dalle ampie prospettive, nella formula innovativa di un museo mutante. «Nelle nostre intenzioni e nei nostri auspici, ogni nuova edizione del Museo corrisponde a un nuovo modo di interrogare il design italiano e di raccontarne la storia» (Annicchiarico in Mendini, 2010: 27)
Mendini, per rispondere a questo interrogativo, attuò una ricerca ricca ed estremamente approfondita, quasi enciclopedica, arrivando a individuare 794 oggetti, con una precisa selezione di partenza. Così descrive questo insieme:
«Si tratta di una raccolta ragionata di oggetti messi uno accanto all’altro. Oggetti come fossero stelle cadenti, oggetti arrivati da vari luoghi e da situazioni una indipendente dall’altra, ma tutte motivate da un significato. Sono lì per un motivo. Ciascuno di loro ha (ed è) una storia. Messi assieme questi oggetti creano delle relazioni, dei rimandi, segni, segnali e informazioni complesse. Appoggiati l’uno accanto all’altro, essi formano una visione, un museo, un possibile organigramma del design italiano, possono farci capire “con quali cose siamo”, e anche “quali cose siamo”» (Mendini, 2010: 31).
Lavorando per dar forma alla progettualità educativa insieme con Michele Corna, attualmente educational manager di Triennale, tra gli oggetti individuati come significativi da proporre e con cui lavorare con i bambini, ve ne era uno particolare, che aveva suscitato la nostra attenzione, così descritto nella didascalia in mostra: “La scatola di Tommaso. Macerie del terremoto dell’Aquila, Abruzzo 2009”. La storia è facilmente prevedibile, sotto alcuni aspetti, imprevista per altri. Tommaso Tani perde, nel sisma del 6 Aprile, la sua casa e congiuntamente tutti gli aspetti di una vita quotidiana, di un giovane che aveva compiuto appena vent’anni. Da lì in avanti traslochi e cambi di abitazione, tra Roma, Pescara e Bologna. Nel suo zaino, però ad accompagnarlo c’era sempre una scatola di cartone, con i pochi frammenti di quello che gli restava «[…] della sua camera all’Aquila-memoria della casa» (Mendini, 2010: 409). L’incontro con Mendini, porta Tommaso a maturare la volontà di prestare la scatola e il suo contenuto perché divenga parte della nuova esposizione, elemento concreto di quello che un design italiano senza cura può provocare.
Un pezzo di casa, in un museo, per non rischiare di essere invisibile, che ritornava in qualche modo a essere presenza della casa e suo ricordo, poiché, come ci ricorda Franco La Cecla:
«In realtà gli oggetti che si possiedono detengono, oltre al proprio significato materiale di utilizzo, un valore di ricordo, trasmettitore di una memoria personale e collettiva. Nella loro consistenza fisica si sviluppa un processo di identificazione personale e di gruppo. Ciò avviene essendo l’oggetto un condensatore di relazioni; in esso non leggiamo semplicemente un ritratto del suo possessore, ma relazioni tra storie, persone, luoghi, che trattengono lo spirito esistenziale di un ambiente. L’oggetto diviene metafora del vivere» (La Cecla, 1998: 9).
Un frammento di casa in un museo, utile come primo punto di partenza di questa trattazione, per iniziare a dire che i musei, e le esposizioni anche temporanee, possono sempre offrirsi a ospitare case, o a diventare essi stessi case in cui le storie personali assumono un aspetto pubblico e condiviso, venendo attraversate quotidianamente dai visitatori, prestandosi, così, a continui richiami e assonanze con le storie private di chi li osserva.
Se dunque il museo, spazio espositivo, riesce a inglobare in sé alcuni aspetti dell’abitare, a maggior ragione una tipologia particolare di museo, come le stesse case-museo, può assolvere completamente a queste richieste. È, infatti, proprio nelle case-museo che si riesce a coniugare una dimensione privata, con una dimensione che diventa pubblica, come pure la capacità di mettere in relazione quella che potremmo definire una storia più individuale, con una prospettiva storica più ampia. Fin dal 2007 (assemblea Demhist Vienna) la predisposizione di una specifica categorizzazione, al di là delle possibili frammentazioni, talvolta poco facilmente individuabili, ci ha permesso di osservare un mondo ricchissimo, variegato e in divenire: «case di uomini illustri, case di collezionisti, case della Bellezza, case dedicate a eventi storici, case volute da una comunità, dimore nobiliari, palazzi reali e luoghi del potere, case del clero, case a carattere demo-antropologico». Nello stesso convegno, origine di questi contribuiti, Pietro Clemente si interrogava su come una casa potesse diventare un museo, come un museo potesse trasformarsi in una casa, sottolineando l’importanza della scelta e l’autorialità di chi l’aveva compiuta. Al contempo Claudio Rosati, evidenziava il valore del confine e della porta, in cui si colloca «un piccolo dio della soglia» (Bachelard, 2006: 258), che va oltrepassata per entrare negli spazi intimi delle case-museo.
