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Il Paese degli onesti, un apologo senza tempo

Italo Calvino

Italo Calvino

di Elio Rindone

Il prossimo anno ricorrerà il primo centenario della nascita di Italo Calvino (1923-1985), presentato da Wikipedia come «intellettuale di grande impegno politico, civile e culturale, uno dei narratori italiani più importanti del secondo Novecento». Non ho idea del rilievo che si darà a tale anniversario, forse un breve servizio nel corso dei vari telegiornali. Ma sono pronto a scommettere che nessuno ricorderà l’articolo che pubblicò il 15 marzo del 1980 sul quotidiano La Repubblica.

Su cosa si basa tanta mia sicurezza? Sul fatto che quell’articolo si intitolava Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, e iniziava così: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito». Ora si capisce che nel 1980 si potesse parlare dell’Italia come di un Paese corrotto, la cui economia si reggeva sull’illecito: in effetti, il Paese era retto da una minoranza di potenti che si arricchiva illegalmente, causando proteste che spesso degeneravano nella violenza e nel terrorismo; la mafia la faceva da padrona, sino a quando nel 1986 i suoi capi non vennero portati alla sbarra in quello che è considerato il più grande processo penale mai celebrato nel mondo; la corruzione toccava ogni settore della pubblica amministrazione, come si scoprirà finalmente nel 1992, quando quel sistema sarà bollato come Tangentopoli.

Ma ora? Ora quel Paese marcio non c’è più: ecco perché quelle parole di Calvino oggi suonerebbero prive di senso. Certo, c’è ancora la distanza tra i ceti più abbienti e i diseredati, anzi le diseguaglianze sono addirittura aumentate anche a causa della pandemia. Come rivela la rivista americana Forbes, specializzata in questo campo, nei 21 mesi intercorsi tra marzo 2020 e novembre 2021 il numero dei miliardari italiani è aumentato di 13 unità e il valore aggregato dei patrimoni dei super-ricchi è cresciuto del 56%, toccando quota 185 miliardi di euro. I 40 miliardari italiani più ricchi posseggono oggi l’equivalente della ricchezza netta del 30% degli italiani più poveri (18 milioni di persone adulte).

Vittorio Valletta

Vittorio Valletta

Ma oggi tutti sanno che quelle ricchezze nulla hanno a che fare con l’illegalità ma sono frutto di onesto lavoro. Il merito va premiato adeguatamente: Vittorio Valletta, numero uno della Fiat negli anni cinquanta, guadagnava appena quanto 12 operai. Nel 2021, invece, giustamente John Elkann, tra stipendio, bonus e premi in azioni, ha guadagnato più di 35 milioni di euro, al lordo delle tasse; più o meno lo stipendio di circa 1.200 lavoratori dipendenti con busta paga media.

E nulla i grandi patrimoni hanno a che fare con l’evasione fiscale, fenomeno fisiologico comune a tutti i Paesi: era inevitabile sottrarsi a obblighi opprimenti, se si pensa che nel 1974 l’imposta sulle persone fisiche prevedeva 32 scaglioni, con l’ultimo al 72% su redditi oltre 3 milioni di euro rivalutati al 2018. Una vera ingiustizia commessa dallo Stato a danno dei suoi cittadini più laboriosi, ingiustizia corretta nel corso degli ultimi decenni, sino alla riforma attuata dall’attuale governo, che ha ridotto le aliquote a quattro, con la più alta al 43%.

L’opinione pubblica – finalmente davvero libera perché non più influenzata da mezzi di informazione asserviti a ideologie anticapitalistiche – è maturata, tanto che le proteste violente sono fortunatamente scomparse, e gli stessi sindacati degli operai riconoscono che non ci sono più vere ragioni per proclamare uno sciopero. Anzi hanno accettato quasi senza batter ciglio quella riforma dello Statuto dei Lavoratori, chiamata con un linguaggio alla moda Jobs Act, che ha ridotto le tutele, francamente eccessive, previste per i lavoratori in caso di licenziamento.

È vero, c’è ancora un’alta percentuale di disoccupati, ma sono quelli che ormai sono chiamati ‘divanisti’, gente che preferisce godere, seduta sul divano di casa, delle somme elargite poco saggiamente dallo Stato a titolo di ‘Reddito di cittadinanza’, che in effetti si è rivelato nient’altro che un incentivo al poltronismo di tanti giovani che rifiutano la fatica del lavoro e che addirittura vorrebbero che per legge si stabilisse un salario orario minimo, ignorando le condizioni critiche in cui si trovano oggi molte imprese.

