Barbiana e il Sessantotto
Di Lorenzo Milani si parla molto da alcuni anni, e molto se ne è parlato in questo 2023, centenario della sua nascita. Alcune opere recenti hanno cercato di uscire dall’alternativa polemica che questo controverso personaggio sembra costantemente suscitare: l’alternativa tra chi ne dà una lettura semplicemente agiografica e chi ne fa addirittura il responsabile dei principali attuali problemi della scuola, specie di quella italiana. Emerge invece finalmente una considerazione storicizzante, che deve però fare i conti con il groviglio di tensioni e contraddizioni che si manifestano nel pensiero e nelle opere (nel senso più ampio di questo termine, che non include solo gli scritti) di Don Milani, e soprattutto nelle sue eredità, per meglio dire negli usi che ne son stati fatti. Il problema di come capire Don Milani implica oggi il ripercorrere a ritroso quegli usi, chiedersi come il suo “mito” sia stato costruito, in positivo e in negativo, in diverse stagioni; solo con la piena consapevolezza di questi filtri è possibile tornare per così dire all’originale, interrogarsi su chi era veramente questo prete scorbutico, populista, arrogante, geniale, eroico.
Qualche anno fa Vanessa Roghi, in La lettera sovversiva, aveva ricostruito in modo appassionato e rigoroso la ricezione di Lettera a una professoressa nel contesto del movimento del Sessantotto. Già dalla morte di don Lorenzo, il 27 giugno 1967, i necrologi fanno scorgere «i caratteri entro i quali verrà letto negli anni a venire; il santo, il martire, il rivoluzionario, ma anche il cattivo maestro» [1]. Gli studenti del Sessantotto, in particolare, colgono nel suo messaggio l’elemento antiautoritario; il carattere “cinese”, in riferimento alla rivoluzione culturale, alla polemica antiintellettuale e contraria a ogni forma di delega rappresentativa, e anche a una certa violenza del classismo e degli attacchi alla borghesia; e ancora, l’aspetto antimodernista e di denuncia del consumismo. Ma nel complesso, il movimento portava Don Milani verso direzioni che non sarebbero state certamente le sue. Vi sono pochi dubbi che, se fosse vissuto, avrebbe interpretato il Sessantotto come una rivoluzione borghese: un po’ come Pasolini, che tuttavia era più consapevole di appartenere a quella borghesia e non tentava, se non sul piano estetico, di liberarsi dal suo “destino” borghese, mentre don Lorenzo lo faceva con tutta la drammatica serietà di un santo, appunto, mettendo in gioco l’intera sua vita.
Come osservava Giacomo Devoto in pieno Sessantotto, «Don Milani rovesciò tutta una tradizione familiare, rese irriconoscibile la sua ascendenza, in tutto salvo in un particolare: la singolare natura di minoranza, di eccezione. Nonostante la volontà di cancellazione e trasformazione, non seppe ridursi all’anonimato di un prete di campagna purchessia. Non seppe nemmeno rinunciare a giudicare. Se il giudizio fu tante volte perentorio, è perché un’aristocrazia intellettuale si è immersa, ma non annullata, in un’aristocrazia morale» [2]. Roghi cita Franco Fortini come uno dei primi a rendersi conto del carattere non politico di Lettera a una professoressa: libro nel quale «c’è una precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e una letteratura. Non una politica» [3].
L’unica cosa su cui tutti sono oggi d’accordo è che don Lorenzo era un grande scrittore, come dimostra la pubblicazione del Meridiano che raccoglie la sua intera opera [4]. Ad esempio, la sua capacità di far interagire un registro “popolare”, con l’uso di toscanismi e persino di “volgarità”, con toni “alti” ed esplicitamente letterari è stupefacente (e si manifesta in particolare nelle lettere private, con la loro impostazione spesso provocatoria). Ma proprio questa capacità stilistico-retorica ci mette in guardia dal leggere in modo immediatamente “realistico” il suo lavoro, e spinge a porsi il problema di come capire il suo rapporto con il “popolo”, che da un lato è fondato su una immediata testimonianza di vita, dall’altro è costruito all’interno dei testi. Fra l’altro, la riflessione su Don Milani scrittore rende difficile credere al punto su cui lui ha insistito fino in punto di morte, cioè che la Lettera l’avessero scritta davvero i ragazzi. Enriques Agnoletti racconta delle sue ultime parole, quando non poteva quasi più parlare: «l’ultima raccomandazione, fattami dire da chi, accanto a lui, aveva voce per lui: scrivi che il libro l’hanno fatto i ragazzi, non si dica ancora una volta che è stato don Milani a scriverlo perché non è vero» [5].
