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Il patto UE sull’immigrazione e l’asilo: visioni distorte, diritti negati e rimpatri forzati

quale-riforma-per-il-regolamento-dublino-scaleddi Maurizio Ambrosini 

L’accordo firmato a livello europeo su un nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo, e approvato dal Consiglio UE del 14 maggio 2024, è stato salutato dai protagonisti come una svolta storica. Dopo sette anni di tentativi e tre anni di negoziati sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, c’era bisogno di esibire un risultato concreto in vista delle elezioni europee del prossimo giugno. Il Patto si articola in dieci testi legislativi, raggruppati in cinque capitoli:

- Regolazione della selezione all’ingresso, mediante regole uniformi di identificazione di chi chiede di varcare i confini dell’UE;

- Regolazione Eurodac, con lo sviluppo di un database comune tra i paesi membri sui nuovi entranti;

- Regolazione delle procedure per l’asilo, con l’obiettivo di renderle più rapide ed efficaci;

- Regolazione della gestione della migrazione e dell’asilo, stabilendo un nuovo meccanismo di solidarietà tra gli Stati membri e regole chiare sulla responsabilità di gestione delle domande di asilo;

- Regolazione delle situazioni di crisi e di forza maggiore, facendo in modo che l’UE sia preparata in futuro a fronteggiare gli eventi imprevisti, “inclusa la strumentalizzazione dei migranti”.

Senza entrare nei dettagli, concentriamo l’attenzione su alcuni aspetti salienti. Uno, molto enfatizzato in Italia, è il parziale superamento della convenzione di Dublino, quella che obbliga lo Stato d’ingresso a farsi carico delle domande di asilo, con l’introduzione di una forma di solidarietà obbligatoria, con la redistribuzione dei profughi verso altri Paesi dell’UE «in caso di aumento improvviso degli arrivi»: una clausola che farà di certo discutere, e che rischia di mettere in crisi il progresso compiuto. I numeri sono comunque modesti: la redistribuzione dovrebbe partire con 30 mila posti all’anno, che diventerebbero 60 mila l’anno successivo, poi 90 mila, fino a 120 mila dal quarto anno in poi. Si tratta di una quota molto minoritaria delle persone che ogni anno presentano una domanda di asilo nell’UE, come vedremo in seguito. Per gli altri continuerà a essere applicata la convenzione di Dublino, ossia la responsabilità dello Stato di primo ingresso.

L’idea prevalente, e sostanzialmente adottata come sfondo del Patto, dipinge l’UE come assediata dai migranti, con l’Europa meridionale che subisce il peso maggiore della pressione migratoria. Tuttavia, nel discorso pubblico, i confini tra immigrati, richiedenti asilo e coloro che arrivano via mare sono confusi. L’etichetta di “ingressi irregolari” spesso avvolge questi individui nel sospetto, ignorando le situazioni che hanno alle spalle e le sfide che devono affrontare nel cercare rifugio dalle regioni devastate da guerre e conflitti di varia natura: in particolare, la mancanza di mezzi legali e di trasporti regolari per raggiungere il territorio dell’UE.

decisioni-positive-1024x576I dati resi disponibili per il 2023 da Eurostat aiutano a misurare la validità di queste argomentazioni. Si parla effettivamente di un aumento delle domande di primo asilo nell’Ue, che hanno superato nuovamente la soglia simbolica di un milione (1.049.000), con una crescita del 18% rispetto al 2022. Rispetto ai cinque milioni di ucraini arrivati ​​nel 2022, e in gran parte rimasti nell’UE, mai menzionati nella discussione, non sembra tuttavia un dato così enorme. Inoltre, il 17% proviene dall’America Latina, il 21% da Paesi esenti dall’obbligo del visto. Per esempio, venezuelani arrivati in Spagna in aereo. Se consideriamo che nel mondo, con i conflitti in corso, i rifugiati hanno certamente superato la cifra di 110 milioni (erano 108 milioni a fine 2022), forse dovremmo chiederci perché nell’UE ne sono arrivati ​​così pochi.

