il centro in periferia
di Fabrizio Ferreri
Il discorso sui borghi e più in generale sulle aree interne corre oggi un rischio, che potremmo definire “politico”, che si genera oltre e al di sotto delle intenzioni esplicite degli studiosi e che si manifesta soprattutto nelle prassi reali e diffuse che questo discorso, involontariamente anche, asseconda e rafforza: il rischio di vedere ridotti borghi e aree interne a semplice sfogatoio della tossicità delle città e di tutto un sistema economico e culturale. Il rischio cioè che le aree interne siano generalmente considerate il luogo di sversamento, per così dire, di tutti i materiali reflui dell’inquinata vita cittadina (e delle sue basi economiche e culturali). Il rischio di questa “riduzione” ci sembra funzionale a un obiettivo politico di ampio respiro: non ripensare radicalmente la città e il suo modello economico e culturale non più sostenibile, ma allungarne la durata, stirarne il più possibile il tempo di vita. Il tema “borgo/aree interne” perde così la sua forza mobilitante, la sua capacità di smuovere visioni e prassi consolidate finendo per diventare argomento strumentale (ideologico) di conferma degli assetti prevalenti.
A questo livello si configura allora la partita reale giocata dalle aree interne, non parassitare soltanto il discorso sulla crisi del modello di sviluppo centrato sulla città rappresentandone la scappatoia provvisoria che inevitabilmente lo conferma, ma esercitare e dimostrare la forza di un racconto proprio, di una visione autonoma che ricostituisce un’eredità e feconda un futuro possibile. Nelle aree interne non c’è nulla da rammendare, esse non sono errori temporanei rimediabili; nelle aree interne è questione di produrre nuovi paradigmi, alternativi a quello dominante.
D’altra parte, dal nostro punto di vista, anche la traiettoria analitica e interpretativa delineata da Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi [1] non sembra andare in questa direzione. Quella del “borgo” è certamente una retorica, espressione di un certo modo di mettere a profitto i luoghi, che va contestata e decostruita. Non ci sembra però che l’operazione di contrapporgli la nozione di “paese” avvii realmente una simile decostruzione. Anzi, l’opposizione borgo-paese può apparire un’altra delle forme con cui la retorica del borgo esercita la sua forza. Il rischio è che alla retorica del borgo subentri una retorica anti-borgo che dipende in tutto e per tutto dalla retorica a cui si oppone. Fissando i termini nella loro opposizione binaria, la retorica anti-borgo si ritrova a svolgere la funzione di bloccare una reale e radicale opera di decostruzione della retorica del borgo. I contro-pensieri sono determinati essenzialmente da ciò contro cui si oppongono, un contro-pensiero non è fecondo di alternative reali, non vi viene liberato mai alcun fondamento creativo (non sembra pertanto casuale che i curatori del libro, consci probabilmente di un simile rischio, limitino nelle enunciazioni programmatiche la portata per così dire “contraria” e oppositiva del libro). In altre parole, la facile e non risolutiva contrapposizione paese-borgo rischia di essere un’ulteriore mossa decettiva che sostituisce una contro-retorica di stampo accademico alla radicalità di una decostruzione necessaria [2].
Castoriadis, nel suo discorso sull’immaginario sociale istituente, distingue all’interno di ogni società una dimensione funzionale o logica, sorretta dal principio della determinazione o determinatezza, cui si deve il funzionamento dell’apparato socio-istituzionale della società; e una dimensione poietica o immaginaria, fondata sul principio della creazione e della creatività pura, cui si deve “il senso” della società ovvero il senso esperito al suo interno dai membri che ne fanno parte. Quando le due dimensioni sono collegate la società è in salute, il senso informa le strutture che garantiscono alla società il suo funzionamento e le strutture, nel loro funzionamento, incarnano e trasferiscono senso.
Quando però la dimensione funzionale si autonomizza, come nel capitalismo avanzato, la prassi sociale, ai diversi livelli del suo manifestarsi, tende a diventare meccanica, vuota, meramente adempitiva, si accentuano gli effetti di anomia e perdita di senso. Il sistema ripete se stesso in un accrescimento elefantiaco e cieco che smarrisce i fini, gli scopi, le destinazioni; il teukein, ovvero gli apparati tecnici e tecnologici che funzionano sulla base di una razionalità procedurale meramente tecnico-scientifica si sostituiscono integralmente al legein, alla capacità di generare narrazioni portatrici di senso e appartenenza [3].
Su questo scollamento sempre più marcato, per i borghi e per le aree interne si apre una possibilità, un’occasione: divenire lo spazio dove ritornare a porre la questione della dimensione poietica del vivere sociale. Ritematizzare sia la dimensione poietica che quella funzionale e soprattutto il loro raccordo può fare dei borghi e delle aree interne un grande laboratorio di creazione, sperimentazione e rinnovamento del “senso” – del senso dell’esserci, del restare e dell’andare, dell’abitare.