Che il libro l’avessero scritto i ragazzi faceva parte del suo fascino: i subalterni che finalmente prendono direttamente la parola. Ma è un po’ difficile crederci. Che le tematiche siano state discusse in classe, che dalla discussione collettiva siano emersi argomenti importanti, che i ragazzi abbiano imparato a elaborare statistiche e grafici, d’accordo: ma come pensare che la redazione non sia di mano di don Lorenzo, che la sua dunque non sia una autorialità in senso stretto? Non tanto o non solo perché è scritto troppo bene e i ragazzi non avrebbero saputo scrivere così: ma perché i tratti stilistici e la retorica del priore emergono con immediata evidenza. Si manifesta così il dispositivo “populista” che sta al centro della sua opera (espressione che Roghi stessa utilizza, commentando Fortini; anche se poi prende implicitamente le distanze da «un giudizio di populismo nei confronti della Lettera che accomuna la sinistra degli anni Settanta e alcuni studiosi contemporanei, come Scotto di Luzio» [6]). Il tentativo di “dare voce ai subalterni”, che tanti altri di quella generazione (o di quella precedente) hanno posto al centro dei propri percorsi intellettuali, da Ernesto de Martino a Nuto Revelli a Pier Paolo Pasolini, viene risolto da Don Milani non attraverso una investitura di rappresentanza (parlare in nome di), e neppure attraverso trucchi di ventriloquismo, ma attraverso una “fusione” con il “popolo” che si opera attraverso il dispositivo del “fare scuola”.
Due prospettive su cosa significa “scuola progressista”
Tornerò fra un attimo su questo punto, che riveste per me grande interesse antropologico. Buona parte della riflessione sulla cultura popolare nella seconda metà del Novecento (che è stata al centro della tradizione antropologica italiana) è legata al problema di come rappresentare la voce del popolo, visto che a rigore “il subalterno non può parlare”. Intanto però osserverei che per Vanessa Roghi districare Don Milani dalle interpretazioni, peraltro divergenti, della stagione sessantottesca è un passo cruciale per tornare oggi non solo a leggerlo ma a farne l’ispiratore di una intera concezione della scuola: quella che la pone in relazione ai problemi della giustizia sociale. La “scoperta” della Lettera a una professoressa riguardava essenzialmente il fatto che la scuola riproduce le differenze di classe, mentre pretenderebbe di presentarsi come un dispositivo neutrale di livellamento sociale. È un tema che circola largamente nella sociologia degli anni Sessanta, ad esempio con i celebrati studi di Bourdieu e Passeron [7], che individuano una forma specifica di “violenza simbolica” classista al cuore dell’istituzione scolastica.
Quindi, il problema è cambiare la scuola in modo da farla diventare strumento di livellamento e di riduzione della forbice sociale, piuttosto che della sua riproduzione e persino del suo ampliamento. Un problema che esiste oggi come ai tempi di Barbiana, anche se in rapporto a una diversa composizione sociale. Da qui le polemiche contro il “merito” come concetto-guida dell’educazione. Per quanto lo si presenti come oggettivo, si sostiene, il “merito” non lo è mai, è una forma di selezione che conferma e amplifica la disuguaglianza. Anzi, l’ideologia del merito crea il vero problema – oggi come negli anni Sessanta – della scuola: cioè produce abbandono, dispersione scolastica, esclusione sociale. Il problema di una scuola democratica è evitare per quanto possibile questi ultimi fenomeni, “includere” dunque, “recuperare”, certamente non bocciare, e questo lo si può fare oggi più che mai nel segno di Don Milani.
