di Antonio Bica
John Wisdom è stato un filosofo britannico del ‘900; è conosciuto da molti per avere innescato un vero e proprio dibattito teologico sulla fede a partire dalla sua celebre ‘parabola del giardiniere invisibile’, un breve racconto in forma di dialogo che ha per tema l’esistenza di Dio.
Riporto qui di seguito la graziosa dissertazione: «Due persone ritornano al loro giardino a lungo dimenticato e si accorgono che, tra le piante infestanti, alcune delle vecchie piante sono sorprendentemente vigorose. Uno dice all’altro: “Si vede che un giardiniere è venuto a lavorare tra le piante invasive”. L’altro non è d’accordo e da questo nasce una discussione. Piantano quindi le loro tende e iniziano l’osservazione. Non si fa vivo alcun giardiniere. Il credente si chiede se non possa esservi un giardiniere invisibile, così che decidono di sorvegliare con dei segugi, ma i segugi non trovano nulla. Il credente, ancora non convinto, insiste sull’esistenza di un giardiniere invisibile, che non ha odore e non emetta alcun rumore; lo scettico non è d’accordo e chiede in cosa un siffatto giardiniere, invisibile, intangibile ed elusivo, differisca da un giardiniere immaginario, o persino da nessun giardiniere».
In prima battuta emergono le posizioni differenti dei due protagonisti, l’uno credente, l’altro no; il secondo non riesce ad immaginare una presenza invisibile o immaginaria e per lui non fa differenza qualcosa di immaginario e il nulla addirittura, mentre per l’altro, Dio è comunque presente, visibile o non visibile. La diversità che sta alla base del contrasto fra i due, consiste nella messa in atto della capacità di ‘fidarsi’.
La fiducia che abbiamo verso gli altri e verso il mondo attorno a noi, fa sì che possiamo raccogliere ed elaborare gran parte delle informazioni che provengono dall’esterno ed utilizzarle nella vita di relazione, senza per questo pregiudicare il nostro rapporto con la ragione. Il credere, di per sé non è un fatto irrazionale; la ragione, infatti, interviene e ci guida nella proiezione verso la conoscenza. Quasi tutto ciò che sappiamo, entra nella nostra sfera cognitiva in maniera mediata; buona parte delle cose che apprendiamo, le apprendiamo dagli altri e pertanto sono indirette, giungono a noi solo perché, nel momento in cui raccogliamo un’informazione, ci ‘fidiamo’ degli altri, ‘crediamo’ negli altri.
Gli altri sono una buona fonte di insegnamento nella misura in cui ci poniamo verso di loro con animo fiducioso. È come dire che senza la fiducia siamo costretti a relazioni asettiche e non compromettenti dal punto di vista anche spirituale; il rapporto con l’altro non sarà mai di tipo partecipativo e propositivo, si svolgerà in prevalenza sul piano della stretta fiscalità, senza mai contemplare un moto d’animo o un anelito sensazionale. È un po’ quello che accade nel panorama della nostra modernità, dove una moderna civiltà che ha perduto via via la capacità di ‘fidarsi’ e di ‘affidarsi’, consegna l’uomo alla propria inevitabile solitudine, destino necessario per chiunque nutra nel cuore la paura ad aprirsi col proprio simile in un sano contesto relazionale.
Perfino la ragione esce mortificata da una trappola simile; è come se la ragione fosse utilizzata alla stregua di pretesto per giustificare quel comportamento privo di emotività e tutto ciò che ne consegue, compreso il risultato finale che consiste nel proprio isolamento. Usiamo la ragione per spiegare ed imporre a noi stessi l’avversione verso la fiducia in generale; la ragione usata in questo modo ci tiene al sicuro dagli inganni di ciò che è nascosto, di tutto quello che non appare, delle sorprese negative che la ‘fiducia’ può riservarci; una simile impostazione ci priva però della possibilità di provare sensazioni di meraviglia e stupore perfino dinanzi al creato, e allora tutto il mondo con le sue fenomenologie ci si mostrerà in bianco e nero, addirittura il sorriso di un bambino ci apparirà soltanto come il semplice e naturale stiramento dei muscoli labiali e nulla più.