All’interno dell’Ue, non sembra poi che la distribuzione sia gravemente sbilanciata a carico dell’Europa mediterranea: quasi un terzo delle domande è stato presentato in Germania (329 mila), seguita dalla Spagna con 160.500 (qui pesa il caso venezuelano e altri arrivi dall’America Latina) e dalla Francia con 145.100. L’Italia è al quarto posto con 130.600 domande, un magro 12% del totale, e precede la Grecia (57.900). Le altre domande riguardano quasi sempre i Paesi del Centro-Nord dell’Europa. I Paesi dell’Europa meridionale complessivamente hanno accolto poco più di un terzo dei richiedenti asilo. L’Italia non è quindi il campo profughi d’Europa, senza contare che molti rifugiati cercano di raggiungere i Paesi interni dell’UE anche quando hanno chiesto asilo nei Paesi del Sud, intraprendendo quelle “seconde migrazioni” che tanto dispiacciono ai nostri partner transalpini.

Inoltre, come già preannunciato dalle bozze circolate in precedenza, i governi che non vogliono accogliere richiedenti asilo sul loro territorio disporranno di un’alternativa: versare una somma di 20 mila euro per ogni persona rifiutata. Sembra una compensazione piuttosto blanda, ma il governo ungherese (e in precedenza anche quello polacco) ha recisamente rifiutato questa possibilità. Sul versante italiano, il ministro Piantedosi ha dichiarato di non voler accettare contributi in denaro in cambio dell’accoglienza dei profughi, anzi ha spiegato che un grande Paese come l’Italia non ne ha bisogno. In nome dell’orgoglio nazionale, ha rinunciato all’argomento dei costi dell’accoglienza, solitamente uno dei più sbandierati, come motivo per la chiusura ai rifugiati.

L’accordo va però incontro alle aspettative dei Paesi interni dell’UE prolungando da 12 a 20 mesi il blocco dei profughi nei Paesi di primo arrivo, fatta eccezione per le persone salvate in mare (per cui rimane a 12 mesi) e introducendo procedure semplificate per rimandare i richiedenti asilo che varcano i confini interni dell’UE verso il Paese di primo ingresso: Bruxelles intende contrastare più efficacemente le “seconde migrazioni” e accrescere il numero dei dublinati, ossia i profughi rimbalzati indietro dopo aver cercato d’insediarsi in un altro Paese europeo. Fa parte di questo disegno il prelievo dei dati biometrici anche sui bambini, a partire dai sei anni di età, contro i 14 attuali: ufficialmente per proteggerli, ma più verosimilmente per poterli più facilmente rimandare nel Paese d’arrivo. Questa è la parte dell’accordo che sta più a cuore ai nostri partner euro-settentrionali.

eindyxtwoaas3yaI maggiori sforzi si sono concentrati però sulla restrizione degli ingressi, della possibilità di ottenere asilo o comunque di rimanere nell’UE. Anzitutto si procederà all’unificazione delle procedure per la presentazione e la valutazione delle domande di asilo, in luogo delle procedure nazionali finora vigenti. I profughi arrivati nell’UE saranno trattenuti per sette giorni in appositi centri d’identificazione ai confini, al fine di accertarne l’identità e sottoporli a controlli medici e di sicurezza. L’ASGI (Associazione Studi Giuridici sulla Immigrazione) ha stigmatizzato al riguardo il fatto di aver introdotto “la finzione giuridica di non ingresso”, configurando le zone di frontiera come aree extra-territoriali, istituendo zone grigie dal punto di vista giuridico e rischiando di escludere i profughi da una tutela effettiva dei loro diritti. Inoltre, trattenere forzatamente i profughi entrati spontaneamente sul territorio, via terra o via mare, significa privare inutilmente della libertà persone spesso vulnerabili e bisognose di protezione.

Il trattenimento ai confini è finalizzato soprattutto a rendere operativo un più severo vaglio delle domande di asilo e un più rapido rimpatrio delle persone diniegate. Così almeno sperano i responsabili europei e nazionali. Verrà infatti introdotta una procedura accelerata per l’esame delle domande, basata su una lista di Paesi considerati sicuri, perché meno del 20% delle richieste d’asilo di profughi provenienti da quei paesi sono state in precedenza accettate.  I profughi originari di un paese della lista vedranno esaminata la propria domanda di asilo in tempi ridotti a 12 settimane, e potranno nel frattempo essere detenuti. Si pensa evidentemente che si tratti di domande infondate, destinate al respingimento, a cui dovrebbe seguire (in teoria) in tempi brevi il ritorno forzato nel Paese di origine.