Questa è la visione “progressista”. Bene, ha molte ragioni dalla sua parte, soprattutto in relazione alla scuola elementare o al massimo alla fase dell’obbligo. C’è però un altro punto di vista fra chi si occupa di scuola, che non è “conservatore” o “antidemocratico”, e neppure necessariamente meno progressista – soprattutto se si applica all’educazione superiore e a quella universitaria. Questa prospettiva sostiene che la scuola serve a istruire e a costruire un ceto dirigente, e non è in sé uno strumento di perequazione sociale; o almeno, non si possono far poggiare sulla scuola le legittime esigenze della “giustizia sociale”, e sugli insegnanti le aspettative di un ruolo da “social justice warriors”. Una scuola che rinuncia a selezionare sulla base del merito non solo perde parte della sua capacità formativa (come dimostrano i risultati disastrosi delle misurazioni Invalsi, ma come soprattutto dimostra l’esperienza diretta di chi ci lavora, riguardo soprattutto le competenze di base come quelle linguistiche e matematiche); ma, ciò che conta ancora di più, perde la funzione di dispositivo di mobilità sociale che ha sempre svolto, almeno nell’epoca contemporanea della istruzione di massa gratuita e aperta a tutti.
Per molti decenni, nel secondo dopoguerra, il merito scolastico è stato il principale, forse l’unico strumento di promozione sociale per le classi contadine e operaie, o per l’accesso a professioni più qualificate di quelle dei genitori per vaste porzioni di ceti medio-bassi – e questo malgrado l’indubbio vantaggio con cui i figli delle classi con alto capitale economico e culturale partivano nella competizione scolastica. Togliere questa funzione alla scuola in nome della “inclusione” è dunque tutt’altro che “progressista”: significa svalutare titoli di studio e successo scolastico, e rimandare le opportunità di costruzione di carriere e ruoli sociali soltanto alle condizioni di nascita, all’influenza degli ambienti di appartenenza. Quando il diploma o la laurea non contano più nulla perché tanto non li si nega a nessuno, e tutti sanno che non garantiscono competenze di nessun tipo, sarà solo con le conoscenze familiari che si troverà un buon lavoro, un ingresso nei posti giusti etc. E se Gianni diventasse più bravo di Pierino (cosa che per Don Milani sembra impossibile, ma non lo è affatto: è solo meno probabile), sarebbe comunque Pierino a emergere fuori dalla scuola (dunque la probabilità, per quanto minore, si trasforma in impossibilità). Con l’effetto di un impoverimento della classe dirigente, oltre che della creazione di risentimento e insoddisfazione in vasti segmenti costretti alla sottoccupazione intellettuale.
Detto per inciso, trovo un vero peccato che queste due prospettive non dialoghino fra loro, ma si accusino spesso a vicenda come nemiche giurate: i progressisti considerano i sostenitori di un ritorno al merito e a una didattica delle discipline come reazionari, classisti, difensori dei privilegi di pochi; questi ultimi considerano i progressisti come imbevuti di ideologia – al più, anime belle che nel loro irrealismo rischiano di distruggere quel che ancora resta di positivo nella scuola. È un peccato perché, in fondo, entrambe sono posizioni di difesa della scuola pubblica e di fiducia in essa, e mediare fra le rispettive esigenze non è poi così impossibile (specie se, come dicevo, si distingue fra i problemi della scuola di base e quelli dell’istruzione superiore): e soprattutto mi pare chiaro quale sia il nemico comune, vale a dire le tendenze antiscolastiche e antiintellettualiste che percorrono a vari livelli la società, che consentono i recuperi a pagamento del tipo “tre anni in uno”, e che trovano la loro massima espressione in quel vero e proprio scandalo che sono oggi le università telematiche. Ma qui si aprirebbero questioni diverse.
In ogni caso, in questo contrasto la figura di Don Milani gioca un ruolo cruciale. E trovo interessante che uno storico della scuola italiana che propende per la seconda posizione (quella che i progressisti considerano conservatrice ma che secondo me non lo è, non necessariamente almeno), Adolfo Scotto Di Luzio, abbia di recente pubblicato un volume proprio sulla figura del priore di Barbiana [8]. Il titolo, L’equivoco Don Milani, indica anche in questo caso l’intenzione di esaminare i “filtri” attraverso i quali la Lettera a una professoressa è giunta a noi, storicizzandoli a loro volta e sottraendoci alle rispettive mitologie. Il Sessantotto, certamente: e l’autore è ancora più netto nel sottolineare come il movimento studentesco abbia largamente frainteso Don Milani, il quale era tutt’altro che lontano da maniere autoritarie, persino manesche, nei confronti dei suoi allievi, così come non intendeva affatto mettere in discussione l’autorità della Chiesa, e concepiva l’educazione soprattutto come strumento necessario per trasmettere il Vangelo, cioè una verità rivelata. Ma per Scotto Di Luzio nella cultura italiana c’è stato un altro momento di “uso” o riplasmazione di Don Milani – un “secondo tempo” del suo mito: quello degli anni Novanta, con la riconfigurazione del quadro politico dopo la Guerra Fredda e la fine della Prima Repubblica. Questo contesto necessitava di basi culturali per una nuova alleanza tra ampie componenti dell’ex PCI e la ex-sinistra democristiana, tra comunisti e cattolici che erano stati fino ad allora su fronti ideologici diversissimi e quasi incomunicanti. Don Milani ha rappresentato una parte importante dei nuovi riferimenti comuni – depurato però dal radicalismo dei decenni precedenti e posto a emblema di un nuovo riformismo moderato e progressista: «il richiamo rituale a Barbiana è sempre stato un elemento costitutivo dell’alleanza» [9].
