di Rossano Pazzagli
Il paesaggio come lente per riflettere sui problemi del nostro tempo. Nella sua XIII edizione (24-28 agosto 2021), la Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni” ha assunto il paesaggio come specchio della marginalizzazione e come possibilità di lettura del patrimonio territoriale e della rigenerazione delle aree interne. Interne, esterne, deboli, fragili, remote, periferiche, marginali, dimenticate: è la grande periferia dello sviluppo, ma anche un territorio vasto da cui ripartire.
La Scuola di Paesaggio intitolata a Emilio Sereni, importante storico del paesaggio agrario italiano, è una delle più consolidate esperienze formative sui temi paesaggistici e si propone quale sede di elaborazione di linee strategiche per il governo del territorio e la pianificazione paesaggistica. Allestita nella sede dell’Istituto Cervi, dove è conservato anche il patrimonio librario e archivistico di Sereni, essa costituisce una feconda occasione d’incontro fra università, scuola e governo del territorio. Con una impostazione pluridisciplinare, la Scuola è rivolta a coloro che sono impegnati nei diversi campi dell’istruzione e della formazione, della ricerca, dell’amministrazione pubblica, delle professioni, dei musei e dell’associazionismo culturale e ambientale.
Già lo stesso Emilio Sereni nella Storia del paesaggio agrario italiano (1961) – il cui sessantesimo compleanno è stato al centro dell’intervento della figlia Anna Sereni – notava come qualcosa di preoccupante cominciasse ad avvenire nelle campagne italiane: parlava di un «preludio alla disgregazione del paesaggio agrario» collegata alla diminuzione della superficie coltivata, del pascolo e delle pratiche boschive, allo spopolamento di interi villaggi e all’abbandono dei poderi in ogni provincia italiana «specie nella montagna e nell’alta collina». Nel corso degli anni ’50 del ‘900, in effetti, il processo di marginalizzazione delle aree rurali subiva un’accelerazione che proseguirà nei decenni successivi con il delinearsi di un’Italia interna sempre più periferica.
Le aree interne non sono soltanto un’espressione geografica, ma una condizione esistenziale dei luoghi, di quelli che hanno conosciuto l’abbandono e la marginalizzazione, ampia parte di un Paese costituito all’80 per cento da montagne e colline. Nelle lezioni e nei laboratori, come nelle molte iniziative collaterali, sono state poste al centro dell’attenzione aree montane e di pianura, costiere addirittura. In primo luogo, l’Italia alpina e appenninica che sorregge il Paese come una spina dorsale, come un punto interrogativo rovesciato che ci interroga sul suo futuro, ma abbiamo visto anche territori piatti, il paesaggio a perdita d’occhio della pianura artificiale, realtà un tempo produttive e ricche di vita che sono diventate anch’esse quasi-deserti umani costretti a convivere con lo spopolamento.
L’Italia è piena e vuota: anzi un accostamento squilibrato di troppo-pieni e troppo-vuoti. Il punto diventa allora riattivare le relazioni e la comunicazione affinché, come in un sistema di vasi comunicanti, si riequilibri il Paese. Contrastare lo spopolamento e riequilibrare il Paese, correggere lo sviluppo squilibrato che ha concentrato attività e popolazione nelle polpe, dimenticando l’osso, con processi di urbanizzazione e di litoralizzazione che hanno prodotto un effetto polarizzante o un effetto ciambella (come ha sottolineato Benedetto Meloni) dimenticando lo storico policentrismo delle regioni italiane. Per farlo bisogna invertire lo sguardo, ma anche la rotta. Però si naviga ancora in un mare incerto e il futuro ci appare indecifrabile.