Sono previsti a questo scopo altri tre mesi di detenzione.  Anche su questa disposizione ASGI ha richiamato l’attenzione, denunciando un sistema «non solo repressivo ma anche discriminatorio sulla base della nazionalità». Il trattenimento in frontiera oltre le 12 settimane, in attesa del rimpatrio, significa inoltre «accanirsi nella violazione del diritto alla libertà personale», esponendo le persone migranti al rischio di refoulement, ossia di espulsione verso Paesi in cui la loro sicurezza e integrità personale sarebbero a rischio. Per fornire un esempio, l’Italia ha inserito nella lista dei Paesi sicuri non solo l’Egitto e la Tunisia, ma anche il Bangladesh e la Nigeria sotto attacco degli insorti islamisti di Boko Haram.

Va aggiunto che l’accelerazione dei tempi di valutazione delle domande non richiede solo norme più agili, ma una dotazione di personale adeguata, ossia investimenti di risorse da parte dei governi. Così come i rimpatri richiedono accordi con i Paesi di origine, che vanno definiti, finanziati e resi operativi.

L’obiettivo di una maggiore efficacia nell’espulsione dei profughi sgraditi viene inoltre perseguito mediante un’altra disposizione, di cui il governo italiano si è intestato la paternità: la possibilità di espellere i richiedenti asilo diniegati non verso il loro Paese di origine, ma eventualmente anche verso un Paese con cui abbiano comunque dei “ragionevoli legami”, per il fatto per esempio di esservi transitato. Si apre così la strada a respingimenti verso Paesi del Nord Africa come Libia e Tunisia, esponendo le persone coinvolte a violenze, vessazioni, violazioni dei diritti fondamentali.

La richiesta di disporre espulsioni anche verso Paesi terzi è stata ribadita poche settimane dopo la firma del Patto da un nutrito gruppo di governi dell’UE, tra cui quello italiano. I rimpatri sono diventati una sorta di ossessione per parecchi governi. Si rendono conto che le loro promesse di contrasto all’immigrazione indesiderata s’infrangono contro la bassa capacità di allontanare i migranti colpiti da ordini di espulsione: in Italia, appena 4.304 nel 2022. Ciò che i governi non dicono è che sono parecchi i fattori in gioco: la difficoltà d’identificare con precisione gli interessati e il loro Paese di origine, la scarsa o nulla collaborazione di molti di questi Paesi, le situazioni di pericolo, di negazione di diritti fondamentali, di miseria a cui andrebbero incontro, nonché gli alti costi di trattenimento e deportazione. Espellere delle persone, tanto più verso luoghi lontani come la Cina o l’America Latina, con relativa scorta di polizia, costa migliaia di euro, sottratti ad altri impieghi forse più importanti per i cittadini.

65af1e8cfaa741be2c79cee2d4736aa2-jpgEcco allora il tentativo di rispondere al problema con pseudo-soluzioni come quella di scaricare su Paesi terzi i migranti che si vorrebbero deportare, quando non si è in grado di rimpatriarli. Chi abbia un minimo di sensibilità verso i diritti umani dovrebbe domandarsi che senso ha spedire una persona in un Paese con cui non ha nessun rapporto, di cui non conosce la lingua, in cui non saprebbe come procurarsi da vivere. Forse, come nel caso dell’accordo britannico con il Ruanda o di quello italiano con l’Albania, la tenue aspettativa è quella di esercitare un effetto di deterrenza sui partenti. Più probabilmente, di far credere all’opinione pubblica di avere a portata di mano la soluzione del problema, esibendo determinazione e persino cattiveria.

Al di là di queste disposizioni, il patto insiste sulla collaborazione con i governi dei Paesi di origine e di transito: quella che tecnicamente si chiama dimensione esterna delle politiche migratorie. Gli obiettivi dichiarati sono cinque: sostenere i Paesi che ospitano rifugiati e comunità di accoglienza; creare opportunità economiche vicino a casa, in particolare per i giovani; lottare contro il traffico di migranti; migliorare il rimpatrio e la riammissione, intensificare i rimpatri volontari e contribuire al reinserimento; sviluppare canali regolamentati per la migrazione legale.

