La città di Caserta, nonostante la presenza della famosa Reggia e delle innumerevoli caserme militari risalenti al Regno dei Borbone sembri dimostrare il contrario, è un agglomerato urbano che si è formato recentemente, dalla fine del secolo XIX a tutto il Novecento. Per questi motivi è facile ritenere che il filone politico-culturale conosciuto come “neoborbonismo” qui trovi qualche difficoltà a diffondersi, mentre in genere si pensa che esso trovi facile accoglienza tra la popolazione dei “lazzaroni” di Napoli che, tra l’altro, è una città a vocazione monarchica tanto che, nel secolo scorso, per qualche decennio è stata dominio di Achille Lauro, portabandiera di un partito monarchico, non si sa bene se pro i Savoia o pro gli antichi sovrani napoletani [1]. A Caserta, invece, l’idea che sotto i Borbone si stesse meglio circola, credo inconsapevolmente, anche presso i ceti intellettuali che ogni tanto si lasciano andare a giudizi ripresi dalle numerose pubblicazioni susseguite negli anni recenti dedicate alla revisione storiografica delle vicende italiane dell’ultimo quarantennio del diciannovesimo secolo e il fenomeno del brigantaggio post-unitario.
Il neoborbonismo appare all’osservatore come una specie di fiume carsico che ogni tanto affiora in superficie, mascherandosi magari da testimonianza di un passato storico che la cultura delle classi risorgimentali, nonostante abbia intitolato le vie cittadine ai vari Cavour Garibaldi e Mazzini, non è riuscita a rimuovere. Così a Caserta è facile percorrere strade intitolate a funzionari e militari del regime preunitario, o imbattersi in insegne di attività commerciali che ricordano la vecchia dinastia, come i ristoranti ‘A cammisa d’o rre [2], i Mulini Reali; oppure quelle dei bar intitolati al Re Nasone, o come i nomi di certi prodotti alimentari: il caffè Borbone, il formaggio Brigante; oppure trovare lo stemma del regno borbonico impresso sulle confezioni di alcuni prodotti locali.
Il neoborbonismo rispunta poi quando meno te l’aspetti, durante gli incontri con persone che apparentemente dovrebbero essere istruite e dotate di senso critico. Così mi è stato possibile sentire un dirigente di liceo contestare il vocabolario Zingarelli perché definisce l’aggettivo “borbonico” con “reazionario”, evitando di dire che la definizione è riportata come significato metaforico usato quando si parla di storia o di attualità politica. Oppure leggere, non credendo ai miei occhi, un articoletto in cui un’anziana e molto stimata insegnante di liceo dissertava su Garibaldi che, secondo lei, portava il berretto per nascondere la mancanza di un’orecchia, mozzatagli, come si usava in Sud America, perché ladro di cavalli [3]. Oppure assistere ad uno spettacolo di canzoni classiche napoletane, il cui contesto storico culturale permetteva di parlare di canti popolari e di briganti: nella recita il brigantaggio meridionale era visto come simbolo di libertà e di ribellione nei confronti degli “invasori” piemontesi. Frammenti di verità storica si mescolavano con contenuti qualunquistici e reazionari che, a parer mio, facevano strame della storia. Così una canzone moderna, quella di Eugenio Bennato Brigante se more, che interpreta (con qualche forzatura) il brigantaggio come una forma di lotta dei contadini contro i padroni agrari (Nun ce ne fotte d’u rre bBurbone – ma ‘a terra è ‘a nostra e nun s’à dda ttuccà), veniva usata, fraintendendola (o per cattiva interpretazione del testo o di proposito) come canto antirisorgimentale e si alternava con la Carmagnola, nata come inno dei sanculotti parigini e poi diventata canto reazionario dei sanfedisti napoletani; la frase con cui si chiude è: viva o’ rre!
La comunicazione e la propaganda neoborboniche
Queste manifestazioni più o meno palesi dimostrano che i neoborbonici sono piuttosto attivi nella pubblicistica e nell’editoria ed ora anche sul web. Per questo riescono a far circolare presso un pubblico vasto, ma disattento e pigro, le loro opinioni e le loro credenze. Facendo una breve ricerca su Internet è possibile avere un’idea della loro capacità di comunicare e della loro consistenza che, però, si manifesta, appunto, più come attivismo onnipresente che come massa numerica. Tra Napoli e Caserta esistono diversi gruppi che si richiamano all’esperienza storica del regno borbonico e che si sono formati a metà, circa, degli anni ‘90 del secolo scorso. Uno dei più attivi sembra essere il «Movimento Neoborbonico, associazione identitaria culturale», che fu fondato a Napoli nel settembre del 1993, su proposta, pare, di Riccardo Pazzaglia [4], che poi avrebbe composto anche il testo dell’inno neoborbonico su una musica di Paisiello. Il Movimento ha una rivista on-line, “Il Giornale delle Due Sicilie”, di cui si pubblica un numero all’anno e che riporta tutte le iniziative che il gruppo ha realizzato nell’arco di dodici mesi [5]. Il personaggio più importante del Movimento è Gennaro De Crescenzo, abile divulgatore di notizie ideologicamente indirizzate e soprattutto irriducibile polemista.