Sul piano scolastico, questa fase è rappresentata ad esempio dalla figura di Tullio De Mauro, che, non da ultimo nella sua funzione di ministro, ha promosso un forte cambiamento in senso “democratico”, con riforme basate sull’autonomia e sul rapporto con il mercato del lavoro. Tutto ben poco milaniano, secondo l’autore, e con risultati discutibili, perché la vecchia scuola delle discipline sarebbe stata demolita per sostituirla con qualcosa di troppo “pedagogico”, poco chiaro e poco funzionale. In particolare, Scotto di Luzio discute a fondo il problema dell’educazione linguistica, dove gli orientamenti “democratici” hanno smantellato i modelli “escludenti” della lingua alta e letteraria, trascurando però il ruolo che storicamente essi hanno avuto nella costruzione dell’unità culturale del Paese, e comunque senza la capacità di sostituirli con più efficienti sistemi di apprendimento. A me pare che il fallimento dei progetti di formazione linguistica nella scuola secondaria sia oggi palese, e ne ho discusso qualche tempo fa proprio su Dialoghi Mediterranei [10]; anche se non credo certo che la colpa sia da attribuire a chi ha cercato di svecchiare i modelli di insegnamento, e di costruire una didattica dell’italiano scritto non solamente centrata sul “tema”.
Ma non è questo il punto che mi interessa approfondire del libro di Scotto di Luzio. L’autore dedica pagine molto interessanti alla questione già sopra accennata, vale a dire il modo in cui Don Milani costruisce un concetto di popolo e definisce in base ad esso la propria posizione o la propria “voce”. Seguiamone gli argomenti. Intanto, per l’autore Don Milani assumeva una categoria idealizzata di “poveri” come soggetti della propria attività pastorale e della propria scuola. Non parlava di classi sociali, di subalternità, di condizioni sociali (con la variabilità storica che tali concetti implicherebbero), ma di poveri: una categoria antropologica compatta, priva di differenziazioni interne. Certo, la situazione della montagna, con il massimo livello di isolamento e di arretratezza, favoriva questa estremizzazione: sta di fatto che ci presentava una realtà sociale dicotomica. C’erano i borghesi e c’erano i poveri, e niente nel mezzo, non un mondo in movimento fatto di segmenti intermedi e di aspirazioni alla promozione. Questi due mondi sociali entrano in contatto solo attraverso la violenza (reale o simbolica) del primo sul secondo, di cui è emblema la professoressa che boccia, o il padrone che truffa il contadino approfittando del fatto che non sa parlare; oppure attraverso la santità del prete che si sente (lo ripete spesso) una specie di missionario.
I “suoi” poveri, scrive Scotto Di Luzio, «erano belli proprio perché poveri e finché restavano tali, secondo un modulo tipico del rapporto che storicamente i ceti colti italiani hanno instaurato con il mondo contadino. Il povero custodiva valori e immagini che la modernizzazione del Paese stava travolgendo» (2.3). Il peggior peccato del popolo era voler assomigliare al borghese, superando i limiti della sua condizione. Don Milani si indignava di fronte ai sintomi di consumismo dei suoi parrocchiani, con un atteggiamento morale ed estetico non dissimile da quello di Pasolini. Sarà pur vero che Esperienze pastorali si caratterizza per uno sguardo etnografico: e tuttavia non c’era in Don Milani alcuna pietas antropologica verso le pratiche culturali dei parrocchiani. Non riusciva a capire perché investissero il loro poco denaro in comportamenti simbolici (i riti matrimoniali, ad esempio) che pure sostenevano la loro socialità: quasi che per loro il “simbolico” o la vita spirituale dovesse consistere esclusivamente nella religione formalizzata. Ne risulta «un piccolo repertorio dell’indignazione dell’uomo colto di fronte alla diffusione del consumismo tra i ceti subalterni» – con il fine di «restaurare l’immagine del povero nella pienezza della integrità morale ed estetica della sua figura» (2.4). La scuola serve proprio a “salvare” i ragazzi dalla socializzazione primaria, interrompendone la continuità.