Vi è dunque bisogno di nuovo immaginario, di un immaginario, radicato, che si apra alla molteplicità, alla diversità e all’incrocio dei modelli di vita (di fare socialità, di realizzarsi, di lavorare e produrre): non si tratta tanto di “rigenerare” nell’orizzonte di discorso e di pratica noto – il modello economico e culturale che ha marginalizzato le aree interne certamente non può ora salvarle, sebbene se ne intesti il processo – si tratta piuttosto di liberare altri orizzonti di discorso e di pratica fuori da ogni subalternità/ancillarità. In questa semina di possibili la cultura, assecondando la propria vocazione, ovvero in connessione con il recupero delle molteplici coscienze di luogo che costituiscono l’identità policentrica del nostro Paese, può e deve esercitare un ruolo fondamentale.
La coscienza di luogo, concetto fondamentale che rimanda al framework territorialista [4], non guarda solo al passato, non riprende soltanto un filo interrotto, non richiede una postura passatista. La coscienza di luogo è soprattutto un modo di rileggere il presente, di rilanciarlo in forme diverse da quelle attuali, non per ritornare a un passato idealizzato, bensì in vista di un tempo venturo dove quel passato, ripreso e rimesso in gioco, si ritrovi letto e interpretato in maniera evolutiva, trasformativa. I borghi e le aree interne possono rappresentare una miriade di pratiche dell’agire singolari, contestuali, reticolari, dove l’impegno situato configura alternative, produce nuovi possibili rinegoziando i rapporti di forza e le gerarchie modellate dal paradigma di sviluppo dominante.
Il discorso sull’immaginario, però, è facile possa snaturarsi in un’altra retorica metropolitana dell’immaginario [5]. Ciò non accade quando l’immaginario, invece di tradursi in fantasticheria velleitaria o proiezione metropolitana, mobilita/potenzia/ attiva/consolida/rigenera pratiche materiali, tangibili, effettuali, capaci di configurare, nel linguaggio territorialista, uno “stile di sviluppo” proprio, con tutte le imperfezioni e ambiguità che lo connotano. L’immaginario non è “il fantastico”; non vuol dire fittizio o illusorio, non è un aggettivo ma un sostantivo e indica la creazione di nuove forme e significazioni economiche e sociali. L’immaginario è potenzialità, è lo scarto possibile dalla realtà data. È ciò che la istituisce e nello stesso tempo anche ciò che la mobilita, che ci solleva dall’accettarla come entità immobile. L’immaginario non è astrazione o evasione, ma inseminazione del possibile.
L’immaginario, poi, non è in contrapposizione al materiale, alle pratiche territoriali concrete: l’immaginario è il terreno di coltura indispensabile per ripensare quei luoghi che un determinato modello di sviluppo ha posto al margine, abbandonato o ridotto a riserve da sfruttare. Come le pratiche innovative producono nuovo immaginario, così un immaginario disintossicato è premessa indispensabile per nuove pratiche, per pratiche realmente trasformative.
Non può essere semplicemente una scelta di resistenza restare o tornare nel borgo, nel paese, altrimenti ritorni e “restanze” saranno sempre, al massimo, espressione di un’élite. Se vogliamo sottrarre questi fenomeni e questi processi, peraltro reali e in corso, al destino dell’effimero deve prodursi un cambiamento nel cuore del sistema economico e culturale dominante che renda accette e possibili, a partire dal piano materiale (lavoro, salute, accessibilità), anche queste forme/scelte differenti (altre, alternative) di vita. La difficoltà di operare all’altezza della dimensione poietica dipende dal fatto che si tratta di processi lunghi, che si costruiscono in parte a un livello non intenzionale, e che hanno carattere organico, sistemico e collettivo; la singola soluzione o misura e la sua occasionalità e sporadicità non consente un reale innesco di simili processi.
In tale cornice prova a inquadrarsi il lavoro che stiamo cercando di realizzare a San Mauro Castelverde (PA) in sinergia con l’amministrazione locale sin dal 2018 e ora anche sostenuto dai fondi del PNRR Bando Borghi Linea B (tanto vituperato ma funzionale per noi, strategicamente, all’ulteriore rafforzamento di un processo già avviato). San Mauro Castelverde è un Comune della città metropolitana di Palermo di circa mille abitanti, situato, a poco più di mille metri d’altezza, all’interno del Parco delle Madonie. Il centro storico medievale ancora ben preservato e inserito in un contesto architettonico di grande pregio testimone di più epoche storiche, la natura e il paesaggio insieme alle sapienze artigiane e agricole, all’enogastronomia tipica e al ricco giacimento di risorse immateriali legati alla tradizione e agli usi e costumi locali, sono i punti di forza del borgo.