La storia del ‘900, in particolare dell’Italia del boom economico, ci dice che nella parte più estesa del territorio abbiamo finito per creare una vasta periferia rurale, lontana dagli occhi e dal progresso. Questa Italia, ingiustamente definita “minore”, contiene risorse diffuse, valori, ricchezze e bellezze utili non solo ai pochi abitanti rimasti, ma all’intera società. Qui si è accumulato nel tempo un patrimonio diffuso fatto di prodotti, ecosistemi, paesaggi, valori culturali, salute e virtù civiche che sono utili per rispondere alla crisi del presente. La pandemia ha reso più evidenti gli squilibri e le contraddizioni, più impellente la necessità di un riequilibrio, accelerando processi già in atto: rigenerazione, ritorno, rinascita e rilancio dei paesi e delle campagne sono diventate parole chiave, tracce di intervento, suggerimenti per la politica.
La lettura del paesaggio ci può aiutare. I territori vanno conosciuti se si vuole intervenire, ha giustamente osservato Emiro Endrighi. Il paesaggio non è solo ciò che si vede, è un insieme di relazioni e funzioni, l’esito di processi coevolutivi tra uomo e natura. È necessario rimettere in funzione il paesaggio (Anna Marson), i paesaggi scartati da rimettere in gioco (Carmelo Nigrelli), possibilmente evitando di imporre alla nostra vasta campagna funzioni improprie e invasive, come i «latifondi di pannelli fotovoltaici».
Interrogandoci sul passato, sul presente e sul futuro, come ci ha invitato a fare Michele Ercolini secondo lo schema: quel che si è perso, quello che si sta perdendo, quello che potrebbe accadere. In questa prospettiva sta, sul piano metodologico, tutto il bisogno di multidisciplinarietà del nostro agire.
La prossimità e la comunità sono emersi come gli ambiti sociali e tematici in cui coltivare l’antifragilità (Giampiero Lupatelli) o esaminare le geografie negative di cui ha parlato Antonella Tarpino nell’orizzonte del ritorno, un orizzonte ancora incerto, fatto di casi, di poche stelle nella cupezza delle nuvole. Una sorta di elogio del margine che torna centrale nello sguardo: il centro in periferia ha ribadito Pietro Clemente rilanciando il titolo di questa rubrica. I piedi nel paese e la mente del mondo – aggiungo – per connettere locale e globale senza necessariamente generare un’antitesi tra questi due termini.
È stato affrontato poi il grande tema delle politiche: la Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI) di cui ha trattato Sabrina Lucatelli, i piccoli comuni, l’agricoltura contadina…. Si tratta di leggi, per ora essenzialmente solo di leggi, o di progetti, non ancora di pratiche stabili in grado di invertire la rotta.
In questa Scuola, come in tante altre iniziative, ci imbattiamo sempre nell’interrogativo su come e quanto gli esiti del lavoro scientifico e culturale siano in grado di approdare nella sfera dei decisori e delle scelte, impattando sulle politiche pubbliche, e la risposta ci appare sempre scoraggiante. Ma non demordiamo. In questa edizione abbiamo cercato di orientare le attività dei laboratori alla elaborazione di linee di indirizzo e/o obiettivi per le politiche del paesaggio e delle aree interne. Ciascun gruppo ha prodotto un documento che possiamo sintetizzare indicando i seguenti temi e problemi:
1) filiere agricole e paesaggio (Luciano Sassi e Sandra Di Ferdinando)
2) I paesi (Stefano Rinaldi e Valentina Iacoponi)
3) Accessibilità e mobilità città-campagna (Chiara Visentin e Antonio Canovi)
4) Le piccole scuole (Mario Calidoni e Fabrizio Frignani).
Questi punti, come del resto i testi e i materiali delle lezioni, saranno adeguatamente ripresi e sviluppati nel volume degli Atti della Scuola, che, come è ormai consuetudine, sarà presentato nell’edizione successiva. È emerso, in generale, come il patrimonio territoriale delle aree interne, in particolare le risorse ambientali e culturali, siano basilari per andare verso il rilancio delle zone fragili impostando coerenti strategie di rinascita territoriale. La ruralità, le attività forestali, artigianali e pastorali.
