Introduzione
Tradire un principio o negarne la valenza affermandone il contrario non sono condotte concettualmente identiche sul piano della negazione, ma implicano positivamente due diverse e opposte scale di valori.
Si pensi al matrimonio o a una stabile relazione affettiva coi loro corollari di fiducia, stima e fedeltà reciproca, esposti entrambi alla lesione del tradimento. In questo caso la formulazione lessicale con cui si definisce la condotta del traditore implica la legittimità dell’esistenza del valore tradito nel territorio dell’etica, che il tradimento lede, ma al contempo riconosce come implicito dato normativo di riferimento.
Viceversa l’assunto che non esista, in alcuna relazione sentimentale, codificata o no, alcun presupposto etico, né sul terreno dell’affidamento, né su quello della cura reciproca, né su quello del perseguimento della felicità spirituale, ma affermare che invocarne l’aspirazione e la difesa sia non solo illegittimo, ma pernicioso e del tutto estraneo ai princìpi del suo funzionamento, basato invece sulla subordinazione del più debole al più forte, difeso dalla violenza, improntato alla promiscuità sessuale di una sola delle due parti, non solo viola l’idea contraria, ma costituisce una regola alternativa di condotta quanto alla natura stessa della relazione e ai suoi fini.
Questo esempio riteniamo sia idoneo a innescare una riflessione sugli effetti che gli eventi internazionali e quelli domestici hanno sulla coscienza degli osservatori spesso indotti a mescolare la riprovazione di condotte lesive dei princìpi codificati dalle Costituzioni o dagli Ordinamenti sovranazionali, non solo senza comprendere le diverse scale di valori in gioco, ma indotti, a causa di questa sorta di cecità cognitiva, a vedere nella lesione di quei principi la giustificazione del loro annientamento.
Per questo motivo opiniamo che sia necessario offrire, a chi vorrà approfittarne, l’occasione di rivisitare il fondamento di alcuni princìpi costituzionali, che sono l’espressione della società liberale occidentale, come ragioni etiche di riferimento, prescindendo dagli eventi lesivi e ad esse antitetici, per fornire all’osservatore incauto uno stimolo al giudizio critico, affinché non scivoli nel territorio dove, come si dice, tutte le vacche sono nere.
Questo primo contributo attiene alla necessità di comprendere non solo il significato, ma l’ineludibile dovere di conoscere il significato del concetto di rappresentanza politica, per consentire un giudizio consapevole sulla sua natura e sui progetti di stravolgimento, che noi riteniamo costituiscano un pericolo mortale per la democrazia liberale.
La democrazia nasce da un’esigenza di uguaglianza, e quella rappresentativa progetta di declinarla nella libertà, che è la libertà di tutti, liberi e uguali, e per farlo persegue un ideale di giustizia.
Un primo problema si annida nel capire cosa significhi essere liberi, di e da, essendo piuttosto facile capire il significato della libertà di: di fare, di pensare, di parlare, di associarsi, di astenersi, di muoversi, di credere, di amare. Un po’ più difficile è comprendere la libertà da: dal sopruso, dal bisogno, dalla malattia, dalla paura…
L’uguaglianza è un concetto facile da immaginare, ma è più difficile concepirne il valore, ed è ancora più difficile scoprire come ottenerla.
La democrazia usa il diritto come strumento operativo per agire sulla complessità della realtà umana, ma le parole che lo compongono hanno funzioni e valori diversi, a seconda che si tratti del diritto costituzionale, da un lato, e, dall’altro, di tutte le altre tipologie del diritto, privato, civile, commerciale, della navigazione, penale, amministrativo e altri, perché tutte queste branche lo mostrano nella sua crescita ed evoluzione, avendo ridotto la complessità del vivere sociale dentro schemi interpretativi che ne consentano la regola e la disciplina, ma tutte queste tipologie del diritto hanno agito su una realtà ad esso preesistente.
Il diritto costituzionale, invece, usa parole ricavate dalla filosofia, dalla Storia, dalla politica per costituire, cioè per edificare qualcosa che prima non c’era. Si pensi per un attimo all’articolo uno della nostra Costituzione, che si apre con le parole “L’Italia è una Repubblica…”, e si noti che prima dell’1.1.1948 una Repubblica italiana non era mai esistita, poiché quella cisalpina di età napoleonica non era né davvero italiana, né abbracciava l’Italia intera, e quella Romana del 1849, era appunto solo e circoscritta a Roma.
Detto questo pare opportuno citare un brano di Alice attraverso lo specchio di Lewis Carrol, quando Humpty Dumpty, il personaggio uovo della famosa filastrocca di mamma oca, dice sdegnosamente ad Alice: «Quando uso una parola, significa esattamente quel che voglio io, né più, né meno». «Il problema – obietta Alice – è se puoi far significare alle parole così tante cose». «Il problema – risponde Umpty – è chi è che comanda, tutto qua».