Gli alunni sono per Don Milani come monaci che vanno separati dal loro ambiente di vita, per sottrarli «alla pressione uniformante dei linguaggi di massa» (4.1) e ai meccanismi dell’egemonia borghese. Scandalizzare quella borghesia di cui lui stesso faceva parte è la finalità principale e costantemente presente in Don Milani (e questa è forse la più profonda saldatura con il Sessantotto): «sbattere sul muso di tutto quel mondo di persone colte e perbene tra cui si era consumata la sua giovinezza l’irriducibile alterità della vita popolare. Mettere il borghese dinanzi alla sua irredimibile ipocrisia» (2.6). C’è dunque una rottura nettissima sia con la tradizione liberale, per la quale l’istruzione dei ceti popolari era un passo cruciale per la loro trasformazione in cittadini, cementando l’unità attraverso una lingua e una cultura nazionali; ma anche con la tradizione marxista rappresentata fra gli altri da Gramsci, che vedeva nella conquista degli strumenti culturali da parte del proletariato un passo emancipativo necessario per la conquista dell’egemonia. Ma per Don Milani «l’istruzione in nessun caso doveva servire a fare del contadino un’imitazione del borghese». Il problema non era per lui consentire ai poveri di accedere alla cultura dei ricchi, ma contestare quella cultura borghese in sé. Osserva Scotto di Luzio che «ogni parola per Don Milani è parola di Dio e perciò stesso il sapere di cui la parola è espressione non può che esser sapere di Dio e a Dio appartiene. Non si dà dunque insegnamento che non sia insegnamento della Verità. “Ciò che mi distingue dai liberali – scrive a Giorgio Pecorini – è che io parto sapendo già la Verità, loro partono in quarta contro quelli che sanno già la Verità”» (4.1).
Perché un prete?
Vi sarebbe insomma una potente poetica neoromantica dietro l’idea milaniana della scuola popolare. L’intellettuale borghese che si abbevera alle fonti autentiche di un’essenza popolare che, proprio in quanto “primitiva”, irriflessa, precedente al lavoro del linguaggio e della cultura e dunque alle influenze egemoniche, è più vicina alla Verità. Ecco il principale equivoco rispetto ai suoi usi attuali, e la più profonda differenza fra Barbiana e altre esperienze di educazione democratica, come quelle di Mario Lodi e dell’MCE. Il prete che fa scuola popolare non è per don Lorenzo l’intellettuale che mette le sue risorse a disposizione dei ceti subalterni, non importa se per integrarli (liberalismo) o per renderli soggetto rivoluzionario (marxismo): è piuttosto lo specchio che consente ai “poveri”, al popolo in un senso ontologico del termine, diciamo, di cogliere la propria essenza di radicale alterità rispetto al mondo borghese, di capirne l’irriducibilità e anche la superiorità, nel senso di maggiore prossimità al Vero. L’accusa alla “Professoressa” non riguarda solo un certo tipo di insegnante, che potrebbe esser sostituito da uno più “democratico” ma «costituisce una revoca generalizzata della delega ai rappresentanti della classe dominante perché insegnino ai poveri» (4.3).