Per quanto riguarda la mafia poi, giustamente non se ne parla più, o se ne parla solo nelle ricorrenze ufficiali, come l’anniversario della morte di Falcone e Borsellino. I 30 anni trascorsi dal 1992 hanno confermato che grazie al loro sacrificio, ricordato dalle nostre autorità in solenni cerimonie, la mafia è stata debellata definitivamente. È vero: ci sono ancora piccoli segnali di una sua presenza diffusa nel territorio, ma nulla a che fare con quel fenomeno terribile che abbiamo conosciuto in passato.

I catastrofisti mettono l’accento sul fatto che nel 2021 sono stati emessi 14 decreti di scioglimento di Consigli comunali per infiltrazioni mafiose e che in ogni giorno dello stesso anno c’è stato un arresto o è stata aperta una nuova indagine. Ma in realtà non si tratta di casi eclatanti, tanto che la maggior parte dei giornali neanche ne dà notizia, e poi un po’ di criminalità, più o meno organizzata, c’è in ogni Paese e dobbiamo smetterla con il solito complesso di inferiorità di noi italiani.

Roberto Scarpinato

Roberto Scarpinato

Sono perciò certamente un errore le parole pronunciate dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all’apertura dell’Anno giudiziario a gennaio 2018: «Nel distretto di Palermo si registra un incremento del 97% di procedimenti per reati di corruzione, del 77% per i reati di concussione, del 27% per i reati di malversazione a danno dello Stato […]. Il numero dei soggetti coinvolti, i ruoli apicali o strategici da tanti di essi ricoperti all’interno di ministeri nazionali, di vari assessorati della Regione siciliana, della più diversa tipologia di uffici ed enti pubblici – dai Comuni alle Asl, dal Genio Civile alla Inail e via elencando – la serialità delle condotte criminose, la vastità delle reti di relazioni e di complicità, la rilevantissima entità economica dei danni causati dalle condotte criminose all’Erario e alla collettività, ricompongono il quadro di un collasso etico e di una deriva criminale di segmenti significativi della classe dirigente». Davvero fuori luogo quei toni allarmistici per fenomeni locali, che tutti diamo per scontati: l’insistenza sulle parole ‘corruzione’ e ‘mafia’ ha un po’ stancato!

Invece, dobbiamo essere orgogliosi dell’impegno profuso dai nostri governanti in questa decisiva battaglia e chiedere semmai allo Stato di usare clemenza nei confronti di chi sta ancora scontando lunghe pene per reati commessi decine di anni fa, per esempio rivedendo le dure condizioni carcerarie stabilite dall’attuale normativa antimafia, in particolare con l’articolo 41 bis.

La Corte costituzionale ha già cominciato a farlo, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui prevedeva l’ergastolo ostativo: il divieto cioè di concedere permessi premio agli ergastolani in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con l’organizzazione mafiosa. La Corte ha quindi affidato al Parlamento il compito di approntare una nuova disciplina in materia, e c’è da sperare che i nostri parlamentari non si lascino convincere da chi, mostrandosi senza cuore, sostiene che la condizione imprescindibile per la rottura del vincolo associativo mafioso – e quindi per godere dei benefici di legge – sia la collaborazione con la giustizia. Bisogna trovare, invece, il modo di liberare dall’ergastolo pure chi ha iniziato un processo rieducativo, anche se per suoi insindacabili motivi personali non intende collaborare con la giustizia: la speranza di una vita migliore non si può negare a nessuno!

In effetti, ormai da decenni siamo in una fase nuova: è finito lo strapotere della magistratura, convinta di poter fare il bello e il cattivo tempo processando parlamentari – e cioè rappresentanti del popolo sovrano – che vedevano la loro immagine e la loro carriera compromesse da accuse che, dopo anni di vero calvario, risultavano del tutto infondate. Da tempo sono i politici che coraggiosamente, appena vengono inquisiti, cominciano ad attaccare i magistrati che li perseguitano, svelando le ragioni nascoste e i giochi di potere che, una volta venuti alla luce, hanno fatto perdere all’ordine giudiziario ogni credibilità.

E particolarmente ammirevoli sono quei politici che, pur avendo subìto condanne per mafia, una volta espiata la pena hanno il coraggio, come accaduto di recente in Sicilia, di rimettersi in gioco, appoggiando questo o quel candidato sindaco o presidente di Regione. In base alla nostra Costituzione, sono i cittadini che hanno il diritto di eleggere i candidati che ritengono più meritevoli, e che non devono certo essere bollati come amici dei mafiosi per il sostegno, trasparente e disinteressato, ricevuto da uomini che vogliono non riconquistare il potere perduto ma mettere a disposizione di altri l’esperienza acquisita nei ruoli ricoperti in passato.

Marta Cartabia

Marta Cartabia

Sì, in effetti si respira un’aria nuova da quando la carica di ministro della Giustizia non è più ricoperta da Alfonso Bonafede ma da Marta Cartabia. Infatti il primo aveva fatto approvare una legge – che stranamente aveva riscosso il plauso della Commissione Europea – che bloccava la prescrizione del reato una volta pronunciata la sentenza di primo grado, col rischio di far durare i processi un’eternità nei gradi successivi. Ma proprio i dissensi, sul tema della giustizia, interni alla maggioranza che sosteneva il governo ne hanno determinato la caduta. E il nuovo governo, con la ministra Cartabia, ha per fortuna evitato il rischio di processi infiniti, stabilendo dei tempi certi per i giudizi di appello e Cassazione: scaduti quei termini senza che si sia arrivati a sentenza, scatta la improcedibilità, e il processo è morto, come se non fosse mai iniziato. Questa è giustizia: non si possono tenere i cittadini imputati a vita!

E ulteriori passi avanti si possono fare con i referendum sulla giustizia proposti dai Radicali e dalla Lega e che hanno avuto l’appoggio di altri partiti. Anche se non è stato raggiunto il quorum, sono certo che il Parlamento potrà agire ugualmente, sulla linea dei quesiti referendari, per evitare l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva e, soprattutto, per abolire quella legge Severino che stabilisce il divieto di ricoprire incarichi di governo, o la decadenza dagli stessi, per coloro che vengono condannati in via definitiva per determinati reati. Siamo un Paese civile, e un tale rigorismo da caserma non è più accettabile!

Tornando all’articolo da cui abbiamo preso le mosse, Calvino concludeva che gli abitanti di quel Paese corrotto avrebbero potuto sentirsi soddisfatti se «non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti». E la sua ironia era più che giustificata, perché la società del suo tempo era fondata davvero sull’illegalità, e quindi quegli ‘onesti’ svolgevano un’importante funzione, erano la coscienza critica che ha favorito la nascita del Paese in cui ora possiamo vivere felici.

10622753_731211246914685_8634100651901687577_nFelici… ma non del tutto: perché quegli ‘onesti’ ci sono ancora, e non si capisce che cosa vogliano, dato che ormai nel nostro Paese gli obiettivi umanamente possibili sono stati già tutti raggiunti. Quei loro strani atteggiamenti, così acutamente descritti da Calvino, non sono più giustificati! Eppure loro perseverano: sono diversi, sempre scontenti, e così tolgono serenità agli altri cittadini.

«Erano costoro onesti, prosegue Calvino, non per qualche speciale ragione, […] erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così […]. In quel Paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. […] Non si facevano illusioni che in altri Paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile».

E allora? Privi di illusioni, privi di speranze: perché continuano a dare fastidio! In una società come la nostra che, possiamo dirlo senza esagerare, si avvicina alla perfezione, non c’è più posto per loro: appartengono al passato. Lo capiscono? Niente affatto! Pare che non abbiano proprio nessuna intenzione di scomparire. «No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli […], così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è».

Gli onesti persisteranno ‘ancora per secoli’ o questa è una loro illusione, e la loro estinzione è davvero vicina? Io non ho una risposta ma, per essere sincero, spero che restino sempre con noi! 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022

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Elio Rindone, docente di storia e filosofia in un liceo classico di Roma, oggi in pensione, ha coltivato anche gli studi teologici, conseguendo il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Per tre anni ha condotto un lavoro di ricerca sul pensiero antico e medievale in Olanda presso l’Università Cattolica di Nijmegen. Da venticinque anni organizza una “Settimana di filosofia per… non filosofi”. Ha diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali è il volume collettaneo Democrazia. Analisi storico-filosofica di un modello politico controverso (2016). È autore di diversi articoli e contributi su Aquinas, Rivista internazionale di filosofia, Critica liberale, Il Tetto, Libero pensiero.

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