Il sito è austero, suddiviso in tante sezioni, compresa quella che riporta “i primati” borbonici, con la cronaca minuta e trionfale di tutte le cerimonie religiose e civili svolte nell’annata e corredata da foto illustrative. Sono presenti le sezioni con l’indicazione dell’organigramma, dei rappresentanti neoborbonici nelle varie regioni e province dell’Italia, nonché di quelli all’estero. Le manifestazioni più importanti sono quelle delle Messe (in rito cattolico antico, precedente il Concilio Vaticano II) in ricordo di Francesco II, le benedizioni delle bandiere e di altri simboli borbonici.
C’è poi un gruppo costituitosi in una cittadina contigua a Caserta, San Nicola La Strada, il cui sito sul web è raggiungibile al seguente indirizzo: www.comitatiduesicilie.it. Sito e associazione non si discostano da quelli del Movimento napoletano: stesso tipo di organizzazione, stesse cronache, stesse iniziative. La comunicazione più importante che vi si trova è un invito commerciale natalizio: Chi compra il panettone o il pandoro padano è un nemico dell’economia del Sud. Che fa da pendant a suggerimenti del tipo: A Natale regala Sud; oppure a considerazioni di tipo vittimistico: I panettoni dei supermercati sono tutti prodotti nel Nord Italia; Se rubano un albero di Natale a Napoli (era quello eretto nella Galleria Umberto), ne parlano in tutti i telegiornali, di quello rubato a Bologna nessuno parla. Anche i siti www.ilregnodelleduesicilie.eu e www.altaterradilavoro.it non fanno che ribadire i medesimi temi.
Ci sono, poi, dei siti fiancheggiatori che, pur avendo altri scopi, ripetono gli stessi argomenti; tra questi ci sono quello de Il Brigante, collegato al Movimento napoletano, e quello della Fondazione Il Giglio, che è anche una casa editrice di un libro agiografico sul principe di Canosa, illustre capo della polizia borbonica. Tutti questi siti non si sottraggono, forse per ottenere contributi finanziari necessari al mantenimento dell’organizzazione, a fare pubblicità a ditte e imprenditori meridionali che producono o commerciano “prodotti tipici del Sud”. Tra i simpatizzanti e forse anche sostenitori, compaiono due case editrici: quella di Vozza con sede a Casolla (prov. CE), di tendenze fasciste (il suo titolare era presente all’atto di costituzione dei Comitati di S. Nicola La Strada), e Nexus, che sorprendentemente ha sede a Padova.
Tutte queste attività hanno pure, sempre sul web, contestatori e avversari, altrettanto tenaci e vivaci nella polemica. Ne citerò solo due: uno è un gruppo di giornalisti che animano un blog di informazione regionale (www.sanniopress.it) che ogni tanto interviene, confutandone le interpretazioni, su quel tipo di storiografia promossa dai neoborbonici; per esempio: i neoborbonici affermano, facendo della notizia anche un importante strumento propagandistico, che a Pontelandolfo l’esercito dei Savoia uccise, per rappresaglia, molte centinaia di civili; gli altri si ostinano, con i registri parrocchiali alla mano, ad affermare che i morti furono soltanto tredici [6]. Un tono molto diverso è rintracciabile su www.novecento.org. A scrivere è Michele Marzana (La controstoria neoborbonica: il racconto di un altro Risorgimento) [7] che individua nelle interpretazioni neoborboniche il tentativo di screditare il movimento risorgimentale addossando ai Savoia, agli Inglesi e alla massoneria crimini vari, eccidi, persecuzioni e imbrogli pur di impadronirsi del Regno delle Due Sicilie
Le eccellenze borboniche e “i primati”.
La polemica contro l’unificazione italiana si basa sul presupposto che il Regno delle Due Sicilie era economicamente prospero, che la maggioranza della sua popolazione aveva un tenore di vita dignitoso e che il clima culturale era tale che nello Stato borbonico la scienza, la tecnica e l’arte potevano fiorire rigogliosamente; e che tutto ciò, ad unificazione avvenuta, fu umiliato e cancellato ad opera del nuovo regime. La rivendicazione degli antichi splendori si attua con l’elenco delle eccellenze borboniche, che è abbastanza lungo ma che comprende, oltre i “primati” cronologici, solo pochi esempi veramente importanti. Si comincia sempre con la ferrovia Napoli-Portici, la prima in Italia, costruita nel 1839 [8]; e poi: le officine meccaniche di Pietrarsa, l’industria siderurgica di Mongiana, a cui si aggiungono i grandi manufatti monumentali come la Reggia di Caserta, capolavoro del Vanvitelli, quelle di Capodimonte e di Largo di Palazzo (oggi Piazza Plebiscito) a Napoli, quella di Carditello e il complesso di San Leucio, che doveva essere il nucleo di una “città ideale”, ispirata a utopistici principi dell’Illuminismo.
Le eccellenze ci furono, ma dice lo storico Galasso: «esse non si cumularono mai fino al punto da determinare una svolta radicale nella struttura della città [di Napoli]» [9], né tanto meno di tutto il Regno. Così la ferrovia (di appena 7 km.) serviva per portare la famiglia reale nei luoghi di vacanza; le officine di Pietrarsa, un notevole centro tecnologicamente avanzato nella costruzione di locomotive, forniva macchinari ai Paesi stranieri ma non al proprio; San Leucio era il fiore all’occhiello e l’indice di una presunta sensibilità sociale e culturale, che alla fine si trasformò in una piccola industria della seta di gran pregio (oggi è solo un museo). In definitiva, le grandi opere, lasciateci dai Borbone, sono soltanto la testimonianza di un certo dispotismo illuminato che cercava di modernizzare lo Stato, ma senza avere un progetto totale, e che con le opere monumentali aveva lo scopo soprattutto di autocelebrarsi. Il fatto è che la dinastia Borbonica, nonostante avesse avuto diverse occasioni per rinnovarsi, era rimasta legata all’ancien régime, sia nelle strutture politiche e burocratiche, sia in quelle economiche e sociali [10].