Tutta la polemica della Lettera sugli aspetti inutili della cultura scolastica borghese, sulla letteratura come sullo sport, su Omero come su Dante, e invece il richiamo alla solida e pratica conoscenza del mondo naturale da parte dei figli dei contadini, all’esperienza quotidiana, a ciò che è utile alla vita, vanno letti in questa chiave. «Il povero farà da solo, diventando il maestro di se stesso» (5.1); il povero deve «assumere su di sé le condizioni della propria educazione, strappando di mano ai rappresentanti della cultura ufficiale il potere di stabilire chi è adatto e chi no» (5.3). L’unico strumento che non può fare a meno di acquisire dalla cultura ufficiale è quello linguistico, che deve conquistare per volgerlo però a finalità totalmente diverse. Le polemiche su Dante e Omero («Tre anni su brutte traduzioni di poemi antichi (Iliade, Odissea, Eneide). Tre anni su Dante. Neanche un minuto solo sul Vangelo» [11]), sul format del tema («Parlano le carrozze ferroviarie»), sulla matematica e sul latino etc. colgono nel segno, in quegli anni di impetuose trasformazioni, perché evidenziano una sclerotizzazione dei riferimenti, una formalizzazione quasi ritualizzata ma proprio per questo vuota dei modelli culturali. Ma per Don Milani non si trattava affatto di sostituire i vuoti simulacri con una cultura più vera e attuale, eppur sempre “borghese”. Ciò che lui rifiutava era l’idea di una scuola e di una cultura laica che si assumesse «funzioni etiche generali» (5.3), cioè il compito di costruire una visione del mondo, un insieme di valori morali, di racconti e di miti esemplari etc.: perché queste funzioni dovevano essere riservate all’educazione religiosa, al Vangelo.
Questo è un punto cruciale che distanzia sideralmente Don Milani dai sostenitori della scuola democratica e progressista. Il suo obiettivo non era quello, “democratico” (liberale ma anche socialista, come ripeto) del rendere accessibile la cultura a tutti e non solo a pochi privilegiati, e in questo modo emancipare le classi subalterne, e dar loro accesso a posizioni “dirigenti”. Al contrario, per lui «bisognava innanzitutto impedire che il popolo, il suo popolo, venisse contaminato dalla cultura borghese», espropriandolo dunque della «possibilità di farsi esso stesso classe dirigente» (5.9, 6.2). Ma in questo modo, «confinato nella dimensione di oggetto di un racconto scritto da altri, il povero che è stato liberato dal giogo dell’istruzione formale resta anche escluso dall’accesso a qualsiasi capacità di orchestrare il linguaggio in funzione di un efficace progetto comunicativo. Di fatto resta escluso dall’accesso alla compiuta comprensione di sé come soggetto» (8.5).
Insomma, in Lettera a una professoressa si esprime un potente mito soteriologico, che pone la scuola al centro ma non ha in realtà molto a che fare con le istanze riformiste e “positive” del progressismo pedagogico, e neppure con quelle di un marxismo gramsciano volto alla conquista dell’egemonia da parte dei ceti subalterni: anche se certamente la forza polemica del discorso di Don Milani, la sua potenza retorica, diciamo, ha nutrito entrambe queste tradizioni, e continua a farlo, con il rischio però di enormi equivoci (si pensi ad esempio alla persistente convinzione che una scuola democratica debba restare aderente ai contenuti dell’esperienza quotidiana degli alunni: cosa che al massimo può rappresentare un metodo di apprendimento, sempre che si creda in un ingenuo induttivismo). In questa chiave, Don Milani può esser letto nel quadro di un filone di intellettuali che hanno cercato di “dar voce” a un popolo che non poteva “parlare” per la sua posizione subalterna. Si potrebbe dire “populisti”, se questo termine non fosse compromesso dall’uso che ne ha fatto Asor Rosa [12] (tutto basato sul contrasto fra la vera natura del popolo-classe e le rappresentazioni fuorvianti che ne hanno dato gli scrittori – visione tanto poco autoriflessiva da non rendersi conto di quanto populista e antistorica sia proprio l’assunzione di un tale contrasto).
È un capitolo della storia della demologia italiana che va ancora ricostruito, e che si articola attorno alle contraddizioni del “prendere la parola” per il popolo, tra istanze di solidarietà e identificazione con esso e forme di una sua costruzione retorica, stilistica, politica come soggetto “altro”. In Don Milani resta in particolare forte l’idea di una peculiarità irriducibile del popolo – e insieme di una sua “sacralità” che non si può più trovare né tra i ceti borghesi né in quella cultura di massa che cerca di colonizzare gruppi sempre più ampi: per cui la “punizione” del confinamento a Barbiana si trasforma nel privilegio di poter lavorare con un popolo ancora non contaminato. Una posizione che a me pare contrapposta a quella di Gramsci, che nel mettere a fuoco l’esistenza di una cultura “subalterna” (non dei “poveri” in una dicotomica contrapposizione ai “ricchi”) non ne faceva affatto una realtà antropologica separata, e anzi tentava di coglierne le sfumature interne e soprattutto i costanti e storicamente mutevoli rapporti che la legano alla cultura egemonica: anzi, per esser più precisi, cercava di mostrare come il “subalterno” si costituisse (anche qui, in modi diversi secondo i contesti storici) all’interno dei processi di egemonia culturale [13]. Tornando al Sessantotto, non è davvero un caso che Don Milani abbia fatto breccia nelle sue componenti più decisamente antigramsciane e antistoriciste, quelle forme di “teologia politica” fondate sull’individuazione di un soggetto rivoluzionario assoluto (di cui occorre preservare le potenzialità conflittuali proteggendolo dalle contaminazioni “riformiste”).