Questo brano induce a una riflessione sul concetto di rappresentanza, che esiste e si declina a seconda di come (e del perché) esistano concetti nati dal pensiero politico, che, come tale, viene elaborato in funzione di come e perché e da chi viene esercitato il potere; e poiché il diritto costituzionale nasce per edificare qualcosa che prima non c’era, la democrazia, la libertà, l’uguaglianza, la dignità e altri concetti base vengono pensati come i mattoni con cui costruire vari edifici, dei quali non è affatto scontata un’identica sostanza.
Uno di questi è la democrazia rappresentativa, che reca il paradosso con cui abbiamo aperto queste pagine, perché la democrazia rappresentativa non è sic et simpliciter assimilabile alla democrazia tout court, ma è qualcosa di diverso, è una novità nel panorama del pensiero politico occidentale, che fa la sua prima vera comparsa nella prima Costituzione moderna, la legge fondamentale degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel marzo del 1789, e che fin dal suo esordio venne accusata di essere una finzione, essendo falso sostenere che fosse il popolo americano a «ordinare e stabilire… la Costituzione per gli Stati Uniti d’America» come affermato nel Preambolo, bensì fosse la Camera dei Rappresentanti, ben diversa e distinta dal popolo che la detta Camera affermava di rappresentare.
In verità, questo assunto ha un suo fondamento, come vedremo, poiché difficilmente può sostenersi a ragione che la volontà dei rappresentati trasmigri nella mente dei rappresentanti, in modo tale da consentire a quelli di governare attraverso questi, ma poiché la Democrazia rappresentativa ha la sua ragion d’essere nell’attuazione dei princìpi di libertà e uguaglianza, deve riconoscersi che, tanto più viene meno la finzione, tanto più viene meno la ragion d’essere della democrazia rappresentativa, e tanto più si concretizza questa finzione, tanto più si concretizza la ragion d’essere della democrazia rappresentativa. Questo è il paradosso che cercheremo di spiegare.
Diverso discorso per quanto attiene alla Democrazia diretta, che azzera la distinzione tra rappresentati e rappresentanti, eliminando questi e attribuendo a quelli il potere di governare. Ne parleremo più in là.
Ora, non essendo questa la sede per discutere sui vari concetti che descrivono la democrazia, che ci limitiamo a sintetizzare come una forma di conflitto non violento tra posizioni portatrici di interessi diversi e divergenti, per attuarne una sintesi costruttiva, parleremo del concetto di rappresentanza all’interno di una società democratica, intesa come una società bene ordinata in grado di contenere al suo interno concezioni politiche ragionevoli diverse, anche contrastanti. E vedremo quale significato attribuire alla parola “ragionevole” che impronta di sé ogni giudizio di legittimità costituzionale.
Tanto premesso, deve dirsi che questo tipo di società, per essere tale, deve aver introiettato nella sua cultura alcune idee normative (nel senso di costituire dei punti fermi razionali, non contraddittori, a cui far riferimento a mano a mano che si strutturano nuove prospettive sociali o si affrontano nuove problematiche di difficile soluzione), e morali (nel senso di credenze condivise sul terreno dell’etica in termini di riconoscibilità affettiva ed esistenziale, la cui lesione appaia come dolore inflitto o subìto e quindi da respingersi al di fuori del terreno comune) essenziali, senza le quali questa società è destinata alla distruzione.
Per farlo è necessario che il patto fondativo istituisca un sistema costituzionale che una pluralità di soggetti portatori di dottrine ragionevoli, religiose e non religiose, liberali e non liberali, possano sottoscrivere liberamente, convivendovi e comprendendone i valori. Questo è il motivo per il quale le Costituzioni democratiche rappresentative e liberali puntano la loro luce su alcuni concetti chiave, che sono quelli, per quanto ci riguarda, elencati nei princìpi fondamentali dall’art. 1 all’art 12, tra i quali all’art. 3 la libertà e l’uguaglianza sono prescritte come obiettivi da raggiungersi, pur facendo parte dei diritti inviolabili dell’essere umano.
Sul punto giova ricordare le parole di un grande intellettuale del secolo scorso, un grandissimo avvocato le cui riflessioni sugli eventi di quei tempi sono profondissime e toccanti, come il suo diario ’39-’45, Piero Calamandrei, quando il 26 gennaio del 1955 tenne un discorso a Milano inaugurando un ciclo di conferenze sulla Costituzione ed esordì richiamando l’articolo 3 come il più importante, non tanto perché enunciava tra i princìpi fondamentali la libertà e l’uguaglianza, quanto perché ne affermava l’inattualità, prescrivendo la via da percorrersi per renderli effettivi. Calamandrei illustrava l’articolo nel quale vengono riconosciuti gli ostacoli che ne impediscono l’attuazione e che prescrive, tra i compiti della Repubblica, cioè il nuovo soggetto istituito dalla Costituzione, quello di rimuoverli, per consentire a tutti di lavorare e studiare per trarre dal lavoro i mezzi per vivere un’esistenza dignitosa.