Ma la ragione è uno strumento forte e dipende da noi in che modo utilizzarlo; per esempio possiamo ‘ragionare’ sulla necessità della fede o sulla sua utilità e così via. Nella Lettera agli Ebrei è scritto: «la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza. Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che si vede» (Lettera agli Ebrei, 11, 1-3).
Troviamo qui, in questo scritto del Nuovo Testamento, una breve definizione di ciò che è la fede, col suo carattere un po’ ambiguo, elusivo e quasi paradossale; ci troviamo di fronte ad un’affermazione di certezza di cose sperate e quindi incerte, una certezza però senza alcuna forma di garanzia e di sicurezza, una testimonianza di cose invisibili, non evidenti né dimostrabili empiricamente, una dimostrazione non soggetta al controllo naturale, una finestra che illumina il lato oscuro dell’esistenza, una visione illuminata di prospettive nascoste che l’uomo non può comprovare né documentare in alcun modo ma neppure può negare.
La fede necessita di ‘fiducia’ per avvicinarsi ad una verità rivelata e ad un Dio invisibile e indimostrabile con la ragione; la fiducia è il presupposto essenziale, il punto di partenza per procedere lungo il cammino e giungere ad una forma di certezza di cose sperate.
C’è uno slancio evidente in tutto questo, una tensione escatologica, un anelito tutto umano verso il fine ultimo che la ragione da sola non ci consente. Si legge più avanti, sempre nel testo citato prima: «per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Lettera agli Ebrei, 11, 9-10); e ancora: «per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Lettera agli Ebrei, 11, 17-19).
Abramo si fida totalmente del suo Dio anteponendo l’etica della fede alla ragione, perfino contro il buon senso; la fede di Abramo dischiude le porte al senso etico di cui la fede stessa è fondamento. Tutto avviene per fede, sempre per fede. Per quella stessa fede caddero le mura di Gerico, per fede Raab si salvò dall’assedio israelita insieme alla sua famiglia.
«Per fede Mosè, appena nato, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello; e non ebbero paura dell’editto del re. Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa. Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re; rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile» (Lettera agli Ebrei, 11, 23-27).
Abramo, alla stessa stregua di Mosè, non cercava Dio, entrambi sono stati cercati, come per dire che la fede, più che una conquista, è un dono che si riceve, non è qualcosa che scaturisce da dentro di noi, piuttosto proviene dall’esterno, sopraggiunge, ci rapisce e ci coinvolge proponendosi come esperienza dell’esser cercati ancorché del cercare.
Lontano dall’essere semplicemente un atto umano, la fede si identifica piuttosto in una risposta da parte dell’uomo ad una forma di provocazione divina. La stessa cosa accadde a Saulo di Tarso che non ‘scelse’ ma venne ‘scelto’ sul cammino di Damasco, e così fu anche per i Dodici: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate il frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv. 15, 16).
Tutto sembra convergere nella medesima direzione, la fede si caratterizza come rapporto con l’Altro che è Dio, in una dimensione dialogica in cui è l’uomo che si propone e risponde a Dio dopo che questi si è rivelato. Non è possibile comprendere la fede senza il necessario riferimento alla rivelazione divina, è in seno alla rivelazione che la fede si costituisce come forma di conoscenza suprema, una grande opportunità per l’uomo e, aggiungerei, per Dio stesso.
Nel rapporto di fede, Dio è assolutamente affidabile; grazie a tale affidabilità si crea fra l’umano e il divino uno spazio garantito, una dimensione universale di conoscenza che è senza antitesi, non si pone in alternativa alla ragione, ma si basa sulla parola divina di cui è testimonianza attendibile.