Tra i primati che i neoborbonici rivendicano alla dinastia napoletana ce ne sono anche alcuni che forse sarebbe meglio tacere per evitare confronti con la realtà odierna. Come, per esempio, quando si dice che nel 1860 il Regno delle Due Sicilie era il primo Stato italiano per percentuale di orfanotrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza, si ammette che, al contrario di quello che si vuole far credere, la povertà era generalizzata e che ad essa si cercava di rimediare solo con soluzioni caritatevoli; a questo tipo di assistenzialismo appartiene l’Albergo dei Poveri a Napoli, considerato un’altra eccellenza dai neoborbonici.
Altro motivo di orgoglio è il fatto che nel 1860 il carico tributario erariale era il più basso di tutta l’Europa e che nello stesso anno la quantità maggiore di lire-oro (circa i 2/3) conservati nelle banche nazionali in Italia apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Questo è un dato storicamente vero, ma è altrettanto vero che se si pagavano meno tasse e se questo tesoro esisteva c’era un motivo preciso: non c’erano investimenti statali, né per costruire scuole, ospedali e strade e nemmeno per l’erezione di altri monumenti celebrativi. Raffaele De Cesare, giornalista pugliese, uomo politico di orientamento monarchico (forse filoborbonico) e liberale moderato, storico di grande rigore intellettuale [11], così scrive nella sua opera La fine di un regno [12], a proposito delle condizioni economiche e sociali della popolazione e della situazione generale:
«L’igiene si trascurava in modo che le condizioni della maggior parte dei comuni, ma singolarmente dei più piccoli, erano orribili addirittura. Non fogne, non corsi luridi, non cessi nelle case, scarso l’uso di acqua, dove c’era naturalmente; quasi nessun uso, dove non c’era. Poche le strade lastricate o acciottolate, pozzanghere e fanghiglia … Ma tutto ciò sembrava così naturale, che nessuno se ne maravigliava; e se, di tanto in tanto, si compiva qualche opera pubblica, era piuttosto un abbellimento o una superfluità» (De Cesare, 1900: 117).
E poi ancora, nella stessa pagina:
«… il principe, [queste] condizioni moralmente e socialmente miserrime, le vedeva, ma non le intendeva. Se non rivolse mai le sue cure alla capitale, non era sperabile che le rivolgesse alle Provincie. Certi bisogni erano superfluità per lui; gli bastava ordinare la costruzione di una nuova chiesa o convento, per credere di aver così appagato il voto delle popolazioni».
Un altro testimone delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali è Leopoldo Franchetti, uomo politico livornese, autore di un’inchiesta famosa al pari di quella di Jacini [13]. Il suo orizzonte politico è quello dei liberali moderati, con qualche caduta di non lieve conservatorismo e con qualche pregiudizio che ne inficia la forza delle argomentazioni; così scriveva:
«Ad eccezione di poche città, vi trovammo un popolo confinato in un paese selvaggio, racchiuso nei suoi luridi borghi e nei campi circostanti, senza strade per allontanarsene, ignorante e laborioso, diretto da preti poco più civili di lui e da signori, una parte dei quali ignoranti quanto lui, ma più corrotti; i buoni in galera o sorvegliati o cacciati, segregati tutti dal resto d’Italia e d’Europa da un sistema di proibizioni commerciali, di passaporti e di esclusioni di libri».
È una descrizione piuttosto dura, specialmente nella sua ultima parte dove si dice che i “buoni” o si trovano in galera, perché sospetti di eversione, oppure vivono in una condizione di libertà vigilata. Queste pagine, tuttavia, non si trovano nei siti neoborbonici, né negli scritti dei vari ideologi del movimento. Alle pagine degli storici e dei politici che hanno mosso critiche al governo dei Borbone, si preferiscono quelle di Giacinto De Sivo, il cantore ottocentesco del Regno delle Due Sicilie; discendente da una famiglia di militari sanfedisti e strenuo difensore dei Borbone e del papato, fu definito da Benedetto Croce “un reazionario” [14].
Se è vero che vi furono delle eccellenze, esse possono essere paragonate a certi fiori che nascono nei deserti. Perché, come dice Galasso, esse non furono un centro di irradiazione per uno sviluppo economico e sociale del regno; e poi anche l’agricoltura era arretrata, destinata ad una produzione di autoconsumo, giacché si basava sul latifondo caratterizzato dall’incuria dei proprietari, dall’impiego di sistemi arcaici, da mancanza di investimenti e da un bracciantato lasciato in condizioni miserabili, come leggiamo nei romanzi e nelle novelle del Verga. Non c’erano scuole pubbliche e quelle private non erano controllate dallo Stato; si è calcolato che il tasso di analfabetismo in tutto il regno arrivasse fino quasi al 90% della popolazione, dato che i sovrani borbonici avevano lasciato le masse cittadine e rurali nell’ignoranza e nella superstizione, convinti che l’istruzione, come pensavano anche il conte Monaldo Leopardi ed altri, le avrebbe rese disobbedienti e ribelli.