Questo può forse aiutare a rispondere alla domanda che Scotto Di Luzio pone nella sua essenzialità: perché un prete? Cioè, «perché nel punto più alto (e intenso) della modernizzazione delle strutture sociali e culturali del nostro Paese, il massimo di attese in senso democratico riguardo alla scuola vengono riversate su un uomo che la scuola pubblica detestava e aveva accettato di vivere lontano da ogni cosa, nei confini di una comunità di montagna povera e marginale?» (ivi: 120). «È singolare – continua l’autore – che un Paese alla disperata ricerca di modelli pedagogici imparasse a trattare la sua unica istituzione educativa, quella grazie alla quale milioni di italiani stavano a fatica conquistando le sponde della cultura moderna, nei termini di un linguaggio che non solo le era estraneo (non è certo alla Chiesa che l’Italia deve la scuola come sistema di istruzione universale), ma a essa esplicitamente ostile» (8.2). Forse la domanda andrebbe riformulata: non è “l’Italia” intera che assume Barbiana come paradigma: negli anni Settanta e oltre quei “milioni di italiani”, di operai e di contadini, continuano a proiettare sulla scuola le loro aspettative di mobilità sociale, fanno di tutto per far studiare i figli e i figli effettivamente studiano.
Sono gli anni in cui in Italia la forbice sociale – la differenza fra Gianni e Pierino – si restringe di più; in cui Gianni, pur partendo svantaggiato, può diventare “dottore” lui stesso e in tanti casi lo diventa, perché è bravo, perché è intelligente, e grazie alla scuola (mentre Pierino il-figlio-del-dottore, magari, cerca di conservare la propria superiorità morale occupando la Facoltà, andando in India a cercare il suo vero Sé e ironizzando sulla volgarità degli atteggiamenti piccolo-borghesi, proiettati su Gianni che cerca di emanciparsi dal suo ruolo di figlio-del-contadino). La fortuna del mito di Barbiana nel post-Sessantotto ha a che fare, a me pare, con questo complesso rimescolamento dei ruoli sociali, delle componenti di capitale economico e capitale culturale, nella società italiana: l’ironia è che Don Milani diviene l’eroe proprio di Pierino, e degli altri soggetti impegnati in quel periodo a convertire la superiorità sociale acquisita per nascita in superiorità morale. È insomma una fortuna interna a una storia degli intellettuali, e alla loro complessa ricostruzione di un rapporto con la cultura dominante da un lato e con il “popolo” dall’altro, in una fase storica di radicale cambiamento della struttura di classe della società e, come detto, dei rapporti fra capitale economico e capitale culturale. Il prete Don Milani, radicale all’estremo perché così gli impone il Vangelo, è un modello vincente proprio per quegli intellettuali che mostrava di disprezzare.
Le conclusioni di Scotto Di Lanza sono molto – forse troppo – nette. L’influenza di Lettera a una professoressa ha fatto perdere di vista l’obiettivo fondamentale della scuola moderna, che è l’alfabetizzazione delle masse popolari, portandola invece verso l’idea della scuola come ostacolo alla loro liberazione, e dunque come violenza pedagogica, consacrazione del privilegio etc. (8.4). Sì, c’è indubbiamente questo aspetto, insieme però a istanze del tutto diverse, a una forza morale e a un richiamo all’uguaglianza che hanno nutrito in positivo (anche se in mezzo a mille contraddizioni) intere generazioni di insegnanti. Se è vero che c’è in Don Milani un attacco alla scuola che ha portato talvolta ad accostarlo a Ivan Illich [14], bisogna anche riconoscere che questo aspetto non ha influito particolarmente sul contesto della scuola pubblica (e degli insegnanti “democratici”) in Italia. La distruzione della scuola delle discipline che l’autore lamenta, e le tendenze a considerare gli alunni come soggetti passivi e fragili che devono esser difesi da ogni trauma, inclusi brutti voti e bocciature, non sono certo imputabili a Don Milani: derivano piuttosto da un lato dall’influenza delle scienze dell’educazione basate sull’isolamento e sulla formalizzazione e misurazione delle “competenze”, dall’altro da mutamenti nell’immagine sociale dell’infanzia e dell’adolescenza che non potevano essere più estranei al prete di Barbiana, che all’occorrenza usava le cinghiate con i suoi ragazzi.