Se una o più informazioni sono corrette perché siamo certi dell’affidabilità del soggetto da cui provengono, allora la disposizione al credere appare naturale e il credere stesso non è affatto irrazionale; se applichiamo la stessa regola alla fede nel trascendente, la ragione non è di ostacolo ma può venirci in aiuto. L’assenza di certezza sull’esistenza del trascendente, non impedisce alla ragione di intraprendere lo stesso il cammino di fede, nella convinzione che Dio esista veramente; questo, almeno, è il percorso del credente.
Per chi invece credente non è, l’uso della ragione può ugualmente condurre ad una forma di apertura verso la fede, sia pure in maniera distante, un curioso prendere in considerazione le sue strutture fondanti. La ragione non impedisce all’uomo di porsi delle domande sulla fede, valutando per esempio l’esistenza delle vie che conducono alla conoscenza di Dio.
Senza trascendere in divagazioni sulla biologia o sulle scienze naturali, la ragione può cercare di scoprire quanto ci sia, di quel Dio ipotetico, nell’osservazione e contemplazione del creato; questa è già una forma di relazione col trascendente in cui è possibile interrogarsi sull’ordine, la perfezione e la meraviglia di ciò che è immanente, sulle complesse dinamiche del suo divenire continuo e sulle fenomenologie del contingente.
Insomma una delle vie percorribili per conoscere Dio è l’analisi del creato con tutte le domande che ne conseguono, una fra tutte sul perché esista una siffatta realtà ordinata, immanente e perfetta. Vero è che non si può ugualmente raggiungere una certezza assoluta, ma rimane nobile l’esercizio della ragione che presta il fianco alla fede in un argomentare profondo su dottrine filosofico-metafisiche.
Nel primo capitolo del libro della Genesi è scritto che «in principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn. 1, 1). Non era possibile ignorare realtà più grandi dell’uomo come quelle della terra e del cielo, le acque, l’abisso e le tenebre; il creato, con la sua luce rassicurante ma anche con i lati oscuri e misteriosi, non poteva essere indifferente agli occhi del piccolo uomo; rappresentava per la civiltà umana la sua esperienza totale; quegli uomini, sprovvisti di tecnologia, non riuscivano ad immaginare niente oltre a ciò che vedevano, tutto quello che potevano osservare era il tutto immanente in senso assoluto ed era ‘pensato’ come un segno della presenza del divino, una proiezione della sua manifestazione terrena, un tutto dipendente da Dio.
L’uomo biblico dunque è un uomo che si fida, che progredisce nel cammino della storia con una concezione dell’universo che è differente da quella che, appena qualche secolo dopo, sarà propria del mondo greco.
È un po’ la stessa cosa che accade agli scienziati moderni (quelli credenti), quando immaginano che l’universo debba avere un suo creatore, quando guardano al creato come segno del divino, e partono dall’osservazione empirica e dallo studio della fenomenologia naturale per andare ‘oltre’, in un binomio di collaborazione fra ragione e fede che si snoda sulla via di Dio.
Ma in che modo si è evoluto il rapporto fra ragione e fede nella storia della civiltà dell’uomo? Le grandi domande dell’uomo sulla propria esistenza sono antichissime; già nei poemi omerici, nella tragedia greca, ma anche nei testi sacri mazdeisti e della cultura vedica e fino alla letteratura sacra ebraica, scopriamo una radicata tradizione sapienziale e religiosa che identifica il bisogno umano di porsi domande sul senso della vita sulla terra e di fornire adeguate risposte. Le vie della fede si sono intrecciate con quelle della ragione in un rapporto dialettico e troppo spesso conflittuale.
Tertulliano, nel De Praescriptione Haereticorum, si chiedeva «cosa hanno a che fare Atene e Gerusalemme», la Bibbia e la filosofia greca, il profeta e il saggio; in realtà Atene e Gerusalemme furono protagoniste di due differenti processi culturali, risultato di diverse dinamiche evolutive. Alla base di queste dinamiche c’è un modo diverso di concepire l’universo, una modalità che ha ripercussioni sulla narrazione biblica e sulla tradizione culturale greca.