Calamandrei disse che enunciare l’esistenza di un diritto non era sufficiente per farlo esistere, e aggiunse che la nostra era una Costituzione rinnovatrice, che mirava alla trasformazione della società. Ma precisò che la Costituzione non è una macchina che si muove da sola, avendo bisogno della forza e delle energie spirituali di tutti, e il cui principale nemico è l’indifferentismo politico. In proposito narrò la storiella dei due contadini in viaggio sull’oceano a bordo di un bastimento incorso in una tempesta, talché uno dei due lascia la stiva dove sono alloggiati e sale in coperta chiedendo a un marinaio se ci sia pericolo. Al che il marinaio risponde: «Se continua così tra mezz’ora la nave cola a picco», allora il contadino si precipita nella stiva, scuote l’amico e grida: «Svegliati, svegliati! Mi hanno appena detto che se la tempesta continua così tra mezz’ora la nave affonderà!», ma l’amico apre gli occhi e dice: «E cosa m’importa? La nave non è mica mia!».
Calamandrei volle sottolineare che la democrazia costituzionale appena conquistata, al prezzo di spaventosi e terribili sacrifici di vite umane spese nella lotta contro i suoi irriducibili nemici, andava costantemente difesa e vivificata per consentire alla società umana di raggiungere gli obiettivi. Sul punto è allora indispensabile comprenderne il come, e il come sta nelle modalità attraverso le quali viene esercitata la sovranità che appartiene al popolo: cioè nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Ecco allora i punti intorno ai quali si sviluppa il concetto di rappresentanza, e che ne mostrano l’apparente paradosso: cos’è la rappresentanza, perché esiste, come funziona; da cui discendono non solo le ragioni per cui esiste una società plurale, ordinata e ragionevole, ma anche perché questa società non si limiti a gestire l’esistente (cosa non facile) ma progetti il futuro.
D’altronde, un progetto di futuro è sempre stato presente in ogni programma politico della storia moderna, e il ‘900 ne ha distillati almeno due dei quali non è stato facile aver ragione: il nazismo e il comunismo, sconfitti ma non scomparsi, su cui ci sarebbe da parlare a lungo, sia per raccontarne la storia, che come tutte le storie è composta da un susseguirsi di fatti, sia per comprenderne i nessi attraverso la loro ineludibile analisi, poiché i nessi sono le loro ragioni ideali, cioè l’energia che li muove.
Ecco, contro queste ragioni, contro quest’energia sono nate le Costituzioni delle democrazie liberali, mosse da un’altra energia, intessuta di razionalità e di morale. E così torniamo al punto da cui siamo partiti.
Ebbene, questa energia è un principio di giustizia come equità, mutuandone la sintesi dagli studi del filosofo americano John Rawls, che l’ha ampiamente dibattuta nei suoi testi Una teoria della giustizia e Liberalismo politico, ed è in vista della perpetrazione di questa giustizia che le Costituzioni come la nostra provvedono al funzionamento delle società che hanno istituito coi loro principi/mattoni.
Il funzionamento del meccanismo democratico dipende allora dall’oggetto di questa indagine, dalla rappresentanza, parola dai molteplici significati, ai quali la nostra Costituzione attribuisce un senso preciso, essendo la Costituzione il soggetto che “comanda”, per richiamare l’assunto di Humpty Dumpty.
In verità in tutte le lingue europee la parola ‘rappresentanza’ ha una molteplicità di significati che attengono al modo di agire di una persona per conto di un’altra, o alla riproduzione di qualcosa di diverso da chi riproduce, come rappresentare in effige o mimare un altro.
In politica questo concetto, la rappresentanza, nasce in opposizione ai regimi assolutistici e autocratici, che ricavano da se stessi la forza con cui esercitano il potere, liberi, svincolati da ogni forma di controllo da parte dei sudditi, cioè delle persone sulle quali il potere viene esercitato, e nasce per distinguersi dalle forme della democrazia diretta, il cui dato identificativo è un’idea di popolo come corpo unico, non internamente diviso, un’unità organica globale, con un consenso sempre reale e vivificato, mai presunto; un popolo considerato come l’unità organicamente ordinata del corpo sociale, eliminata ogni stratificazione e supposta l’uguaglianza di tutti, altrimenti, secondo i teorici della democrazia diretta, si assiste a una storpiatura della democrazia.