Anche le condizioni igieniche e quelle delle vie di comunicazione non erano migliori: l’abbiamo visto nelle poche righe riportate dagli scritti di De Cesare e Franchetti, ma molte sarebbero ancora le testimonianze che qui non si riportano perché facilmente reperibili altrove [15]. A leggerle nei testi di storia si ha un’altra visione di quelle vicende lontane; la situazione economica, sociale e culturale del regno, infatti, non era così idilliaca e serena come la propaganda neoborbonica vuol farci credere. Ma è tale la sua forza, o la debolezza di chi la recepisce, che anche chi disapprova il Movimento o lo contesta ripete meccanicamente, o per eccesso di campanilismo, la storiella delle eccellenze.
Il fatto che negli ultimi centocinquanta anni nel Sud non ci siano stati interventi tali da dare alle genti meridionali un qualche senso di appartenenza alla Nazione e allo Stato formatisi dopo il 1860 ha creato un malessere sociale e culturale su cui interviene con profitto la propaganda neoborbonica e quella di altre associazioni similari [16]. Spesso, anche le grandi opere, che avrebbero potuto dare un impulso alla crescita civile ed economica del Sud, si sono trasformate in industrie di clientelismo e di corruzione, oppure sono cadute nelle mani della criminalità organizzata; e questo non per colpa dei “piemontesi”, ma per demerito delle classi dirigenti meridionali. Tutto ciò non solo ha creato un clima di disillusione e di pessimismo qualunquistico, in cui facilmente germogliano, insieme con vaghe idee di rivincita, il vittimismo e il fatalismo, ma si è finito per dare la colpa ad altri, come succede quando non si vuole fare un serio esame di coscienza.
La situazione non era dissimile in molte altre contrade della Penisola: si pensi alla descrizione dello Stato Pontificio che si può ricavare dai versi di Giuseppe Gioachino Belli e alle condizioni di altre regioni illustrate dalla letteratura verista; ma intanto nel Lombardo-Veneto e nello stesso Regno di Sardegna si dava mano alle prime riforme e ai primi investimenti che avrebbero trasformato nel giro di qualche decennio le condizioni sociali e culturali della loro popolazione.
La dinastia napoletana dei Borbone
Ma chi sono stati, politicamente e umanamente, i regnanti di cui i neoborbonici hanno così forte nostalgia? Se esaminiamo le biografie dei Borbone che si sono succeduti nel Regno delle due Sicilie dagli inizi del 1700 fino al 1861, possiamo dire che solo Carlo III, che poi avrebbe optato per il regno di Spagna, è una figura di grande spessore e dotato di spirito riformatore, tanto che lo storico Giuseppe Galasso ha definito il suo regno «l’ora più bella nella storia del Napoletano» [17]. Beninteso, si tratta sempre di un monarca dell’epoca dell’assolutismo: le riforme per i sovrani di allora, che si definivano “re per grazia di Dio”, oltre che necessarie per l’ammodernamento dello Stato, erano soprattutto l’espressione del loro potere e della loro magnanimità, vera o presunta che fosse. Anche le opere monumentali come la varie Regge, il teatro San Carlo, e la stessa impresa utopistica di San Leucio [18], che noi oggi ammiriamo come beni culturali di grande importanza e come testimonianza di un certo dispotismo illuminato, furono erette a gloria imperitura dei sovrani e non certo come opere utili all’elevazione materiale e culturale dei sudditi.
I discendenti di Carlo, tuttavia, non furono della sua stessa tempra; il figlio Ferdinando I cercò di percorrere la strada paterna, ma, basta vedere il film (Ferdinando I) in cui è interpretato da Peppino De Filippo, per avere un’idea della sua personalità: plebeo, volgare, reazionario e vendicativo. Al suo governo si deve l’abolizione della Costituzione siciliana (1812) e la conseguente avversione dell’opinione pubblica dei Siciliani nei confronti dei Borbone, che si sarebbe manifestata materialmente durante l’impresa garibaldina. Il discendente Francesco I, continuando la politica reazionaria del padre, fu prono alla politica dell’Austria e, secondo quanto scrive Ghirelli, succubo di due servitori [19]. Più complessa la figura di Ferdinando II; eccone il ritratto delineato da Antonio Ghirelli:
«… intelligente ed astuto, onestissimo, virtuoso fino allo scrupolo, devoto fino alla superstizione, buon marito … rassomiglia ai suoi lazzaroni … per l’ignoranza abissale, l’indole menzognera e beffarda. Come loro tiene in sommo pregio la furberia, mentre diffida della cultura come di un pericolo per la sicurezza dello Stato, tanto da battezzare sprezzantemente “pennaiuolo” chiunque sappia leggere e scrivere» [20].
Fu autore di molte riforme, come quella fiscale; a lui si devono le officine di Pietrarsa, le prime ferrovie, le prime navi a vapore, i primi ponti sospesi e il riordino dell’esercito. Ma dopo i moti rivoluzionari del 1848, Ferdinando cambiò politica: niente riforme, anzi fu responsabile di repressioni poliziesche e militari (per il bombardamento di Messina si meritò l’attributo di “re bomba”), e di un lungo immobilismo politico. Un uomo, infine, e un regnante di grandi contraddizioni, come dimostra la temporanea partecipazione alla I guerra d’indipendenza e il suo immediato ritiro (1848). Pur se, come scrive Galasso, qualcosa si mosse a livello economico e sociale durante il suo regno, la sua rozzezza, la sua paura della cultura, il suo regime poliziesco e repressivo, la sua indole bigotta e antidemocratica lo fanno apparire come il personaggio più squallido di tutta la dinastia.