Il linguaggio è molto accorto, ma la visione politica sottostante è chiara: l’UE intende operare per trattenere i profughi nei Paesi di transito, finanziando l’accoglienza; meglio ancora, per promuovere lo sviluppo dei Paesi di origine, ignorando le evidenze sui nessi tra la prima fase di un processo di sviluppo e l’aumento delle partenze. Insiste sui rimpatri, volontari e forzati, e sul reinserimento in patria. Rilancia la criminalizzazione dei trasportatori, assemblati sotto l’etichetta di trafficanti, nascondendo il fatto che per chi fugge da Paesi in via di sviluppo non vi sono alternative: la lotta ai trafficanti è in realtà una lotta contro i rifugiati. In cambio, le istituzioni europee e i governi nazionali offrono una cauta apertura agli ingressi per lavoro, ma è assai dubbio che possa riguardare Paesi in guerra o soffocati da regimi oppressivi e nemici dell’Occidente, come Siria, Afghanistan, Sudan.

Ursula von der Leyen, nel discorso in dieci punti tenuto in occasione della sua visita a Lampedusa, aveva d’altronde espresso senza reticenza la linea della Commissione da lei presieduta. Oltre a maggiori trasferimenti dei rifugiati verso altri Paesi europei, più rimpatri, più lotta ai trafficanti, più sorveglianza navale e aerea, distruzione delle imbarcazioni utilizzate nelle traversate, accelerazione delle procedure per l’esame delle domande di asilo, offerta di (alcuni) percorsi legali d’ingresso, prevenzione degli arrivi mediante l’attuazione di accordi come quello con la Tunisia, esplicitamente citato nell’occasione. Non stupisce che Giorgia Meloni si sia dichiarata d’accordo, e abbia potuto sostenere che Bruxelles si è allineata con le sue posizioni.

arton26062Nel complesso, sul patto e sulla narrazione che lo sostiene aleggia un grande equivoco. Si confondono i richiedenti asilo, che arrivano come possono, via mare e via terra, con gli immigrati irregolari. L’immigrazione irregolare, a differenza dei richiedenti asilo che vengono registrati e conteggiati, rappresenta una sfida più sfuggente. Si entra attraverso vari canali, tra cui permessi turistici, per studio, o per visite ai parenti. Spesso senza neppure avere bisogno di un visto, da molti Paesi dell’Europa Orientale e dell’America Latina. Rendendo la vita più difficile ai richiedenti asilo, obbligandoli a viaggi più lunghi, più costosi e più rischiosi, si vuole far credere all’opinione pubblica che si sta contrastando l’immigrazione irregolare, ma in realtà si tratta di una sostituzione dell’obiettivo: si colpisce chi cerca asilo facendo credere di contrastare l’immigrazione irregolare.

La narrazione che circonda il Patto sull’immigrazione e l’asilo è resa ancora più confusa dalle manovre politiche. Sebbene acclamato, più o meno apertamente, come uno strumento per disarmare le forze sovraniste, le sue soluzioni sono in gran parte in linea con le loro richieste, promuovendo una visione distorta dell’asilo e dando priorità ai rimpatri forzati: quella dei ritorni è una vera ossessione degli estensori del Patto, vista la frequenza con cui il termine ricorre (oltre 90 volte nella versione inglese dello scorso settembre) e le puntigliose prescrizioni introdotte.

In realtà, la sovranità condivisa nella gestione delle frontiere dovrebbe riguardare il raggiungimento di una migliore governance dei diversi tipi di migrazione e il rispetto dei principi umanitari. Dovrebbe rappresentare uno sforzo collettivo per affrontare le complessità dell’immigrazione garantendo al tempo stesso la protezione dei diritti umani per tutti. Al contrario, la sovranità condivisa nel Nuovo Patto appare una condivisione degli sforzi per respingere l’immigrazione povera e indesiderata. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024

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Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano, insegna da diversi anni anche nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova e dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Autore di diversi studi, ha pubblicato recentemente L’invasione immaginaria (Laterza 2020) e Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e Pensiero, 2020).

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