Non essendo questo il luogo per analizzare come la democrazia diretta persegua i suoi obiettivi, occupandoci viceversa della Rappresentanza Politica oggetto di questa indagine, deve premettersi che la R.P. ha a che vedere con la possibilità di controllare il potere politico attribuito a chi questo potere non può esercitarlo di persona, e si articola in un particolare meccanismo politico per realizzare un rapporto di comunicazione e di controllo tra governati e governanti.
Quindi, premessa l’esistenza de:
1) I rappresentanti;
2) La funzione rappresentativa;
3) Il regime rappresentativo
Vanno presi in esame tre modelli di rappresentanza:
a) Rappresentanza come specchio della società, che chiameremo “Rappresentanza Sociologica”. Ora, poiché la figura di riferimento è il popolo inteso come una pluralità di soggetti, ciascuno con le sue caratteristiche socioeconomiche, professionali, religiose, etniche, di sesso, il fenomeno dell’associazionismo per il perseguimento di fini comuni e identitari, consistente sia nella proposta di domanda politica, come veicolo di trasmissione di bisogni e richieste, sia di delega affinché i delegati partecipino alla decisione, ha comportato la nascita di partiti idonei a rispecchiare questa pluralità di soggetti.
Tuttavia la complessità dei problemi da affrontarsi, connessi con la delega, che sfocia necessariamente in una progressiva e sempre più sofisticata professionalità, ha come conseguenza la sfocatura del rapporto identitario dei rappresentanti coi loro rappresentati, nel quale si specchia la rappresentanza di chi formula la sua domanda politica e ne chiede l’adempimento in sede decisoria. A ciò si aggiunge un elemento ulteriore, e cioè, qualora i rappresentanti siano ferreamente radicati nell’immagine che devono rappresentare, smettono di prendere in esame la dinamicità che deve affrontare il rappresentante nel progetto di governo, che non è la gestione dell’esistente, ma un movimento verso il futuro.
Si tratta comunque di una rappresentanza garantita da un sistema elettorale rigorosamente proporzionale, sul quale spenderemo qualche parola al termine di questo lavoro.
b) “Rappresentanza come delega”. È quella che più si avvicina al concetto privatistico del mandato, dove il mandante incarica il mandatario di svolgere un compito in nome e per conto suo (si pensi alla vendita di un veicolo) e che apparve, storicamente, nell’organizzazione dei primi partiti organizzativi di massa, soprattutto operaisti, con rappresentanti eletti con mandato imperativo, tenuti a una rigida disciplina di partito. È una rappresentanza tipica di una saltuaria partecipazione del rappresentato al processo decisionale, simile a quella sociologica, ma non necessariamente espressione della medesima identità del rappresentato, ben potendo estendersi a soggetti particolarmente competenti nella materia per cui ricevono il mandato. Il suo limite consiste nel fatto che il delegato è stretto in un margine di manovra ristrettissimo, incompatibile con la complessità e la imprevedibilità della vita politica destinata non solo a gestire l’esistente, ma a progettare il futuro e a confrontarsi con tematiche ed eventi inaspettati. Si pensi alle questioni climatiche, alla politica estera, con accadimenti esterni, inattesi o nuovi.
Ne consegue che la delega stretta potrebbe funzionare solo per quanto attiene a grandi temi politici, dove si configurino posizioni nette e ben definite, come sui rapporti tra Stato e Chiesa, sulle grandi alleanze internazionali, su temi divisori capitali, come quelli del finis vitae, ma che tuttavia abbisognano di margini di autonomia, per la loro complessità, incompatibili con la delega stretta, a meno che si voglia ipotizzare una relazione tra rappresentati e rappresentanti fatta di istruzioni capillari in continuo divenire.
c) “Rappresentanza di tipo fiduciario”. In questa il rappresentante ha il suo punto focale a partire dal quale egli esercita il suo potere, e i vari sistemi costituzionali precisano di quale punto focale si tratti, a seconda di chi siano e per quale ambito i rappresentati attribuiscano la rappresentanza (il collegio elettorale, un ambito territoriale ristretto, come il Comune o la Provincia, ad esempio, o tutta la nazione).
In Italia, l’articolo 67 della Costituzione recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione senza vincolo di mandato». Vedremo la pregnanza di questo principio che, in linea generale, vuole evitare la frantumazione particolaristica della Rappresentanza Delegata, e sfuggire alle distorsioni che portarono alla morte della democrazia rappresentativa nella Rivoluzione francese e in quella sovietica.
Tuttavia, poiché è ben possibile la non corrispondenza delle percezioni che i rappresentanti hanno degli interessi dei rappresentati, questa possibile discordanza è uno dei problemi con cui deve fare i conti la R.P., poiché, se la discordanza è eccessiva, viene meno il governo rappresentativo, e con esso la stessa Democrazia rappresentativa. Ne consegue la necessità di trovare un punto di equilibrio concettuale che salvaguardi il senso logico del paradosso con cui si apre questo lavoro.