Il figlio Francesco II, salito al trono appena ventiduenne, fu incapace di capire gli avvenimenti che lo avrebbero portato alla sconfitta e all’esilio. Su di lui gli storici, quelli liberali (Galasso, Ghirelli, ecc.) e quelli neoborbonici (Di Fiore) [21], concordano pienamente: non aveva la stoffa per fare il re. Da qui il nomignolo che gli fu subito affibbiato: Franceschiello. Il padre lo chiamava Lasa, diminutivo di “lasagne”, pietanza di cui era ghiotto.
In conclusione: si può essere per tanti versi d’accordo con i neoborbonici quando esprimono giudizi negativi nei confronti della dinastia sabauda e nei confronti di come fu attuata l’unificazione italiana, ma, a conti fatti, credo che sia molto più difficile parlare bene dei Borbone. Si può essere affascinati da personalità dotate di forte carisma politico, anche se discutibili per altri versi, ma nessuno dei re Borbone napoletani fu dotato di tale virtù. Si può essere delusi e amareggiati per come si sono evolute le cose italiane dal 1860 in poi, ma non per questo si deve tornare indietro, idealizzando regimi in cui il connubio tra trono ed altare ha condizionato negativamente la storia europea per diversi secoli; e osannando i vari gruppi di briganti i cui capi non erano dei Che Guevara, ma poveri contadini affamati, analfabeti e disperati.
I Savoia e i loro governi furono certamente colpevoli di orrende repressioni [22], di confisca di beni demaniali e privati dei Borbone, di varie sconcezze vergognose, ma non dobbiamo dimenticare che essi erano i rappresentanti di un movimento economico borghese e capitalistico che avanzava impetuosamente in tutta l’Europa, sconvolgendo fin dal profondo la vecchia società agraria. Non per nulla Carlo Marx ebbe a dire che in quel periodo gli annali della storia furono scritti con lettere di fuoco e di sangue.
I vati e i profeti del neoborbonismo
«Attraverso ricerche in archivi e biblioteche, convegni, celebrazioni, pubblicazioni e seminari nelle.Scuole superiori e tra gli iscritti il Movimento Neoborbonico intende ristabilire la verità storica in particolare per il periodo relativo al risorgimento italiano. Per troppo tempo sui libri delle scuole elementari come delle università è stata raccontata una storia falsa e mistificata cancellando i nomi di chi, da Francesco II di Borbone all’ultimo dei briganti, ha creduto negli ideali di un’altra storia, stando dalla difficile parte dei vinti e non da quella assai conveniente dei vincitori».
Questo su riportato (compreso il paradosso degli ultimi due righi) è il programma di revisione storica del Risorgimento italiano che si può leggere nel sito www.neoborbonici.it. Ed è anche la premessa, con parole mutate, di qualsiasi intervento scritto e orale dei neoborbonici, che perentoriamente affermano che le notizie da loro riportate sulla fine del regno napoletano, sull’Unificazione d’Italia e sul fenomeno del brigantaggio, costituiscono la “verità”, che nessuno prima di loro ha mai raccontato.
Ed è questa la prima affermazione che può avere effetti solo su un pubblico poco attento e poco informato, perché esiste una vasta letteratura storiografica, autobiografica e letteraria relativa alle vicende che vanno dall’impresa garibaldina fino alla fine del XIX secolo. Ampia è anche la produzione di testi di storia e di sociologia che si sono occupati della “questione meridionale”. Fingere che tutti questi scritti non esistano fa dubitare dell’onestà intellettuale di chi afferma di essere cronologicamente il primo a parlare di quelle vicende [23]. I primi elementi, su cui si è sviluppata la revisione neoborbonica, si trovano già in opere di personalità che per il Sud si sono battuti. Francesco S. Nitti, per esempio, valutò che il sistema adottato dai Borbone fosse dovuto ad una mancanza di vedute, ad un rifiuto di guardare al futuro, un principio da lui giudicato gretto e quasi patriarcale, ma che, allo stesso tempo, garantiva una «grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora» (Scritti sulla questione meridionale, 1958: 118). Molte altre cose dello Stato borbonico Nitti ebbe modo di apprezzare in varie sue opere, dal sistema fiscale ai tentativi di industrializzazione; è sua l’affermazione che i due terzi di tutte le risorse finanziarie in Italia, nel 1861 appartenevano al regno delle Due Sicilie, ma è anche sua la constatazione che quelle risorse non furono mai spese per un ammodernamento dello Stato e in investimenti per migliorare le condizioni di vita dei sudditi.
Gli odierni revisionisti, dunque, non hanno fatto altro che portare alla luce ed ingigantire un certo malessere della popolazione meridionale causato da una politica delle classi dirigenti dimostratisi incapaci, o addirittura contrari, per interessi di casta, a prendere in mano seriamente la “questione meridionale” e trovare soluzioni adeguate. È probabile che la causa di questa attività revisionista sia nata in contrapposizione al fenomeno leghista [24]; la brutalità con cui si è manifestata l’attività di questo gruppo politico, il suo antimeridionalismo viscerale hanno certamente risvegliato quella sensazione di essere stati derubati e presi in giro che si è trasformata in una ideologia utile per quei gruppi ideologicamente collegati alla storia preunitaria. Ma il malessere non sarebbe stato sufficiente, ci sarebbe voluto qualcosa di più consistente. Ed ecco che le denunce di Pasquale Villari, Gaetano Salvemini, Nitti, Dorso, Gramsci e di tutti gli altri meridionalisti sono servite a dare contenuto e fiato a chi cercava un appiglio per farsi sentire. Come dire: dalla questione meridionale al neoborbonismo.