La stessa trasformazione delle case-museo nel tempo, ci parla di una richiesta iniziale di valorizzazione di impronta patriottica, dagli exempla virtutis, che dovevano contraddistinguere i luoghi delle nuove nazioni, creando una serie di Landmark che sapessero costruire una narrazione da condividere con la popolazione, in modo semplice e inequivocabile, in cui le figure degli eroi e degli uomini illustri collocati in luoghi fisici precisi potessero essere facilmente identificabili (Pavoni, 2008:18).
La casa-museo rispondeva perfettamente alle esigenze di molte giovani nazioni, sottolineando una dimensione intima e quotidiana, che poteva facilmente creare un sentimento di partecipazione. Appena varcata la soglia, l’impressione era quella di entrare nella storia e di sentire l’anima di chi vi aveva abitato, i suoi passi, la quotidianità all’interno di quegli ambienti, e poi la voce delle cose, con la loro sistemazione, l’arrivo delle novità: acquistate, trovate, donate in una modifica costante degli allestimenti. Spesso si trattava di ambienti in cui si riconoscevano ancora i luoghi del vivere: il sonno, il cibo, i lavori, l’incontro con gli altri; in altri casi, invece, il processo di musealizzazione si era fatto nel tempo più evidente, in un certo senso cancellando i gesti più minuti dei precedenti abitanti.
Nell’evoluzione storica delle case museo è interessante collocare anche un differente aspetto che si inserisce nella chiara delimitazione tra il fuori e il dentro, in cui attualmente si cerca di valorizzare e accentuare ancora di più, rispetto al passato, tutti gli aspetti più personali e domestici, che spingono i visitatori a ricercare e a individuare gli spazi del mangiare e del dormire, dello studio e della ricerca, a trovare proprio quell’oggetto specifico utilizzato da quell’autore, ad accomodarsi nel suo studio, a scattare la foto vicino al suo letto o se possibile utilizzando alcune di quelle sue cose.
Si tratta di un lato significativo, che ultimamente sembra in crescita e che ci fa comprendere la nascita e l’incremento di tanti di questi luoghi espositivi, in cui la ricerca, quasi spasmodica, di una dimensione privata, si avvicina allo spiare o all’osservare dal «buco della serratura» (Pavoni, 2008: 11), fissando l’attenzione sui particolari più privati, cogliendo aspetti della vita non sempre noti. Si tratta di un aspetto legato al “gossip” che da sempre è appartenuto a molte visite guidate, in cui per accrescere l’attenzione del pubblico, la guida navigata sapeva, ogni tanto, collocare nella narrazione alcuni piccoli dettagli o particolari, che permettevano di sentirsi più vicini agli artisti e autori di cui si stava parlando, in qualche modo di condividere alcuni passaggi di vita con loro.
Significativo come riferimento in questo caso, può essere riportare un esempio proposto da Rosanna Pavoni (2008) e Roberta Bartoletti (2006, 2010), relativamente alle Personality Houses che mostrano i movimenti del turismo, alla ricerca della possibilità di dare un nome alle esperienze scelte, con l’intento di partecipare collettivamente a una narrazione. L’esempio individuato è quello relativo alla casa di Heidi, personaggio nato dalla penna della scrittrice Johanna Spyri, che ha portato alla creazione di un marchio ufficiale che definisce un distretto: “Heidiland vacation region”, identificando una zona in Svizzera, che può proporre la storia di Heidi, collocandola in luoghi determinati, con un’offerta che richiama la natura, la bontà dei prodotti forniti e un’esperienza significativa e riconoscibile che ben si sposa al racconto, ricordo di chiunque abbia letto il testo, costruendo un passato comune, tranquillizzante e benevolo in cui natura, autenticità e passato hanno la loro dimensione, in realtà in parte inventata ad arte, ma che così formulate stanno riscuotendo un enorme successo.
Parlando sempre di case-museo dobbiamo inserire un’ulteriore suddivisione tra: le case museo in cui il museo è nato dalla vita quotidiana con una scelta consapevole del proprietario, in cui potremmo dire che il museo ha, in qualche modo, occupato la casa; e le case museo costituite alla morte della persona, senza una sua scelta diretta e consapevole, talvolta anche a grande distanza di tempo. In questo secondo caso, va almeno sottolineato, come talvolta, questa scelta compiuta a seguito della morte di alcune personalità, sia pienamente in contrasto con la loro stessa modalità di vivere, schiva e poco incline a un ricordo di sé musealizzato. Nella decisione presa va sempre adeguatamente ponderato il rispetto per le scelte personali e l’importanza di quel luogo, anche ai fini di ulteriori ricerche e di una più attiva condivisione culturale per la collettività.