La soluzione di questo problema è strettamente connessa coi principi di libertà e uguaglianza e con la prescrizione dell’articolo 67 della nostra Costituzione la cui importanza trascende di gran lunga la sua brevità sintattica.
Detto questo, deve ritenersi che un rapporto fiduciario sia compatibile con un controllo su come tale Rappresentante fiduciario rispecchi le caratteristiche dei suoi elettori, essendo indispensabile un margine di autonomia decisionale. D’altronde, ipotizzare una qualche forma di controllo sul rappresentante significa pur sempre esonerarlo dal vincolo di mandato proibito dall’art. 67, perché il controllo è ex post, mentre il mandato è sempre ex ante, con specifiche istruzioni, ma qualche forma di controllo risponde a esigenze di ordine psicologico e simbolico, soprattutto quando la rappresentanza si riferisce a gruppi poco integrati, marginali nel tessuto sociale, che hanno bisogno di rappresentanti nei quali trovare un costante punto di riferimento, pur nel rispetto della prescrizione dell’art. 67.
Tanto premesso deve aggiungersi un dato ulteriore, e cioè, se da un lato la R.P. contiene un aspetto prescrittivo, comportamentistico, dall’altro, per funzionare, ha bisogno di una struttura su cui agire, cioè di una dimensione procedurale, che ne determini la natura all’interno di un sistema di riferimento, altrimenti si rischierebbe di cadere dentro le figure cancellate dalla Storia, come quella del Sovrano assoluto che «rappresentava tutto il Paese» (Hobbes) o nelle figure di capi carismatici, i dittatori, i guru di partiti unici che pretendono di incarnare l’interesse vero del popolo (popolo uno e indiviso, ovviamente), per cui tornano a galla le parole di Alice. Si immagini cioè un rappresentante del tutto svincolato da ogni controllo, investito a vita del suo potere sul quale i rappresentati non hanno alcuna possibilità di influire. Si pensi, ad esempio, al concetto di Rappresentanza legale (del genitore per il figlio minore, su cui il minore non ha alcuna voce in capitolo) e a quello della c.d. Rappresentanza volontaria, dove il rappresentato è capace del suo potere di controllo.
Ebbene, il controllo ex post, nel nostro sistema costituzionale, avviene attraverso le elezioni degli organismi parlamentari, per cui la nostra R.P. è rappresentanza elettiva, attraverso elezioni competitive, che offrano garanzie di libertà di espressione del suffragio in un contesto sociale di liberi e uguali. E così si torna al punto iniziale, dei nessi tra la R.P. e i diritti fondamentali, e soprattutto dei principi di libertà, di cui parleremo tra poco.
Ora, premesso che le elezioni sono uno strumento per realizzare la rappresentanza politica attraverso il giudizio e la scelta, e non sono una mera mobilitazione del consenso per la legittimazione del capo (sul punto, tuttavia sarebbe opportuno analizzare la natura e il funzionamento dei c.d. “partiti apparato”), le elezioni nell’accezione che ci interessa, agiranno sia sulle persone, sia sui programmi, sia sugli atti politici, come controllo a posteriori sulla responsabilizzazione degli attori politici, rispetto agli interessi dei rappresentati.
Sul punto giocano la loro importanza i sistemi elettorali, poiché il suffragio universale, in una società di massa, comporta una gran distanza tra gli elettori e gli eletti, colmata dai partiti, e sul punto è interessante notare come la relazione sia di due tipi:
1) Gli elettori si relazionano con un partito il quale esprime gli eletti;
2) Gli elettori si relazionano con un eletto che esprime un partito.
Allora il rapporto tra rappresentati e rappresentanti si concretizzerà nel controllo che i rappresentati eserciteranno ex post o sul partito (nel primo caso) o sul rappresentante (nel secondo caso), ma diversi saranno i contenuti del controllo sulla rappresentanza nei due casi, essendo quelli del primo caso molto più indiretti, meno cogenti, ma soprattutto tali da sfuggire alla relazione tra rappresentati e rappresentanti.
Entrano in gioco allora i meccanismi della comunicazione e della pubblicità negli affari pubblici, e di comprensibilità per i cittadini e le condizioni che consentono alla classe politica di percepire il pubblico di riferimento. Si tratta di un processo a doppio senso di comunicazione dei messaggi, di informazione reciproca per la formazione della volontà politica dei rappresentati. Si tratta cioè del fattore culturale della politica partecipata invece che passiva, e l’essere partecipante presuppone che i cittadini elettori esprimano un’élite politica alternativa capace di offrire un ricambio.
Ecco perché la Rappresentanza Politica Elettiva è una concezione procedurale, cioè un concetto politico sulla base del quale la collettività esprime le sue volontà, le mette in relazione le une con le altre e infine opera sulla società nella sua interezza.
