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di Maria Cristina Pantellaro
Quanto restituisco è il frutto di una visita presso il Museo Guatelli, avvenuta nel 2017 con la Scuola di Specializzazione in beni DEA della Sapienza, Università di Roma. Alla visita è seguito l’ascolto delle interviste a Guatelli su youtube, a Mario Turci, direttore del museo, la lettura del fumetto scritto da Pietro Clemente in cui Guatelli diventa un pifferaio fatato o del video realizzato dal regista Filippo Chiesa, Ettore’s wunderkammer.
Di questa visita, quello che propongo, più che un testo, sono fotografie che ho scattato e che successivamente, mentre mi documentavo sulla storia del Museo, ho deformato, ritoccato, trasformato in modo giocoso, in una mia personale visione.
A Ozzano Taro c’è una casa colonica immersa in uno spazio verde ondulato, incastonata in un ritaglio di cielo. Un tempo dimora di una famiglia di mezzadri, oggi è un museo, intitolato a colui che l’ha inventato: Ettore Guatelli, nato nel 1921, figlio di contadini e maestro di campagna come amava definirsi. Il Museo accoglie circa 60.000 oggetti del «quotidiano» collezionati dal 1970 al 2000.
Sono le lacerazioni, le riparazioni che subiscono gli oggetti a causa dell’uomo che li usa, e del tempo che li logora, quello che interessa a Guatelli. Gli oggetti parlano e raccontano storie di vita, esperienze e abitudini, attraverso i segni che cosificano condizioni sociali, professioni, desideri, ambizioni, strategie, immaginazione, creatività e ingegno. Gli oggetti, anche quelli seriali, non sono mai identici gli uni agli altri perché conservano l’impronta di chi li ha usati.
Lo scopo di Guatelli è quello di realizzare una grande installazione, una grande opera dell’umano, in cui l’oggetto materiale è testimonianza, scrittura di esistenze, progetto di riflessione nei suoi particolari e attraverso nuovi assemblaggi che ne mutano caratteristiche e funzionalità.
Il museo è suddiviso in due parti. La casa di Ettore Guatelli e il museo-installazione. Dentro e fuori, in alto e in basso, a destra e a sinistra, gli oggetti si irradiano in ogni angolo dello spazio. Stupore e spaesamento si imprimono nello sguardo altrui.
In quel museo c’è un non so che di umoristico, lo individui nelle pieghe dell’oggetto, nell’accostamento di materiali e nella trasformazione di artisti “popolari”, visionari e curiosi.
Scarpe, scodelle, coltelli, falci, orci, insegne, lucerne, orologi, botti, pale, forbici, utensili d’ogni sorta, specchio dello spirito del tempo. In ogni luogo tracciano linee ondulate, spirali, percorsi, fili sottili della memoria.
Ogni stanza è una camera delle meraviglie, apre lo sguardo a una fantasmagoria di segni che percorrono il mondo dell’astrattismo, dell’armonia, della simmetria imperfetta, di una architettura spirituale.
Gli oggetti non vengono ordinati per ciclo produttivo e per mestieri, ma per forma. È la forma che indica la strada verso la sostanza delle cose. È la forma che rimanda a mondi archetipici e intimi.
Il fine estetico è per Guatelli strategia di comunicazione. Attraverso lo stupore, la sospensione, intende entrare in contatto con il visitatore perché di quegli oggetti, uno per uno, ne conosce la storia, una storia di uomini, di dignità degli umili, di un mondo che non è più facile incontrare, quello contadino.
Ogni stanza prende il nome dagli oggetti che contiene o che la contengono. La stanza dei vetri e quella delle latte. Quella delle insegne e delle zuppiere. E la sua stanza da letto, quella degli orologi tutti fermi ad un tempo mitico. Ricchezza e povertà, vecchio e recente, nobile e dialettale, un coro unico di voci armoniche e anche dissonanti.
Nel suo studio, contiguo alla camera da letto, riverso sulla sua Olivetti Lexikon 80, Guatelli ha dattiloscritto molte e molte schede, ciascuna in 7 copie, con informazioni su ciascun oggetto: provenienza, modalità di utilizzo, frammenti di storie legate ad esso. Sono “le cose minime” che danno la chiave su cui sono costruire le impalcature dei discorsi, come per esempio il perno che sostiene la ruota del carro e che ne consente il movimento.