Una delle ulteriori domande a cui si deve cercare di provare a rispondere è, inoltre, quella legata alla relazione con le possibili modifiche, se, in qualità di direttori o curatori, la scelta sia quella di orientarsi verso una conservazione totale, quasi un congelamento nello spazio e nel tempo, volto alla salvaguardia di quel patrimonio, oppure all’individuazione di possibili modalità di trasformazione. In alcune case-museo non sono ammessi cambiamenti, bloccati così come sono dopo la morte della persona che li ha creati, raggelate nel tempo; altre, invece, sono in costante divenire, in dialogo, ad esempio, con l’arte contemporanea, con le tematiche più attuali, senza paura di confondersi o di meticciarsi (Fachechi, 1995). In ogni caso, in tutte e due queste (seppur solo abbozzate) tipologie di case-museo, elemento imprescindibile è la storia della persona o delle persone che li hanno creati, la narrazione si diffonde negli spazi e può rapire il visitatore in una dimensione che è al contempo atemporale e attuale. Questo incontro però, deve sapere prestare attenzione anche a un altro aspetto, relativo al non soffocare “la personalità” degli stessi oggetti lì contenuti (Miller, 2013, 2014; Sudjic, 2015), che hanno certamente impressa, in modo imprescindibile, l’autorialità di chi li ha scelti, ma che sono anche molto altro (Bodei, 2009; La Cecla, 1998). Gli oggetti, da quelli preziosi a quelli che potremmo dire più comuni, hanno in prima istanza la peculiarità dell’essere stati selezionati per appartenere a quell’insieme, non sempre una collezione voluta, ma sanno, se osservati con attenzione, raccontare un’altra storia, la loro, fatta di utilizzi diversi, spostamenti e infine collocazione in questa nuova e ultima casa.
Tornando al titolo potremmo passare ora ad affrontate il perché del sottotitolo: “luoghi per esplorare, conoscere, riflettere”, legato alla tipologia delle case-museo. In primo luogo questa dimensione più intima, rispetto al grande museo generale o disciplinare, permette da subito anche con bambini molto piccoli, di entrare in una sintonia di esperienze. La casa diventa un luogo riconoscibile in cui ritrovare la propria storia con tutte le differenze, osservare diversi percorsi umani, e avvicinarsi agli oggetti intesi come attivatori relazionali. Una dimensione quotidiana, che potenzia la riflessione, la curiosità e l’interesse verso storie di altri. Un aspetto intimo, che può essere facilmente compreso e confrontato con le proprie storie, la vita di un’altra persona di cui prendersi cura da vicino. Dal versante degli oggetti, se la casa-museo è quella di un collezionista, le raccolte primigenie contenute nelle tasche dei bambini (Zuccoli, 2010) possono diventare un elemento di paragone, iniziali raccolte spontanee che si trasformano nel tempo in piccole collezioni, che servono ai bambini a prendere la misura del mondo a orientarsi e a conoscere meglio. E ancora in questo ambito riferimento fondamentale diventano anche le Wunderkammer (Basso Peressut, 1997; Eco, 2009; Lugli, 2005; Pomian, 2007), nello specifico la Wunderkammer di Settala, magnificamente riallestita nelle sale del MUDEC (2021), in cui ogni spazio è utilizzato in questa tessitura costante tra gli oggetti.
Nel dar voce agli oggetti personali, si può collocare, tra i molti progetti innovativi e partecipativi il progetto pubblico “Vetrinetta” realizzato dal 2014 e al 2015 dall’artista Paolo Riolzi e dal curatore Matteo Balduzzi e il sociologo Paolo Volontè, che racconta la storia di una comunità attraverso questo oggetto d’arredo, il cui esito è stato esposto presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello dal 15.03.2015 > 13.09.2015 (Riolzi, 2015), e che fa capire come non ci sia distinzione d’età nel conservare e collezionare alcuni oggetti che parlano di sé. Concludendo questa rapida panoramica, risulta necessario riportare alcune frasi tratte da Un modesto manifesto per i musei di Orhan Pamuk, elementi di riflessione e, perché no, di discussione, che sanno potentemente collegare vite diverse, contenuti più aulici, con aspetti intimi in una connessione che permette di innescare percorsi costanti di scoperta e di conoscenza:
«6. È fondamentale che i musei diventino più piccoli, più “personali” e meno costosi. Solo così potranno raccontare storie a misura d’uomo. […]
7. Lo scopo dei musei di oggi e di domani non è rappresentare lo stato, ma ricreare il mondo dei singoli individui, gli stessi che per secoli hanno subito spietate oppressioni. Non dobbiamo dimenticarlo.
9. Se gli oggetti non sono privati del loro ambiente e delle loro strade, ma vengono sistemati con cura e ingegno nelle loro case naturali, racconteranno da sé le loro storie.
11. Il futuro dei musei è nelle nostre case» (Pamuk, 2012: 56-57).
Le case-museo, viste in quest’ottica, sono i luoghi perfetti per una musealizzazione viva e partecipata, spazi dell’incontro, in cui età diverse possono confrontarsi e le storie individuali riescono a diventare collettive.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Riferimenti bibliografici
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Franca Zuccoli, professoressa ordinaria di Didattica e Pedagogia Speciale presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università di Milano-Bicocca., nonché docente di Didattica generale e di Educazione all’immagine, è Coordinatrice del dottorato in Patrimonio Immateriale nell’innovazione socio-culturale, Presidente di Opera Pizzigoni. Nei suoi campi di ricerca è presente un’attenzione specifica nei confronti della relazione tra patrimonio culturale, materiale e immateriale, e l’ambito della formazione/mediazione, oltre che del rapporto tra museo e istituzione scolastica.
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