di Massimo Jevolella
Una recente intervista a Edith Bruck 1 ha richiamato alla mia mente la figura luminosa di Etty Hillesum, la giovane intellettuale ebrea di Amsterdam finita in cenere ad Auschwitz nel novembre del 1943. Anche Edith – che ora ha 93 anni – conobbe l’inferno di Auschwitz: vi transitò per un breve periodo nella primavera del ‘44, pochi mesi dopo la morte di Etty. Ma il destino, per lei, decretò la sopravvivenza dopo altre terribili prove: volle che diventasse infine una testimone della Shoah, come lo sono ancora in Italia i suoi quasi coetanei Sami Modiano e Liliana Segre.
A suscitare la mia riflessione, e l’immediato paragone con il pensiero di Etty Hillesum, è stata la parte finale dell’intervista, che riproduco qui per intero:
Lei da oltre 60 anni incontra i ragazzi e le ragazze: molti di loro, non tutti violenti, sconvolti dalle tante vittime civili, scendono in piazza per manifestare per la Palestina.
«Non sanno esattamente cosa gridano con i loro slogan. E nessuno li aiuta. Il clima, lo spirito del tempo, è quello di Bologna col sindaco che espone la bandiera palestinese insieme con quella italiana».
Lepore non avrebbe dovuto?
«Se vuole la pace perché non espone anche quella israeliana? Sono decisioni che alimentano un clima divisivo in un momento, lo ripeto, nel quale l’antisemitismo è tornato a dilagare fortissimo in tutta Europa».
Continuerà a parlare agli studenti?
«Certo che continuerò. I ragazzi vogliono ancora ascoltarmi e io voglio ancora dire loro che non provo odio. Non ho mai odiato, nemmeno quando nei campi mi sputavano addosso. Io ero nuda ma non avevo vergogna, provavo pena per loro».
Parole semplici, chiare, che vanno dritte come frecce acuminate a colpire il centro della questione forse più cruciale del nostro presente: quale sia l’essenza del vero pacifismo. Perché Edith Bruck lo dice in modo inequivocabile: non c’è vero amore per la pace se nel cuore l’odio continua a ribollire. Come dice il proverbio arabo: «Non è autentica la parola pronunciata dalla lingua e smentita dal cuoreلاتصح كلمة نطق بها لسان و جحدها قلب».
Beninteso, può esserci una giusta lotta di resistenza armata contro chi ci aggredisce e ci vuole togliere la libertà, come oggi è il caso nella guerra che gli ucraini sono costretti a combattere contro i russi. Ma questo non riguarda, nella sua essenza, l’amore per la pace. L’ucraino può combattere il russo odiandolo, ma anche senza odiarlo, esattamente come Edith Bruck che non riusciva a odiare nemmeno i suoi aguzzini nazisti. Provava pena per loro!
E questo è quello che io definirei il pacifismo del cuore, che in determinate circostanze storiche può anche convivere con la dolorosa necessità della guerra. Omnia munda mundis, tutto è puro per i puri, come scrive Paolo nella Lettera a Tito. Ed è questo il senso del pacifismo vero, che certamente è il più difficile, ed è sempre interiore e spirituale, e non è quello di coloro che, intrappolati nella rete ingannevole dell’esteriorità, credono di volere la pace solo dichiarandosi pacifisti, ossia rifiutando per astratto principio, sempre e comunque, le armi e la guerra, o accanendosi nella condanna dei crimini commessi da un nemico.
Ed ecco che allora la mente corre all’insegnamento altissimo di Etty Hillesum, uccisa in una camera a gas. Che nella sua essenza coincide con l’insegnamento di Gesù di Nazareth ucciso su una croce. Perché la fonte principale del pensiero di Etty, nella sua vertiginosa semplicità, non è altro che il Vangelo di Matteo, come subito vedremo 2.