Detto questo, non ci si nasconde che possa darsi anche un regime rappresentativo basato su una diversa concezione di sé, quando un potere politico afferma di operare nell’interesse del pubblico prevedendo una qualche forma di sostituzione dei governanti, così come oggi, nell’era dell’informatica, esistono forze che progettano forme alternative alle elezioni competitive. Argomento, tuttavia, che ci allontana dal tema in esame.
Si tratta comunque di fenomeni rappresentativi di cui sarebbe necessario indagare i riflessi sui princìpi fondamentali che dobbiamo tornare a prendere in esame, parlando ancora di libertà, e di come questo principio si colloca all’interno del sistema rappresentativo di una società ben ordinata, basata su un concetto di giustizia equa tra i cittadini.
A questo punto deve porsi la domanda su cosa significhi un governo che tenda a realizzare una giustizia equa tra i cittadini, cioè se debba intendersi il governo dei più capaci, degli esperti, dei tecnici, o no, poiché governare uno Stato richiede qualcosa di più della pura conoscenza scientifica, non essendo il governo degli esseri umani come la fisica, la medicina o la chimica.
La complessità del mondo dei viventi è tale per cui il concetto di giusto e di bene si sposta su piani diversi da quelli della pura scienza. Bastano pochi esempi per rendersene conto: si pensi alla parità di genere, alle pulsioni che governano i rapporti tra i sessi, ai pregiudizi culturali e alle molteplici credenze religiose, al modo di governare gli istinti, di influenzare la crescita e l’educazione dei figli piccoli, di scegliere o no le loro amicizie, di agevolare o limitare la voglia di esplorare il mondo delle relazioni.
Entra in gioco, cioè, la necessità di formulare dei giudizi etici, e il punto di partenza che abbiamo indicato in esordio è proprio quello di una società plurale, che riconosca la legittimità di ogni suo componente, che a sua volta riconosca e accetti la legittimità del mondo nel quale si colloca e vive, cioè la democrazia liberale il cui cardine è un’armonica simbiosi tra la libertà e l’uguaglianza.
Ebbene, il modo migliore per ottenerla sta nel partire da un’idea fondamentale, cioè da un principio sulla base del quale erigere delle regole di condotta. E questo è il principio del riconoscimento della ragionevole aspettativa che l’interlocutore, anche dissenziente dal nostro punto di vista, riceva il riconoscimento dell’altrui pensiero, purché sia strutturato su una base razionale (cioè logicamente non contraddittorio), che è il dato ineludibile, per quanto non sufficiente, per la riconoscibilità, che deve fondarsi su un presupposto di ragionevolezza.
Sul punto devono spendersi alcune parole, affinché il principio di ragionevolezza mostri la sua struttura concettuale, determinante, per dirla con Humpty Dumpty, per affermarne il significato imprescindibile sul suo terreno operativo, che ancora ritroviamo nell’articolo 3 della Costituzione, cioè l’uguaglianza. E se l’uguaglianza si esprime nel divieto di discriminazioni rispetto alle differenze soggettive di ciascun individuo (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali), la ragionevolezza attiene in primo luogo alla comparazione tra le diverse istanze venute a confronto. Ma non soltanto, essendo questa comparazione solo la premessa del modo con il quale i soggetti portatori di istanze conflittuali possono riconoscerne vicendevolmente la legittimità. Si tratta cioè sia dei fini che ogni progetto politico persegue, e che trovano la loro cornice all’interno della Costituzione, intrinsecamente intesi (il fine ad esempio di erigere una società uniforme dal punto di vista religioso, che escluda dal tessuto sociale ogni appartenenza religiosa diversa da quella maggioritaria o dominante sarebbe irragionevole e come tale contrario al principio premessa di cui abbiamo parlato, e analogamente un fine che vedesse la creazione del dominio di un sesso su un altro) sia dei mezzi prospettati per il loro perseguimento, che devono essere compatibili coi principi indicati nella Costituzione, in termini di congruenza (tra il fine e il mezzo proposto), coerenza ( tra il fine e i mezzi proposti e i principi generali contenuti nella Costituzione, e quindi non arbitrari), proporzionalità (si pensi all’impiego delle risorse disponibili per attuare i fini condivisi, oggi così attuali durante la pandemia), necessità, misura, pertinenza e così via.
Come abbiamo appena detto, partire da un principio di ragionevolezza non basta, poiché questa dev’essere coniugata con il principio di libertà, e, per quanto attiene al paradosso con cui si è aperto questo breve lavoro, per libertà deve intendersi il riconoscere a ogni cittadino la capacità di rivedere e modificare la concezione del bene per motivi ragionevoli e razionali, considerando se stessi indipendenti da ogni coercizione particolare. Quindi, richiamando concettualmente Humpty Dumpty, la libertà deve essere intesa come potere morale di concepire il bene.