È difficile individuare chi è stato il primo a sollevare il problema a livello di opinione pubblica; certamente i libri di Pino Aprile sono stati tra gli inneschi che hanno fatto scoppiare la questione. Dopo essere stato per anni il difensore e il portavoce del pensiero monarchico in Italia ed aver a lungo esaltato i discendenti dei Savoia e di altre dinastie, dirigendo settimanali come Gente ed Oggi, Pino Aprile improvvisamente ha cominciato a rivedere le vicende che portarono all’Unità italiana con ottica contrapposta a quella ufficiale. Il che non sarebbe stato male se ciò avesse ridato vigore alla battaglia meridionalista; ma a quanto sembra egli è riuscito solo a stravolgere il senso politico del processo unitario e a sollevare un gran polverone.
Il suo modo di raccontare la storia è alquanto discutibile, basti l’incipit del suo libro Terroni [25] per dimostrarlo: «… i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto». E poi prosegue con una esposizione torrentizia, che non dà tregua e non permette di riflettere sui concetti espressi, accatastando notizie su notizie, commentandole con l’aiuto di sociologi, filosofi e psicologi in un turbinìo di argomentazioni in cui è impossibile orientarsi. I volumi citati sono decine e decine, accostati per le emozioni che possono suscitare e non per attuare una connessione logica tra le vicende storiche o per dar forza ai suoi ragionamenti. E tutto senza mai citare autori, titoli e numero di pagina nelle note bibliografiche, che darebbero al lettore la possibilità di verificare quanto ha letto. Il suo, in effetti, è un modo assai fantasioso e scorretto di fare storia. Il suo scopo sembra quello di scandalizzare il lettore, di lasciarlo tramortito dinanzi ai racconti e incapace di riflettere sui dati che gli ha fornito.
Molto più avvertita e accurata è l’indagine di Luigi Di Fiore, i cui volumi più importanti sono Briganti e L’ultimo re di Napoli [26]. Nella Introduzione della prima opera dichiara apertamente di essersi ispirato ai libri di Molfese [27] e di De Jaco [28]; addirittura afferma che l’opera di De Jaco è stata per lui come una “bussola”, come «un faro illuminante preso come guida anche al viaggio di questo libro». Nonostante queste premesse, i suoi due libri sono poco utili dal punto di vista storiografico; il primo ha anche avuto successo di pubblico perché scritto in forma agile, ma via via che va avanti nella narrazione Di Fiore dimentica le premesse e finisce per scrivere la biografia, anzi l’agiografia, dei capi del brigantaggio meridionale, la cui nascita attribuisce solo alla “invasione” piemontese, dimenticandosi di illustrare le misere condizioni di vita di quelle popolazioni, di cui l’antico brigantaggio endemico era manifestazione. In questo modo non aggiunge nulla a quel che già altri hanno detto sul brigantaggio, sulle sue cause e sull’incapacità delle classi dirigenti del Sud e del Nord di capirle. Preferisce ribattere sulle violenze che l’esercito italiano (continuamente da lui chiamato “piemontese”) inflisse sulle popolazioni contadine, tacendo o sottostimando quelle che i briganti e i gruppi di sbandati, spesso sostenuti dai Borbone e dalla Chiesa, esercitarono su civili e su militari inviati dal Governo.
L’esaltazione del brigantaggio, che Di Fiore e tutti gli altri neoborbonici manifestano, trova una sua spiegazione; la loro simpatia per i briganti nasce non tanto da sentimenti di solidarietà nei confronti di chi vive una vita di stenti, quasi ai confini della sopravvivenza, non da volontà diretta a liberare classi sociali dai bisogni materiali e a riscattarle da quella condizione di totale subalternità, ma dal fatto che nei momenti difficili per il loro potere e la loro dinastia, i Borbone hanno sempre chiamato, ottenendolo, l’aiuto delle bande di malviventi che circolavano nelle campagne; così fu al tempo della rivoluzione del ‘99 e del sanfedismo; così fu nel 1848. Il brigantaggio meridionale sopravviveva grazie alla tolleranza (comunque ripagata) che gli accordavano i regnanti. Quindi quella del brigantaggio è solo l’esaltazione di un potere che poggia su una religiosità superstiziosa e sull’ignoranza delle plebi. La stessa biografia di Francesco II non appare, così com’è raccontata, storicamente importante: è solo la patetica storia di un uomo incapace di capire gli avvenimenti e di reagire ad essi.
Un discorso a parte merita Nicola Zitara [29] che, partito da posizioni marxiste, se ne distaccò progressivamente perché si convinse che il proletariato del Nord e quello del Sud avevano interessi diversi e contrapposti e che né governi né partiti né sindacati potevano mediare e annullare tale divario. Per questo, secondo il suo parere, le vittorie politiche e sindacali ottenute al Nord non possono tradursi in benefici a favore del Sud, perché sono del tutto estranee al contesto meridionale. I dati da cui Zitara muove sono corretti, ma la sua mancanza di fiducia nella funzione di qualsiasi classe dirigente lo porta ad un isolamento politico e intellettuale così che alla fine viene inglobato nelle file del neoborbonismo.