In parole semplici
Anno 1943. Ad Amsterdam una giovane donna ebrea vede l’umanità precipitare nell’abisso. Si chiama Etty Hillesum e ha 29 anni 3. Non si fa illusioni, non si tira indietro, non tenta di fuggire in alcun modo dalla realtà. Ama la vita che è dono di Dio e vuole vivere fino in fondo l’esperienza della vita. Non ha paura. Non si nasconde e non tenta di fuggire. Nel pieno della catastrofe trova la forza di sorridere, di cantare, di trascurare felicemente se stessa per offrire agli altri, più deboli di lei, il conforto della sua amorevole assistenza. In lei c’è solo amore. Non maledice nulla e nessuno. Non si veste di nessuna ideologia, e men che meno di quella pacifista. Non inveisce mai, infatti, contro la guerra, perché sa bene che ogni giorno migliaia di giovani perdono la loro vita sui campi di battaglia per liberare il mondo dall’orrore nazista. Anzi, a dire il vero, Etty non sfiora mai nemmeno quell’argomento, perché è fin troppo evidente per lei che quei giovani combattono una guerra fatalmente nobile e giusta 4. I pensieri di Etty volano ben oltre quest’ovvio piano della realtà.
E dunque scrive. E li riversa, quei pensieri, nel suo diario e nelle lettere che per miracolo si salveranno dal gorgo oscuro della guerra e della Shoah. Etty ha capito che gli esseri umani precipitano nel dolore a causa della loro vanità, e della falsità, e della confusione delle loro vuote e tronfie parole. E quanto male possono fare le parole! Fumo, confusione, fumo. Etty scrive: «Io detesto gli accumuli di parole. In fondo, ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che veramente contano nella vita. Se mai scriverò, mi piacerebbe dipingere poche parole su uno sfondo muto».
Etty è ebrea, ma il suo Dio è il Dio di Abramo che abbraccia l’umanità intera. Non è il Dio “cristiano”, o “musulmano”, o “giudeo”. Abramo è il “credente puro”, straordinariamente simile al ḥanîf della tradizione coranica. Dio non è altri che il Padre, nelle cui braccia si realizza il perfetto abbandono delle creature sue figlie; e da quell’abbraccio si genera il coraggio, che permette ai figli di affrontare con gioia ogni prova della vita.
Etty confessa: «In me c’è una felicità così perfetta e piena, mio Dio così protetta e sicura e impregnata di eternità». Il 7 settembre del ‘43, sul treno che la porta dal lager di Westerbork a quello di Auschwitz, dove morirà due mesi dopo, Etty ha la forza di scrivere su un bigliettino: «Abbiamo lasciato il campo cantando». Perché in lei non c’è odio e non c’è paura. La consapevolezza del Male è così profonda, o così alta, da superare e annullare questi sentimenti. Lei sa bene che il male non è fuori di noi, ma dentro di noi. Il male è la trave nel nostro occhio.
Etty si appella in continuazione al Vangelo di Matteo (e c’è chi per questo ha voluto dichiararla cristiana, senza dunque aver capito nulla di lei). Ha meditato a fondo le parole di Gesù, i gigli del campo, gli uccelli del cielo, il valore della misericordia, la falsità di ogni condanna, l’ipocrisia dei farisei, cioè di coloro che sostituiscono l’idolatria della Legge all’amore di Dio e del prossimo. E scrive: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, e non vedo nessun’altra soluzione che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi». Ed ecco allora le parole cruciali: «È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove. Abbiamo ancora così tanto da fare in noi stessi, che non dovremmo neppure arrivare al punto di odiare i nostri cosiddetti nemici. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale».
Con quest’ultima frase Etty Hillesum lancia il suo insegnamento verso ogni epoca futura, verso ogni catastrofe della storia e dello spirito. Dal profondo orrore di quell’autunno di morte del 1943, pochi giorni prima di varcare i cancelli di Auschwitz, Etty si chiede, e chiede anche a noi: «Ma non esistono forse altre realtà, oltre a quella che si trova sui giornali e nei discorsi vuoti e infiammati di uomini intimoriti?».
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Pubblicata su “la Repubblica” del 18 novembre 2024.
[2] Le citazioni che seguono sono tutte attinte dal Diario e dalle Lettere di Etty Hillesum pubblicati da Adelphi, Milano, rispettivamente nel 1985 e nel 1990.
[3] Il 12 giugno di quell’anno Anna Frank ne avrebbe compiuti 14.
[4] È giusto dire che Etty non esplicita mai queste ragioni. Ma è facile immaginare che non potessero essere altro che queste, dal momento che lei vive la sua esperienza mistica non nel distacco e nell’indifferenza, ma nella consapevolezza e nell’adesione piena alla realtà storica e umana del suo tempo.
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Massimo Jevolella. si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Inizia lo studio dell’ebraico biblico con il Rabbino capo di Milano Giuseppe Laras. Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).
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