Quando ho visitato il Museo Guatelli, ho immaginato che ogni oggetto potesse essere sostituito da un nome proprio e quella moltitudine di oggetti “nominati” mi ha ricordato Le anime morte di Gogol. In questo romanzo Cìcikov acquista un certo numero di anime (servi della gleba dell’Impero russo che vengono censiti ogni cinque anni) ma che sono già defunte. E non appena si ritrova dinnanzi alla lista, ricca di annotazioni e di rimandi a patronimici e familiari, comincia a immaginare chi fossero quei nomi, a chi fossero appartenuti. Guatelli come Gogol:
«In due ore tutto era fatto. Quando diede un’occhiata a quei foglietti, ai nomi di quei contadini che, appunto, un tempo erano stati contadini, che avevano lavorato, arato, si erano ubriacati, avevano fatto i cocchieri, ingannato i padroni o forse erano stati semplicemente dei buoni contadini, una sensazione strana, a lui stesso incomprensibile, s’impadronì di lui. Pareva che ogni foglietto avesse un suo particolare carattere e lo comunicasse anche ai contadini, che così assumevano una loro propria personalità. I contadini della Koròboc’ka avevano quasi tutti vari soprannomi e nomignoli. La nota di Plius’kin si distingueva per stringatezza: spesso erano segnate soltanto le iniziali dei nomi e dei patronimici seguiti dai due punti. L’elenco di Sobakevic’ stupiva, tanto era completo ed esatto; nessuna qualità del contadino era tralasciata, di uno, era detto “buon falegname”, di un altro “capisce il lavoro e non beve”. Vi stava inoltre esattamente indicato chi erano il padre e la madre e quale fosse stata la condotta di entrambi; presso il nome di uno solo, un certo Fiodotov, stava scritto: “di padre ignoto, nato dalla serva di casa Kapìtolina, ma di buon carattere e onesto”. Tutti questi particolari davano un certo senso di freschezza: sembrava che ancor ieri i contadini fossero vivi. Guardando a lungo i loro nomi Cìcikov si commosse e disse sospirando: “Dio mio, in quanti siete qui! Cosa avete fatto, miei cari, nel corso della vostra vita, come avete tirato avanti?”. Ed involontariamente i suoi occhi si fissarono sopra un cognome: era quello del già noto Piotr Savelic’ Neuvaz’ài-Koryto, che un tempo era stato della proprietaria Koròboc’ka. Di nuovo Cìcikov non potè trattenersi dall’osservare: “Eh, come sei lungo, ti sei disteso su tutta una riga! Eri un artigiano o un contadino e che specie di morte ti ha portato via? Sei morto all’osteria o sei stato schiacciato, mezzo assonnato in mezzo alla strada, da uno stupido carro? Probka Stepàn, falegname, di esemplare sobrietà. Ah, eccolo Probka Stepàn, ecco quel colosso che sarebbe stato adatto a prestar servizio nella guardia imperiale! Forse hai percorso governatorati e governatorati, con l’ascia infilata nella cintura e gli stivali sulle spalle, mandando un soldo di pane e due di pesce secco e nel borsellino portarvi ogni volta a casa un centinaio di rubli d’argento, e, forse, cucivi dentro i pantaloni di tela o nascondevi negli stivali delle banconote di stato. Dove ti ha colto la morte? Ti eri forse arrampicato in cerca di un maggiore guadagno sotto la cupola della chiesa, ti sei trascinato fin sulla croce, e di lassù, scivolando dal ponte, sei precipitato a terra, e un qualunque zio Michèi che ti stava vicino, passandosi una mano nella barba, ha detto: ‘Ehi, Vanja, ci sei arrivato!’ e poi, dopo essersi legato alla cintura una corda, s’è arrampicato al tuo posto. Maksim Teliatnikov, calzolaio. Eh, calzolaio! ‘Ubriaco come un calzolaio’, dice il proverbio. Ti conosco, ti conosco, amico: se vuoi ti racconto tutta la tua storia» (Anime morte di Nikolaj Gogol, Edizioni Biblioteca Universale Rizzoli, 1998).
E infine: Omaggio al Direttore del Museo. “Mario Turci che parla”
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Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Maria Cristina Pantellaro, Dottoranda in antropologia culturale alla Sapienza, Università di Roma, presso il Dipartimento Saras, con una ricerca sulle edicole votive dei Quartieri Spagnoli di Napoli che ha l’obiettivo di indagare i processi contemporanei dell’abitare popolare nello “spazio pubblico”, attraverso l’analisi di pratiche singolari e plurali (“modi di fare”) e nuove forme di uso dello spazio. Ha conseguito il diploma presso la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici della stessa Università. Per molti anni ha lavorato con fondazioni ed enti di ricerca per la realizzazione di progetti, sia a livello nazionale che internazionale, e per indagini antropologiche, nel settore no-profit; gli ambiti di intervento nei quali ha principalmente svolto le attività professionali sono: educazione e formazione, inclusione sociale e cultura. Tra le recenti pubblicazioni: Esperienze di travestimento femminile a Bellizzi Irpino (2020); Graffitismo vs Public Art? Riflessioni sulle trasformazioni di pratiche urbane contese da istituzioni, abitanti e artisti (2021); Edicole votive a Napoli tra memorie contese e pratiche dell’abitare (2021).
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