La “voce” dei briganti
Nella densa introduzione di De Jaco che apre l’ampia antologia delle varie e contraddittorie testimonianze sul brigantaggio, si parla sì di una guerra contro un esercito sentito come invasore, ma nello stesso tempo la lotta dei contadini meridionali viene letta come «un durissimo scontro di classe» nel quadro del processo di unificazione del Paese. Uno scontro che i due contendenti non capirono e che segnò i caratteri di una Nazione unificata territorialmente ma divisa socialmente e culturalmente. L’annessione del Sud non poteva essere trattata come una conquista coloniale, come invece avvenne, né tanto meno i contadini, senza guida se non quella dei borbonici e della Chiesa, potevano contrastare e modificare le tendenze capitalistiche del movimento liberale e sabaudo che guidava le azioni politiche e militari del Risorgimento. Sarebbe stato, difatti, compito delle classi dirigenti meridionali indirizzare verso più corrette prospettive la protesta, perché la “invasione” dei Piemontesi era solo la punta dell’iceberg, dietro cui c’erano le forze liberali e capitalistiche che si muovevano, senza badare ai danni collaterali, alla conquista di mercati più ampi. Tra l’altro, classi dirigenti più avvertite avrebbero dovuto tener conto di quello che era avvenuto in Toscana qualche decennio prima. Nel 1799 la politica di orientamento giacobino e liberale aveva portato nel Granducato ad alienare i beni confiscati agli enti ecclesiastici: i privati che li avevano acquistati li dotarono di recinzioni, impedendo così alle genti campagnole di esercitare gli antichi diritti di legnatico, erbatico e di portarvi gli animali al pascolo. Erano le prime avvisaglie dell’ingresso del capitalismo nelle campagne: ci fu un’insurrezione popolare, guidata dal clero, che prese il nome di Viva Maria e che incendiò per qualche mese buona parte della Toscana [30].
Fu un’anticipazione, in scala ridotta, di quello che sarebbe avvenuto nei decenni successivi nell’Italia meridionale, ma nessuno ne tenne conto, perché il concetto di libertà conteneva anche l’idea che la libera iniziativa e il libero mercato non dovessero avere limiti. Non mancarono politici ed economisti e scrittori a denunciare i soprusi e le violenze del governo, ma vinse l’idea che solo la repressione e la forza dello Stato potevano aver ragione della protesta identificata con il complotto delle forze reazionarie. Così si scelse di usare la mano pesante dell’esercito, con la connivenza e la compartecipazione dei latifondisti, che per non perdere le terre si strinsero ai sabaudi, e dei progressisti meridionali, che sposarono il liberismo economico [31]. Per eliminare il divario esistente tra le varie regioni della penisola si scelse pertanto la centralizzazione (o la “piemontesizzazione”, come si diceva al Sud) con i prefetti. Perfino il Manzoni, cantore degli umili e avversario di signorotti e prepotenti, pensò che si potesse imporre la lingua toscana a tutti i cittadini della nuova Italia affidandone alle prefetture la diffusione.
Nelle prime pagine della sua opera De Jaco racconta un aneddoto capitatogli mentre visitava il castello di Lagopesole: un’anziana donna, da lui intervistata, confondendo mito e realtà, affermava che la casupola in cui abitava era la stessa dove era vissuto un brigante famoso; aggiungeva poi che il brigante e i suoi compagni erano stati degli eroi e che avevano sempre difeso i più deboli. Un uomo, che aveva sentito il dialogo, interviene: «Non li state a sentire; Crocco e Nico Nanco erano degli assassini. Qui ne parlano bene perché sono come loro: ignoranti, delinquenti comuni, ricattatori» [32]. Questo il commento di De Jaco: «… due opposte verità per un fatto solo, la lunga e disperata guerra dei briganti».
Ma non è la prima volta che di una vicenda, che ha lasciato segni profondi, esistano due memorie “divise”. Anche recentemente, sul finire della seconda guerra mondiale, sono avvenuti dei fatti tragici di cui si conservano due memorie contrapposte. La storia partigiana riconosce l’attentato di via Rasella come fatto d’armi di una guerra sanguinosa ed estrema, mentre altre voci dicono che non ci sarebbe stata la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine se i Gap non avessero messo la bomba che uccise una trentina di militari dell’esercito tedesco. E così anche per vicende simili, come quelle di S. Anna di Stazzema, di Cavriglia nell’Aretino e di altre località ancora, in cui episodi terribili sono raccontati in modo diverso e spesso contrario [33].
Recentemente, Caterina Di Pasquale [34] ha ripreso le fila di un dibattito che si svolge da circa venti anni, da quando finalmente si prese atto che gli episodi tragici della seconda guerra mondiale sono raccontati in modi contraddittori: da un lato una narrazione ufficiale riconosciuta dalle istituzioni, per la cui formazione concorrono cerimonie pubbliche, discorsi commemorativi, e dall’altro un racconto che si contrappone a quello egemone e di cui si fa portatrice una minoranza della popolazione [35].