Resta però l’ambiguità di una costruzione essenzializzata del “povero”, di una ontologica dualità Gianni-Pierino, dove il primo «ha sempre ragione per il semplice fatto di essere Gianni», cioè di parlare (nella costruzione letteraria) da una posizione di svantaggio e marginalità, nella quale «convoca dinanzi a sé il forte che lo ha umiliato perché renda conto del suo operato» (8.7). Il “povero” è così costruito, afferma Scotto Di Lanza, come una «minoranza da tutelare», privandolo al tempo stesso «di qualsiasi possibilità di pensarsi come un soggetto etico attivo, un attore storico del cambiamento» (8.8). Il che spiega forse una certa fortuna di cui gode Don Milani nella odierna “pedagogia critica” anglofona, tutta centrata su un’idea di giustizia sociale concepita come rapporto fra identità essenzializzate che godono di disuguale distribuzione di potere (“privilegio” e “marginalizzazione”), a partire da criteri di appartenenza dati una volta per tutte (appartenenze etnica o “razziale”, di genere, di preferenza sessuale, di conformazione corporea etc., che si intrecciano e si gerarchizzano nella visione “intersezionale”). Nella derisione della “professoressa” c’è già qualcosa della “pedagogia riparativa” che questi indirizzi sostengono (Pierino messo dietro la lavagna per punirlo del suo privilegio). Ma nel complesso non mi pare proprio si possa attribuire al priore di Barbiana la banalizzazione dogmatica del tema della giustizia sociale che caratterizza questi indirizzi. Nei quali manca proprio e soprattutto la qualità che rende don Lorenzo uno scrittore così grande e fascinoso, vale a dire l’intelligenza autoironica.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Note
[1] V. Roghi, La lettera sovversiva. Da Don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Bari, Laterza, 2017, in particolare cap. 6.
[2] Cit. in E. Affinati, L’uomo del futuro, Milano, Mondadori, 2016: 13
[3] Cit. in Roghi, La lettera sovversiva, cit.: 99.
[4] Don Milani, Tutte le opere, 2 voll., a cura di F. Ruozzi, A. Canfora, V. Oldano, Milano, Mondadori, 2017.
[5] Cit. in V. Roghi, op. cit.: 96
[6] Ibid.: 126, n. 58.
[7] P. Bourdieu, J.C. Passeron, Les heritiers. Les étudiants et la culture, Paris, Minuit, 1964: Id., La reproduction, Paris, Minuit, 1970.
[8] A. Scotto Di Luzio, L’equivoco Don Milani, Torino, Einaudi, 2023.
[9] Ibid., Introduzione. Da ora in poi indicherò direttamente nel testo le citazioni, riferendomi a numeri di capitolo e paragrafo (dal momento che utilizzo una edizione elettronica la cui impaginazione può non coincidere con quella a stampa).
[10] F. Dei, La proibizione dell’incenso. Saper scrivere all’Università, Dialoghi Mediterranei, 46, novembre 2020; Id., Ancora sul saper scrivere all’università. La scuola progressista e i suoi critici, “Dialoghi Mediterranei”, 53, gennaio 2022.
[11] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Milano, Mondadori, 2017: 139.
[12] A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, 1965. Scrittori e massa, 2015, Torino, Einaudi, 2015.
[13] Rimando su questo punto a F. Dei, Popolo e folklore. Gramsci e le sorti della demologia in Italia, in G. Cospito, G. Francioni, F. Frosini, a cura di, Nazione, popolo, nazional-popolare. Una costellazione gramsciana, Como-Pavia, Ibis, 2023: 199-224.
[14] P. Mayo, Lorenzo Milani in Our Times, «Policy Futures in Education», 11 (5), 2013: 515-22.
_____________________________________________________________
Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017), James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (Carocci 2021). Dirige la Rivista di antropologia contemporanea e dal 2017 Lares, Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici..
______________________________________________________________