Questo concetto di libertà è connesso con il senso di identità dei cittadini i cui fini e i cui impegni esistenziali sono morali e politici e tendono a chiederne la realizzazione alle istituzioni che li rappresentano, intendendosi per istituzioni le strutture attraverso le quali lo Stato esiste e opera, come il Parlamento, costituito dei suoi membri, che delibera e approva le leggi, il Governo, che dà loro esecuzione disponendone l’applicazione all’interno della società collettiva, l’Ordine Giudiziario, luogo e mezzo di tutela dei diritti degli individui, il Presidente della Repubblica, che personifica l’intera società nazionale e vigila sul corretto funzionamento delle altre istituzioni, e gli altri organi dello Stato come la Corte Costituzionale che, quando ne viene investita, giudica sulla corrispondenza delle leggi ordinarie rispetto a quella fondamentale.
Al termine di queste pagine aggiungeremo qualche parola sul significato del rapporto tra istituzioni e persone che le incarnano. Tornando quindi al significato della parola libertà prescelto, deve dirsi che la libertà è intrisa del riconoscimento di un dato di fatto naturale: e cioè che a ogni essere umano venga riconosciuto il diritto di esprimerla ed esercitarla, poiché tutti esistiamo all’interno di un flusso del divenire. Ne consegue che anche le nostre concezioni sull’idea di bene, privato o pubblico, sono suscettibili di modifica nel tempo.
Ebbene, se trasferiamo questo principio all’interno di una società estesa e plurima, vediamo che gli unici soggetti incapaci di esercitare questa forma di libertà, sono soggetti impossibilitati ad auto autenticarsi, cioè a dare a se stessi la dimensione della propria identità in perpetuo divenire: i malati di mente, i bambini e gli schiavi. La risposta è ovvia: si parla delle persone per le quali agisce una volontà diversa dalla loro, nel bene e nel male. Nulla quaestio sui bambini e i malati di mente, ma gli schiavi?
E nel mondo attuale, che ha confinato la schiavitù nei tabù respinti nelle tenebre della Storia, sebbene, purtroppo, ve ne siano esempi tuttora, come ha accertato l’Onu in Paesi nemmeno lontani come la Libia, nei cui campi di detenzione ci sono persone vendute come schiave, o come accadde recentemente nei territori controllati dall’ISIS, o, pare, in luoghi di lavoro e detenzione clandestini nel tavolato delle Puglie, nessun essere umano può legittimamente essere etero diretto.
Ciò per un motivo sostanziale, oltre alla ragione morale. Perché la società democratica ben ordinata non è un’associazione con scopi e fini ultimi espressi per l’utilità concreta dei suoi componenti, per i quali questi fini e scopi ultimi nascono dall’idea che le persone che li perseguono abbiano più valore delle altre. Il che storicamente è accaduto, sol che si pensi ai progetti delle conquiste imperiali (il razzismo espresso nella canzone “faccetta nera” docet), al programma del dominio ariano sull’Europa con lo sterminio dei sotto uomini, all’idea di una società divisiva ed escludente capace di far digerire alla collettività la morte dei migranti nel mare, pur di conservare il primato identitario di una nazione, di un’etnia, di un colore della pelle, di una religione.
La società democratica, invece, essendo pluralistica nella diversità, attribuendo a tutti coloro che le si avvicinano e la compongono gli stessi diritti fondamentali, persegue una giustizia più perfetta, il godimento delle gioie della libertà, la difesa comune di queste, non offrendo ai suoi membri diritti e privilegi diversi a seconda della loro identità.
E ciò indipendentemente dalle loro funzioni, quindi attribuendole anche ai suoi rappresentanti, la cui libertà e la cui uguaglianza è implicita nel principio proclamato dall’art. 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
Sul punto si faccia attenzione a una frase spesso pronunciata dagli eletti alle funzioni apicali: «Io sono il Presidente di tutti», che significa essere il Presidente anche degli elettori che hanno votato per un concorrente.
Il corollario, però, che procede dall’assunto morale che esprime i principi della libertà e dell’uguaglianza, ha un effetto giuridico non indifferente, che trova la sua natura nel paradosso con cui si è aperto questo lavoro: esercitare le proprie funzioni rappresentando tutta la Nazione, significa prendere delle decisioni, o sottoscriverne o adeguarsi o progettarne o intervenire su aspetti non solo non contemplati dal mandato, ma anche in difformità con la volontà dei rappresentati. Cioè attuando la finzione oggetto del paradosso. Viceversa, scegliere di essere governati da una banda di incapaci etero diretti significa volere qualcosa di diverso dalla democrazia rappresentativa.
Detto questo, è opportuno spendere ancora qualche parola sul senso dei princìpi che hanno improntato questa analisi sulla Democrazia rappresentativa, intendendosi, per senso, la loro ragione, la loro natura, e la direzione che imprimono alla vita della collettività.