Il processo di costruzione di una Nazione, scrive la Di Pasquale, riportando una riflessione di B. Anderson, «prevede una immaginata equivalenza e omogeneità tra una nazione, il suo popolo e la sua memoria» [36]; ma questa equivalenza non si forma se la vicenda è stata vissuta traumaticamente e in modo diretto da una comunità o da un gruppo di persone. L’episodio avrà una sua narrazione ufficiale, di cui si fa promotore il gruppo più forte, quello che ne è uscito vittorioso; e ne avrà anche altre che gruppi minoritari, che ne sono stati in qualche modo testimoni, continueranno a interpretarlo in modo diverso. La borghesia italiana dell’Ottocento, alleatasi con la dinastia sabauda e sfruttando anche forze non monarchiche ma convinte ad unificare in un unico Stato la nazione italiana, sconfisse militarmente e ideologicamente gli avversari e da vincitrice glorificò se stessa e condannò i perdenti ad una damnatio memoriae.
Scrive ancora Di Pasquale:
«… è lo Stato-nazione ad aver sancito un’alleanza moderna tra ideologie dominanti, apparati statali e istituzioni, soggetti collettivi capaci di creare comunità mnemoniche attraverso la selezione a posteriori di una storia e una genealogia utile a costruire un sentimento di appartenenza e di identificazione; una storia e una genealogia che vengono incorporate grazie a pratiche memoriali riconoscibili» [37].
Le narrazioni rimaste fuori dal racconto storico ufficiale delle vicende risorgimentali, tuttavia, non sono andate perdute: decine di protagonisti hanno lasciato le loro memorie scritte, altri hanno deposto le loro testimonianze nei tribunali, altri ancora hanno redatto verbali, ecc. Tutto questo materiale documentario, conservato negli archivi del Parlamento, è stato portato alla luce da Franco Moltese e poi utilizzato da storici e giornalisti, compresi quelli neoborbonici. Mentre, però, la storia mainstream continua ad essere raccontata ed annotata sui calendari ancora oggi, quella rievocata dalla donna di Lagopesole e quella scritta e depositata presso gli archivi sono prive di vitalità, si possono leggere solo come vicende ormai passate e solo se consultiamo i libri dove Molfese e altri le hanno trasferite.
Adesso i cosiddetti neoborbonici hanno ripreso a raccontare le vicende che portarono all’Unità d’Italia ricordandole all’opinione pubblica odierna. Ma la loro è la stessa storia della donna di Lagopesole e delle memorie conservate negli archivi? Forse è il caso di dubitare: perché quelli, la cui memoria è depositata negli archivi, avevano vissute quelle vicende; avevano lottato per sopravvivere, per difendere i valori in cui credevano; avevano subìto carcere e torture, avevano visto le loro case distrutte ed incendiate, e avevano visto morire molti di loro. I neoborbonici leggono, come tutti noi, quelle vicende e se ne appropriano, ma senza poterle introiettare. Le usano solo per polemizzare con un quadro politico deteriorato da una crisi profonda del sistema in cui viviamo, una crisi che investe sia l’economia e la finanza, sia i servizi sociali, sia l’istruzione e la cultura. Non avendo alternative culturali e politiche da contrapporvi, si rifugiano nostalgicamente in un tempo che fu, idealizzandolo e mitizzandolo, riproponendo come splendido futuro un passato che tutto può essere stato, tranne che un felice Eldorado.
Anche il partito della Lega Nord è figlio di questa crisi, ma rispetto al movimento neoborbonico esso si presenta avendo alle spalle buona parte dell’imprenditoria del Nord, che vuole liberarsi di tutte le pastoie legislative dello Stato, del controllo dei sindacati, di regioni ritenute, con una dose notevole di razzismo, un freno all’espansione dei mercati. Mentre i neoborbonici si cullano nella nostalgia e si lamentano che l’industria dolciaria Melegatti da anni saccheggia le ricette della pasticceria napoletana, la Lega ha saputo trovare nella paura e nell’egoismo di tanti settori della borghesia italiana i temi giusti per ricevere consenso politico ed elettorale.
Se c’è una ideologia “contrappresentistica” (per usare un termine di Assman) a quella che è stata ed è ancora egemone, pur se in crisi, essa è proprio quella leghista. È vero che i Neoborbonici riescono ad influenzare l’opinione pubblica meno accorta, ma non è con i fantasmi del passato che si costruisce una società nuova. Due anni fa Alessandro Portelli con un gruppo di studiosi ha proposto un Calendario civile [38], che ripercorre alcune date importanti della storia italiana, sia quelle che appartengono alla memoria ufficiale ed egemone, sia quelle proprie di memorie ritenute divisive; la realizzazione di una società democratica, infatti, può avvenire solo se c’è un’effettiva equiparazione ed una condivisione di tutte le memorie, quelle istituzionali e quelle divisive [39].
Scrive ancora Di Pasquale che è un luogo comune attribuire «allo Stato il monopolio esclusivo della memoria»; e che si possano interpretare «le memorie divis(iv)e come colpevoli rimozioni e abusi dello Stato, senza interrogarsi su quali sono i processi costituitivi del ricordo, dall’elaborazione di un avvenimento alla sua trasformazione in esperienza, quindi in passato» [40]. Wladimiro Settimelli nel 2006 curò uno “speciale” di Patria indipendente, quindicinale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, dedicato proprio al brigantaggio postunitario: alle molte fotografie riprodotte, in cui comparivano briganti vivi e briganti morti insieme con quelle dei militari che li combatterono, fece precedere una presentazione che si concludeva con le seguenti parole: