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Il nuovo Sapiens: riscrittura e transizioni

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Il tatto e la mano bionica

di Valeria Dell’Orzo

«Si apre un nuovo capitolo della scienza: senza ricorrere agli alambicchi di Faust abbiamo creato l’homunculus». Così Bulgakov. L’essere umano non è mai stato un gran trasformista, a differenza di altre specie del regno animale pronte a sviluppare profondi dimorfismi intraspecifici, la nostra lenta capacità di modificarci, per rispondere alle esigenze geoclimatiche o per allinearci a nuove abitudini, non è stata certo molto marcata. A farsi strada oggi, tra i fattori che possono determinare un cambiamento, sia questo avvertito nella struttura sociale di riferimento come una necessità o come un’opportunità, è la spinta propulsiva delle nuove tecnologie che mostra giorno per giorno il suo potenziale nell’innescare una riformulazione dell’essere umano, tra coloro che hanno accesso alle nuove appendici tecnologiche e che possono ambire a alterare le proprie attitudini personali grazie a degli innesti informatici.

Come sostiene il tecnologo Ray Kurzweil (2013), l’utilizzo di intelligenze artificiali può espandere l’intelligenza e le capacità umane e per farlo occorre puntare a una maggiore, una profonda, conoscenza della neocorteccia, per potere riprodurre, in modo sempre più fedele e accurato, lo spazio della memoria, della percezione, della formulazione delle idee; gli studi che prospetta il ricercatore sono indirizzati, come è chiaro, non solo alla mera implementazione delle nostre capacità mnemoniche e di gestione dei dati, ma a una ricreazione del pensiero etico e emotivo, alla base dell’umanità e dunque delle imprescindibili  relazioni sociali.

La contemporanea correlazione costante che lega ciascuno di noi a una lunga serie di dispositivi – oggetti inanimati ma profondamente vincolanti per ogni aspetto della vita sociale e personale, affettiva e lavorativa – ci appare evidente proprio mentre leggiamo questo articolo, da un monitor, magari dopo aver controllato le notifiche che fioccano sul nostro smartphone, o dopo aver concluso una transazione bancaria, aver fatto gli auguri di buon compleanno a un amico o aver pagato, grazie al promemoria di un programma informatico che si fa carico al posto nostro dell’incombenza del ricordare date e scadenze, qualche bolletta dal nostro divano, bypassando il momento della condivisione dello spazio sociale dell’attesa, l’incontro con l’operatore, la necessità di attuare uno spostamento fisico e avviare una comunicazione.

Stiamo sempre più cancellando i confini tra ciò che è umano e ciò che non lo è e assumiamo progressivamente una nuova struttura, se non meno umana come sostiene la filosofa Braidotti (2014) di certo più tecnologica, e capace di alterare i meccanismi comunicativi e percettivi che ancora ci definiscono. Ci muoviamo costantemente nello spazio della realtà aumentata che, come ha spiegato Antonio Marazzi (2012), è passata dall’essere uno strumento e uno dei tanti spazi della socialità a divenire la protagonista del nostro agire, così che i dispositivi tecnologici e le intelligenze artificiali che spesso vi risiedono sono i veri e propri interlocutori dell’essere umano, capaci di veicolare le nostre azioni assecondando di volta in volta la nostra pigrizia o la nostra ambizione. Il grado di interazione personale con la dimensione della realtà aumentata dipende dal proprio habitus di riferimento e dalla relativa disponibilità di mezzi e necessità d’uso (Marazzi 2012); da questo grado di relazione però dipende anche la nostra capacità di adattarci e adeguarci all’immagine di una nuova umanità transumana, rimanendo inclusi o esclusi, in quanto semplici Sapiens, dalla società che noi e i nostri strumenti abbiamo assunto come il nuovo modello vincente e che può esistere e funzionare solo attraverso l’uso delle estensioni tecnologiche.

1Quello che questi nuovi, e un po’ invadenti, mezzi ci offrono è la possibilità di modificare il nostro quotidiano e dunque anche quelle dotazioni personali e quelle attitudini socialmente condivise che contribuiscono a costruire noi stessi. Le abilità acquisite che ci hanno caratterizzato fino a ora non sembrano più adeguate a rispondere alle esigenze del mondo globale contemporaneo e così, attraverso l’utilizzo dei più recenti mezzi tecnologici, stiamo riformulando le nostre capacità – spiega lo storico Yuval Noah Harari (2017). Le nuove estensioni digitali dell’uomo rappresentano un nuovo veicolo di mutazioni, funzionali entro il nuovo spazio sociale costituito dall’infosfera globale di cui siamo parte (Floridi 2017) e al suo esterno, e indotte dall’habitus circostante e dalle specifiche condizioni di vita del mondo globalizzato contemporaneo, sono fattori di alterazione esterni di cui l’uomo stesso è fautore.

Il processo evolutivo che l’impiego invasivo di nuove tecnologie determina non è il risultato di una esterna necessità di cambiamento, né esclusivamente di scoperte funzionali in grado di garantirci una più facile sopravvivenza, siamo invece artefici della creazione di dispositivi e consuetudini d’uso, non più considerabili come accessorie ma fondanti del vivere attuale, frutto della cultura dell’accelerazione progressiva insita nel regime della globalizzazione e imposte sempre più come imprescindibili: nuove realtà fisiche e cognitive che innescano un processo di riscrittura delle nostre necessità e delle competenze specifiche dell’essere umano contemporaneo.

Come sostiene il filosofo Nick Bostrom (2018), direttore del Future of Humanity Institute presso l’Università di Oxford, il potenziamento umano, ovvero il tentativo o la realizzazione del superamento dei limiti della nostra specie attraverso la modificazione genetica o l’impianto e l’utilizzo di estensioni tecnologiche, si renderebbe effettivo se venisse strutturata una prassi di uso etico di tali mezzi, e un processo di educazione delle intelligenze artificiali, in modo da non doverne fare a meno, godendo dei benefici e delle grandi potenzialità che presentano. Ma sarebbe necessario impedire da una parte lo stravolgimento delle regole umane e sociali e dall’altra scongiurare un’eccessiva supremazia del non umano, elemento in cui il filosofo individua il rischio esistenziale cui andremmo incontro.

2Gli studi relativi al biohacking, all’editing genomico – ancora in fase di studio ma potenzialmente capace grazie al CRISPR, un frammento di DNA che inserendosi ne riformula la sequenza, di attuare mirate modifiche e riscritture genetiche (Meldolesi 2017) –, e le applicazioni che gli innesti informatici possono avere una volta divenuti parte costituente dell’io, mostrano quanto le possibili nuove condizioni si stabiliscano a loro volta come naturali necessità. Il corpo umano si presterebbe dunque, secondo le ricerche scientifiche della Silicon Valley o le prime applicazioni svedesi dell’uso socialmente diffuso di piccoli chip sottopelle – che nello spazio di un paio di chicchi di riso possono contenere chiavi di accesso a uffici e dimore private, biglietti dei mezzi pubblici, riferimenti bancari per pagamenti rapidi e molto altro – a diventare un terreno di innesti e di impianti, di riformulazioni programmate e programmabili che, sotto la spinta dell’utile miglioria volta a facilitare i processi fondamentali del vivere contemporaneo, lo approssimano sempre più all’immagine di una piattaforma informatica, passando non attraverso i risultati e i tempi dell’adattamento biologico ma attraverso quelli di una riformulazione autodiretta e preselettiva estremamente rapida e economicamente classista. Sotto questa luce è facile riconoscere nelle attuali sperimentazioni, sia pure di grande valore medico-scientifico, il rischio del riproporsi e del dilagare di teorie eugenetiche, fautrici e strumento propagandistico delle più deplorevoli politiche razziali.

Potenziare le attitudini della nostra specie attraverso l’ibridazione tecnologica comprometterà, come è ovvio, alcune delle capacità che abbiamo sviluppato e affinato per rispondere alle esigenze del nostro vivere pre-informatizzato, ma al tempo stesso potrebbe permetterci di svilupparne di nuove e più adatte a rispondere alle necessità della realtà umana e sociale contemporanea, di monitorare il nostro grado di salute e snellire le procedure degli accertamenti clinici, di selezionare i tratti che rendono impossibile il riproporsi di varie malattie, pur senza conoscere i risvolti negativi che una simile riformulazione potrebbe comportare, o semplicemente di evitarci lo stress di una fila e la frustrazione della propria manchevolezza in un’epoca che pretende ritmi sempre più serrati e risultati sempre più competitivi.

Il problema dell’uso e dell’ibridazione tecnologica che si prospetta, dunque, non risiede nella mutazione in sé, essendo questa parte integrante della storia di ogni specie. A essere socialmente rischiosa è la condizione di base che permette o limita l’accesso alle nuove tecnologie e sperimentazioni e che dunque marca una nuova e più profonda spaccatura all’interno del mondo globalizzato, tra coloro che possono accedere ai nuovi mezzi e possono determinare quali caratteri risulteranno essere vincenti nel sistema socio-produttivo, e tutti coloro che, privati dell’accesso a questi nuovi strumenti di evoluzione, risulteranno carenti rispetto ai nuovi parametri, scivolando in una ulteriore e ancor più netta condizione di subalternità.

3La separazione tra il mondo più ricco, che detiene il dominio dei mezzi informatici e scientifici, e quello invece vittima di una storica marginalizzazione, passerà attraverso un differente grado di accesso alle nuove tecnologie evolutive, scelte e detenute dall’élite economica mondiale che potrà così selezionare e impiantare dei tratti e delle competenze vincenti nel sistema-mondo globale, aumentando a dismisura il divario tra coloro che possono e coloro che non possono accedervi (Harari 2017). Su base economica, di disponibilità di strumenti e tecnologie di riscrittura delle nostre capacità, questo fenomeno, se dovesse diffondersi, non potrà che aumentare la distanza tra popoli accrescendo esponenzialmente il potere del Primo Mondo, capace di sviluppare nuove attitudini umane, a discapito di coloro che, estromessi dalla fruizione delle più recenti scoperte, risulteranno carenti delle nuove competenze e attitudini richieste dal mondo globale, giustificandone così un’ulteriore esclusione e subalternità.

L’innesto sempre più marcato tra l’essere umano e le tecnologie – siano queste estensioni esterne, impianti corporei o basi di trascrizione e archiviazione dei nostri dati mnemonici e percettivi – appare con evidenza come un selettivo sbarramento nella nostra specie, una selezione su base economica, che aumenta le disparità tra coloro che possono godere di condizioni di vita sicure e economicamente solide, accedendo così all’uso di mezzi volti alla riformulazione personale, determinando i tratti e i requisiti più utili per il nuovo tecnosapiens, a discapito di coloro che vincolati da meno agiate condizioni socioeconomiche risulteranno carenti rispetto ai nuovi diktat societari globali.

L’indagine svolta dal giornalista Mark O’Connell (2018), già nelle prime pagine descrive il transumanesimo come una sorta di ribellione alla natura umana, una reinterpretazione contemporanea di un desiderio con profonde radici storiche e mitologiche che possiamo facilmente rintracciare passando da Icaro al Superuomo di Nietzsche, il superamento della nostra fallibilità, che passerebbe oggi attraverso l’uso di nuove tecnologie. L’autore attraverso i suoi incontri con diversi referenti e promotori di questa crescente realtà, all’unanime pronti a escludere che questa possa esitare in una deriva sociale tanto palese, mostra proprio come la spinta economica del più rampante Primo Mondo sia così potente da attutire nelle coscienze i potenziali e facilmente immaginabili risultati di queste nuove tecnologie e dei loro specifici impieghi.

È evidente che le nuove scoperte, il ricorso a strumenti innovativi, a mezzi di indagine per esempio in campo medico siano, o almeno potrebbero essere, utili nella lotta a malattie e povertà, che la qualità della vita contemporanea, così frenetica per la costante spinta a fare prima, fare meglio, fare di più, possa essere alleggerita dall’uso di nuovi dispositivi, ma è pur vero che se la rapidità di un processore diventa il parametro di riferimento del fare umano, occorrerà allinearsi a quella velocità istantanea che non ci appartiene e che pregiudicherebbe altri aspetti del nostro modo di pensare e agire personale e in società.

4Occorre poi valutare un altro aspetto della digitalizzazione della vita umana e della sua crescente dipendenza dai dispositivi: i dati che vengono affidati a questi strumenti sono piccoli frammenti che descrivono e dispiegano la nostra vita; l’insieme di questi innumerevoli tasselli, che già passano attraverso piattaforme e strumenti tecnologici, contribuisce a tracciare di noi un profilo accuratissimo, che include le nostre competenze, ma anche le nostre ambizioni, i nostri gusti e interessi, le abitudini, la rete sociale e i gradi di interrelazione che vi sono all’interno, oltre a tutte quelle informazioni che sono transita dalla sfera della nostra memoria a quella delle nostre appendici digitali (Harari 2018).

Questa infinita raccolta di dati, e la simultanea costante interrelazione tra noi e la realtà digitale, permettono a chi ne ha accesso di avere in mano una fruttuosa risorsa e di potere veicolare informazioni e volontà dei singoli che compongono la società, di potere distrarre il pensiero di massa attraverso accurate disinformazioni, accurate fino alla specifica identità umana, tradotta attraverso i dati e gestita per mezzo di specifici contenuti che le intelligenze artificiali selezionano per ciascuno di noi. L’estremizzazione di questa prassi già diffusa potrebbe far sì che la nostra partecipazione all’andamento del mondo si assottigli sempre più, appiattendosi sul piano dell’assuefazione, lasciando nelle mani di chi detiene il possesso e la gestione di questi dati la decisione su quale debba essere l’orientamento delle masse, gli standard da promuovere, i nuovi valori e disvalori (Harari 2018).

Senza dover necessariamente giungere alle più pessimistiche visioni di una realtà postumana fatta da uomini tradotti in una moltitudine di informazioni, implementati e tecnologicamente modificati, o di macchine che si sostituiranno all’essere umano, occorre però prestare attenzione a quelle derive sociali che occhieggiano già tra metallici riflessi: alterazioni della popolazione su base programmatica, gestione delle masse attraverso il controllo dell’insieme dei dati tracciabili, riformulazione delle capacità umane, personali e relazionali, sono alcuni degli elementi che prospettano un aumento delle disparità tra le élite economiche del mondo e i Paesi meno ricchi.

Il profilarsi di una nuova razza umana, un Tecnosapiens implementato, determinata dagli strumenti utilizzati e disponibili, marcata dalla distinzione tra chi potrà adattare se stesso alle nuove esigenze economiche e produttive e chi non potrà permetterselo, creerà di fatto una società, di nuovi competenti e nuovi carenti ai quali la possibilità competitiva risulterebbe ancora una volta e con maggior forza negata, di fatto, a priori.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
N. Bostrom, Superintelligenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.
R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma, 2014.
M. Bulgakov, Cuore di cane, Newton Compton, Roma, 2013: 75.
L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina Raffaello, Milano, 2017.
Y.N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano, 2017.
Y.N. Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano, 2018
R. Kurzweil, Come creare una mente. I segreti del pensiero umano, Apogeo, Milano, 2013.
A. Marazzi, Uomini, cyborg e robot umanoidi. Antropologia dell’uomo artificiale, Carocci, Roma, 2012.
A. Meldolesi, E l’uomo creò l’uomo. CRISPR e la rivoluzione dell’editing genomico, Bollati Boringhieri, Torino, 2017.
M. O’Connell, Essere una macchina. Un viaggio attraverso cyborg, utopisti, hacker e futurologi per risolvere il modesto problema della morte, Adelphi, Milano, 2018.
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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