Mentre per i greci il mondo è concepito come ‘cosmos’, cioè un sistema ordinato e strutturato secondo regole e leggi, nella cultura ebraica il mondo è ‘olam’, cioè qualcosa che ha che fare con il fluire del tempo, un fluire che non corrisponde tuttavia all’eternità ma ad un ‘tempo lontanissimo’; in questa concezione del mondo come ‘storia’, si inserisce l’idea di Dio che è il creatore e il compimento stesso del mondo, e la cui esistenza si colloca in un tempo infinito ed eterno, come dire che l’esistenza di Dio supera il tempo che Dio stesso ha assegnato al mondo.
Nel mondo greco invece, il concetto di divinità è legato allo spazio; il dio greco è un dio signore dello spazio. L’universo greco nasce e, nel suo divenire, si distrugge per rinascere ancora all’infinito. Il tempo, inoltre, è concepito come tempo ciclico, successione ritmica di fasi in cui la natura svolge il proprio divenire in una sequenza infinita. Mentre la filosofia greca si ispira ad un ideale di autosufficienza dell’uomo, gli ebrei, dal canto loro, avevano un’escatologia, una propensione verso le aspettative ultime dell’uomo.
Si dovette aspettare l’inizio del III secolo a.C., con le conquiste di Alessandro Magno, perché le due culture si incontrassero ed interagissero e i greci mostrassero interesse nei confronti della letteratura veterotestamentaria; risale infatti a quel periodo la versione della ‘Settanta’, stesura della Bibbia ebraica in lingua greca, alla corte di Tolomeo Filadelfo. È bello pensare a questo incontro, nel teatro della storia, fra le due culture, quella di Atene e quella di Gerusalemme che, sia pure fra le diatribe dottrinali, costituiranno il fondamento della civiltà moderna.
In contrapposizione all’ideale dell’eroe greco e al principio di autosufficienza dell’individuo, l’uomo biblico è proteso alla conoscenza del divino, in un rapporto dialogico di interdipendenza e reciproco riconoscimento; è proprio questo il senso della fede, un significato che consiste nel desiderio e nel bisogno di conoscere l’Altro e di svelarsi ad esso, bisogno condiviso sia dall’uomo che da Dio.
Ma la fede da sola non basta. La fede si riduce troppo spesso ad un ‘pensare di credere’, una forma di illusione, un credo svuotato della sua più intima essenza e della necessaria consapevolezza. Una fede così strutturata diventa presunzione e rischia di degenerare nella follia della devianza, in una deriva culturale che può avere effetti catastrofici; il profeta Isaia avvertiva: «guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti» (Is. 5,21), e d’altra parte Gesù stesso ammoniva i suoi dicendo «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt. 7, 21), e ancora «entrate per la porta stretta» (Mt. 7, 13), «quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt. 7, 14).
Tutto questo a sottolineare quanto bisogno abbia la fede di essere ‘consapevole’ e non semplicemente sbandierata e quanto pochi siano gli uomini che la possiedono. La vera fede è un fatto molto raro, poiché essa prevede da parte del credente una grande apertura verso il futuro dell’esistenza, uno sguardo che vada ‘oltre’ l’intimità della coscienza umana e che si inserisca a buon diritto nella storia stessa. Ecco perché la fede ha bisogno della ragione in una sinergia progettuale, un progetto di unità del sapere che caratterizzi il cammino intellettuale di ogni credente.
Se ammettiamo con Pascal una ragione capace di riconoscere l’esistenza di un’infinità di cose che la superano, allora comprendiamo che la fede non implica una rinuncia verso la ragione, piuttosto la fede può dare alla ragione un indirizzo, mentre la ragione dal canto suo può consolidare la fede trasformandola in presa di coscienza e consapevolezza.
Lo stesso sant’Agostino attribuisce un ruolo importante alla ragione nel cammino dell’uomo verso l’intuizione del divino: «nessuno certo crede alcunché se prima non ha pensato di doverlo credere», e aggiunge «quoniam fides si non cogitetur, nulla est», una fede che non sia pensata non è (De praedestinatione sanctorum 2, 5).
La fede da sola non è in grado di soddisfare il desiderio di conoscenza dell’uomo, essa infatti non è conoscenza in senso assoluto, non è certezza scientifica ed è caratterizzata dal dubbio e dal mistero; la fede non ha una logica, piuttosto ha la necessità di affidarsi per credere; ecco allora che la ragione può intervenire in un rapporto sinergico per fornire una base logica al discorso metafisico, un’apertura più responsabile verso il mistero del trascendente.
Da più di due millenni e mezzo, il logos si è affiancato al mito per far luce sulle questioni trascendentali, in una relazione dialettica che ha caratterizzato la storia della civiltà umana. Sappiamo che l’Illuminismo celebrò il trionfo della ragione a discapito della metafisica, ma il calcolo umano sulla capacità della ragione di governare positivamente le sorti dell’uomo si è dimostrato fallace, alla luce di quanto accadde nella storia successiva. Infatti, all’indomani della fine della Prima guerra mondiale e con l’inizio del secolo breve, come lo definisce Hobsbawm, la storia dovette inevitabilmente fare i calcoli col fallimento della ragione, e questo valse anche successivamente con la questione dell’Olocausto, le dittature del ventesimo secolo con la barbarie dei regimi politici totalitari; tutto ciò tolse alla ragione il primato conquistato con l’Illuminismo, ed ecco riproporsi allora l’aspirazione metafisica e il bisogno di un ritorno alla fede e alla speranza.
La civiltà cosiddetta ‘postmoderna’ (che corrisponde alla nostra contemporaneità), ha acquisito consapevolezza della fallacia della ragione e della sua crisi all’interno del sistema sociale; la certezza che l’uomo razionale potesse costruire la propria storia, è naufragata nella tempesta degli eventi nefandi del secolo appena trascorso.
La ragione da sola non è in grado di orientare l’uomo e di guidarlo nei meandri oscuri dell’esistenza. Se la ragione è necessaria per indagare, svelare e comprendere le dinamiche e le fenomenologie naturali del creato, la fede serve all’uomo per proiettarsi verso altri aspetti dell’esistenza, per trascendere la propria condizione di limitatezza ed anelare ad un pensare metafisico, ad una evoluzione del proprio pensiero in termini escatologici.
Se esaminiamo ragione e fede da una prospettiva di mutuo rispetto e di reciprocità, e diamo ad entrambe il valore di tensioni positive della psiche, nel loro rapporto di integrazione e sostegno, l’uomo può trovare una chiave di lettura più ordinata e completa della propria esistenza.
Alla fine, tornando all’analisi scritturale, se vogliamo semplificare un po’ le cose, il senso più profondo della fede sta nel trovare la risposta ad una semplice domanda, quasi ingenua: «E voi, chi dite che io sia?» (Mt. 16, 15).
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Antonio Bica, specializzato in Studi Orientali all’Università di Napoli “L’Orientale”; studioso di cultura e civiltà del Medio Oriente, ha svolto studi antropologici e linguistici nella Valle dell’Eufrate, Sud-est asiatico, Yemen, Nepal, Subcontinente Indiano, Etiopia e Corno d’Africa. Autore di reportages fotografici in zone di guerra, Libano, Siria, Alture del Golan, Valle di Quneitra. Si occupa di studi di fisiopatologia e aspetti medico-legali della morte di Gesù di Nazareth. Premio Speciale per la Cultura 2012 e 2015, Ordine dei Medici-Chirurghi della provincia di Trapani.
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