La società umana è assimilabile agli esseri umani che la compongono, e ogni essere umano, nel corso della sua vita, trasforma, sostituendole con nuove e diverse, pare a ogni decennio, tutte le cellule del suo corpo, mantenendo inalterata, se si tratta di persona sana di mente, la propria coscienza di sé, una cospicua memoria e una congrua strutturazione delle proprie convinzioni morali. Il tutto indipendentemente dalla modifica fisiologica del suo corpo materiale; ma questi aspetti, che forse incongruamente potremmo definire il sostrato spirituale della persona umana, ne determinano il senso, cioè la ragione psicologica, la natura intellettiva, la direzione morale impressa alla sua vita. Ma tutto ciò non costituisce una zavorra da cui una persona sana di mente, moralmente integrata nelle sue relazioni sociali e affettive, voglia liberarsi inseguendo prospettive e sogni di catarsi, fuga, distruzione dei legami, accaparramento di nuove conquiste materiali e identitarie. Se accade, gli osservatori ne prendono le distanze e procedono a formulare un attento e ponderato giudizio. Si tratta cioè di un patrimonio ideale che arricchisce la persona, facendola sentire tanto più ricca quanto più capace di farne buon uso.
È su questo buon uso che si ritiene necessario porre l’attenzione, poiché la società umana è analoga all’essere umano, e mentre i suoi componenti scompaiono col passare del tempo, il suo bagaglio ideale è rimasto nella sua cultura, nella letteratura, nella storiografia, nella filosofia, nel diritto. Tutto ciò, dunque, è, per la società degli uomini che si sono sostituiti a quelli che li hanno preceduti, quello che è il bagaglio della coscienza per ogni essere umano il cui corpo fisico è diventato altro da quello del suo passato.
Questa premessa vale ancor di più quando si prenda in considerazione il lascito ideale inscritto nelle parole della Costituzione per come la vollero le persone che ci hanno preceduto nella Storia, quando e soprattutto si dia il caso che individui successivi decidano di fare cattivo uso delle energie ideali di cui è intessuta la Costituzione, nella quale vive il senso della Democrazia rappresentativa analizzata in questo lavoro. Tanto più quando questi individui assumano su di sé grandi poteri in nome dei quali chiedono alla collettività il potere di distruggere o modificare in modo sostanziale quel lascito.
Questo significa aver ben chiara la differenza tra il bagaglio ricevuto dal passato, cioè il complesso di regole che costituiscono il motore della società in cui si vive, e gli individui che, disprezzandolo, facendone un cattivo uso, spingono la società su una strada incompatibile coi valori e i principi per la cui realizzazione quel motore è stato concepito.
Si faccia un esempio quanto ai sistemi elettorali così necessari e intrinseci al sistema della Rappresentanza Politica di una Democrazia Costituzionale liberale, che si articolano in una serie di variabili tra quello proporzionale e quello maggioritario. Ebbene, il primo consente alla collettività di un territorio di esprimere i suoi rappresentanti in modo proporzionale alla percentuale delle forze elettorali che la compongono, talché la maggioranza ne otterrà un maggior numero, ma la minoranza, ottenendone appunto un numero proporzionale alla sua consistenza, permetterà in sede deliberativa di svolgere il ruolo congruo alla formazione della volontà democratica. Per converso il sistema maggioritario, soprattutto quello uninominale, darà la rappresentanza della collettività solo a chi avrà ottenuto la maggioranza dei voti, escludendo la minoranza.
Ora, premesso che entrambi i sistemi hanno difetti e pregi e che non è questo il luogo per esaminarli, deve evidenziarsi come la Costituzione li abbia messi in equilibrio. Se il passare dei decenni ha dimostrato che le regole possano venir migliorate, questo non significa voler aggredire la Costituzione trasformandone il senso. E questo vale per la Costituzione nel suo insieme.
Aver chiara questa differenza significa comprendere che criticare, contestare, cercare di sostituire chi fa un cattivo uso del potere non significa modificare le regole, i princìpi, i valori che le persone antecedenti sul terreno della Storia hanno concepito e proclamato per sconfiggere le forze ad essi nemiche. Dimenticarsene, significa distruggere la coscienza di se stessa necessaria a ogni collettività per riconoscere il suo fondamento morale.
Mentre ogni energia spesa per difendere quei principi, utilizzandone il valore come forza vivificante dell’azione, è assimilabile al battito d’ali di una farfalla che, dagli antipodi, può impedire una catastrofe dall’altra parte del mondo.
Questo è in ultima analisi il lascito ideale delle parole di Piero Calamandrei contro l’indifferentismo politico: ognuno di noi può adempiere al suo dovere di cittadino indipendentemente dalla sua forza: basta che ne sia cosciente e non tradisca la sua coscienza.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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