L’agricoltura è l’avanguardia di un mondo produttivo diverso, come ci ha ricordato Piero Bevilacqua; c’è anche il turismo, a cui è stata dedicata una precedente edizione della Scuola “Emilio Sereni”. Ma è sempre necessario domandarsi: quale agricoltura? e quale turismo? Spostare l’ottica dall’agricoltura dei capitali all’agricoltura del lavoro, dall’agricoltura industriale all’agricoltura contadina, capace di seguire e alimentare filiere che curano i territori anziché saccheggiarli. E per fare questo appare necessario orientare il lavoro culturale e educativo anche verso i consumatori, rimettendo insieme valore ambientale (cambiamenti climatici, manutenzione del suolo…), lavoro e salute.
Per le campagne italiane, e in particolare per le aree interne, Il turismo può rappresentare una delle leve per le strategie di rinascita territoriale, sempre più impellenti in un Paese afflitto da forti squilibri tra aree centrali e zone periferiche. Ma bisogna fare attenzione a non riprodurre passivamente modelli già usati. Le aree interne e rurali non sono fatte per il turismo di massa, che purtroppo ha impatti rilevanti sul piano ambientale e può incoraggiare spinte speculative o alimentare fenomeni di colonizzazione culturale. Forse la vera prospettiva turistica delle aree interne sta nel non-turismo, come comincia ad essere definito il flusso meno concentrato, basato sulla differenziazione e la personalizzazione, segnato dalla riscoperta del territorio, da nuove tipologie di turisti e dal coinvolgimento delle comunità locali, dei vecchi e nuovi abitanti, finalizzato all’integrazione settoriale, all’allungamento della stagione, ad un mercato del lavoro meno precario e all’accoglienza del turista in un ambiente di qualità. Insomma, il turismo come conseguenza, non come obiettivo primario, che scaturisca da politiche che mettano al primo posto la qualità della vita degli abitanti.
Partendo dall’analisi e dalla pianificazione del paesaggio, si è giunti quindi ad individuare alcuni obiettivi salienti, condizioni per effettive strategie di rivitalizzazione delle aree interne italiane, che possono essere così riassunti:
- Diritto all’abitare e dunque all’attivazione di processi di governance che incentivino la restanza e il ripopolamento delle aree interne attraverso politiche pubbliche che garantiscano una rete capillare di servizi primari e che coinvolgano gli abitanti per mezzo di processi politico-decisionali partecipativi;
- Organizzazione dei servizi locali in base alle specifiche esigenze, favorendo inoltre politiche fiscali differenziate e/o compensative;
- Far emergere una coscienza di luogo, ossia la conoscenza e la consapevolezza dell’esistenza del patrimonio paesaggistico, storico-urbanistico, materiale-immateriale delle aree interne che sproni quindi gli stessi abitanti a prendersi cura del territorio.-
È evidente che il tema fondamentale resta quello dei servizi. Nessuno resterà o tornerà, nessuno riabiterà se nei paesi continuerà a mancare un asilo, una scuola, un presidio sanitario, una farmacia, un centro di assistenza, una strada decente o un pullman per arrivarci. Per muovere questo quadro statico e ancora decadente è necessario curare il problema degli assetti istituzionali, coniugando autonomie e politiche di area (autonomi e insieme), portando più a fondo le metodologie seguite dalla Snai e puntando nelle diverse latitudini del Paese all’integrazione tra costa e entroterra, tra aree interne e città. Occorre capire, insomma, che le aree interne non sono un perimetro e che è necessario seguire logiche non polarizzanti, distrettuali, pensare alle bioregioni, ai bacini di approvvigionamento, come li ha chiamati Franco Cambi.
Oggi, nell’orizzonte della crisi che attanaglia il nostro tempo, la ricostruzione di relazioni economiche, sociali e culturali tra le zone costiere e quelle interne deve costituire obiettivo strategico per sperimentare altri modelli di sviluppo e stili di vita, per ricreare sistemi territoriali locali. Per sviluppare relazioni e per farle funzionare, diventa fondamentale il tema (diritto) della mobilità e dei collegamenti, di quelli fisici e di quelli digitali.
Uno dei laboratori della Scuola ha individuato alcuni punti sensibili: accessibilità al welfare, libertà di scelta, diritto alla mobilità, ridislocazione dei poteri territoriali, principi che vanno tradotti in politiche di qualità miranti a favorire partecipazione, mobilità dolce, connettività, cura del territorio e del paesaggio.
Il territorio come risorsa e bene comune deve essere il punto di partenza, come ci ha detto più volte Alberto Magnaghi presentandoci il suo Principio territoriale, summa della Scuola territorialista. Esso deve essere anche collegato, attraversato, relazionato all’interno in tutte le sue componenti. Per questo il tema dei sistemi infrastrutturali deve essere affrontato in modo nuovo, non solo progettando frecce (ferroviarie o autostradali) che attraversino un territorio lasciando soltanto qualche uscita, ma considerando anche le reti della viabilità storica, la cura e la funzionalità della rete stradale minore, provinciale e locale. Non sistemi omogenei, dunque, solo costieri o solo interni, ma sistemi integrati, differenziati al loro interno, ma connessi e complementari nel funzionamento.
L’analisi delle condizioni delle aree interne e del lungo processo in cui sono diventate marginali, corrispondente al declino dell’Italia rurale come effetto dello sviluppo economico capitalistico, ci conduce sempre alla questione delle disuguaglianze, che da territoriali sono diventate sociali. Per allentare la matassa delle disuguaglianze servirebbero politiche differenziate, più attente ad un «paese rugoso» come l’Italia (Filippo Tantillo). La diversità e la rugosità come caratteri ineludibili dell’Italia, la policentricità come dato storico e strutturale del Paese.
Politiche differenziate significa qualcosa di molto diverso dalla paventata “autonomia differenziata” che rischia di configurarsi come “secessione dei ricchi” per usare il titolo di un libro di Gianfranco Viesti. A proposito di politiche, in varie lezioni e laboratori è stato riservata una puntuale attenzione critica al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), auspicando una sua attuazione non centralistica e attenta al coinvolgimento delle comunità locali, affinché non diventi un acceleratore di disuguaglianze anziché strumento di attenuazione delle disparità territoriali e sociali.
Le riflessioni della Scuola di Paesaggio non tralasciano mai di approdare alla tematica dell’educazione, della formazione e della conoscenza paesaggistica, individuando la scuola come presidio fondamentale del territorio, una scuola che guardi al paesaggio (strumento per imparare e apprendere e non semplicemente materia da insegnare) e che assuma una valenza “radicante”, come ha detto Mario Calidoni verso la fine della Scuola.
Analizzare il paesaggio delle aree interne, come è stato fatto nella Scuola estiva dell’Istituto Alcide Cervi, aiuta a leggere le trasformazioni e a capire il declino della parte più estesa della superficie italiana. Ma serve anche a intravedere le vocazioni, le potenzialità e le prospettive dell’Italia interna, trascurata e dimenticata dallo sviluppo capitalistico, delusa e ferita. Anzi, non solo. Può servire a progettare un riequilibrio complessivo, demografico, economico, sociale e culturale dell’intero Paese. Perché la questione territoriale che affligge la penisola è un problema dell’intera società. Il declino delle aree interne è ormai un dato storico; la rinascita chissà. Ma il paesaggio la può aiutare.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Rossano Pazzagli insegna Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, è vicepresidente della Società dei Territorialisti e direttore della Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni”. Fa parte della direzione di varie riviste, tra cui “Ricerche storiche” e “Glocale”. È autore di numerosi articoli e libri sulla storia del mondo rurale e sulla storia del turismo; con Gabriella Bonini ha recentemente pubblicato il volume Italia contadina. Dall’esodo rurale al ritorno alla campagna.
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