Il contesto imprenditoriale è rappresentato principalmente dal settore primario, con aziende agricole di medio-piccole dimensioni operanti prevalentemente nel settore olivicolo e zootecnico. Le aziende agricole e zootecniche sono collegate a valle con alcuni caseifici e oleifici, alcuni dei quali completano il ciclo di produzione con la vendita del prodotto finito.
Se si escludono pochi esercizi commerciali di prossimità, il resto delle attività si concentra soprattutto nel settore del piccolo artigianato (falegnami e fabbri soprattutto) che però fatica a maturare in vera e propria impresa; e nel settore della filiera turistica e ricettiva che presenta un albergo di pregio ospitato nella sede del convento seicentesco poco fuori dal paese, sedici strutture ricettive tra B&B, case vacanze e locande (per un totale di circa 200 posti letto), una società consortile e diverse realtà associative che offrono attività e servizi di vario genere, dalle escursioni nel Geosito UNESCO Gole di Tiberio, alla Zipline, l’unica in Sicilia, per finire con il trekking e le passeggiate a cavallo.
Il borgo, grazie alla lungimirante visione dell’amministrazione locale, ha avviato negli ultimi anni promettenti processi di sviluppo volti a garantire e potenziare i diritti di cittadinanza facendo leva sul paradigma della rigenerazione culturale: cultura, in questa accezione, non è un ambito isolato e circoscritto aperto a pochi e con pratiche elitarie, coincide piuttosto con il metodo di costruzione di una piattaforma di crescita locale che integra e mette a sistema i diversi ambiti di vita e lavoro che contraddistinguono la realtà maurina: l’agro-economia, con i prodotti tipici; il turismo, forte di un’offerta estremamente connotata che fa leva sulle attrazioni naturalistiche e monumentali del borgo; la micro-impresa locale a carattere artigianale.
Si è riconosciuto così nella cultura l’atto di semina fondamentale che mette a coltura, per proiettarsi nel futuro, una visione di sviluppo place-sensitive e community based. La cultura diviene una sorta di defibrillatore necessario: rigenera orizzonti di senso (individuali ma) non particolaristici in connessione con i giacimenti di valore del luogo. Diviene l’orizzonte indispensabile per ripensare e rigenerare le proprie radici (e per generare, al contempo, nuovi radicamenti). Cultura significa pertanto riconnettere comunità e territorio, significa ridare potere ai luoghi contro i “luoghi senza potere” e, altra faccia di una stessa medaglia, i “poteri senza più luoghi”.
A valle di questa visione si è lavorato sul potenziamento delle infrastrutture primarie (viabilità e servizi di rete) e dell’edilizia scolastica; sul recupero e la riqualificazione dei beni culturali, architettonici e monumentali (chiese ed edifici storici, teatro comunale); sulla promozione e sul rafforzamento della cultura della legalità. Si tratta di una svolta epocale per un paese che fino a qualche anno fa era conosciuto soprattutto come mandamento mafioso e che oggi invece sta lavorando con forza, fiducia e convinzione per la propria rinascita sociale ed economica.
Certo, come accade in tutte le aree interne, numerose sono le criticità da affrontare: spopolamento progressivo, invecchiamento della popolazione, contrazione del mercato del lavoro, infrastrutture carenti compresa quella digitale non sufficiente, assenza o presenza a singhiozzo dei servizi fondamentali (dalla scuola alla sanità), riduzione delle opportunità di formazione e svago, crescita personale e relazionale soprattutto per le nuove generazioni. A queste criticità si aggiungono quelle del tessuto imprenditoriale locale dovute allo scarso ricambio generazionale della classe imprenditoriale, sempre più in età avanzata; alla scarsa capacità di aggiornamento tecnologico e alla debole transizione verso forme più evolute e sostenibili d’impresa; alla scarsa consapevolezza delle opportunità imprenditoriali che il territorio può offrire e dunque alla connessione sempre più fragile tra iniziativa imprenditoriale e risorse del territorio; alla debole integrazione sistemica tra le diverse iniziative imprenditoriali.
Lavorare sul piano poietico vuol dire allora – sul piano concreto – attivarsi e concentrarsi sulle dinamiche di (ri)-costruzione, (ri)-generazione e consolidamento della comunità locale e sulla sua capacità di lettura del territorio al fine di generare una nuova consapevolezza locale (“coscienza di luogo”), dove “nuova” non vuol dire inventata o estranea al luogo, ma sviluppata a partire da energie e risorse, percezioni e vissuti attualmente sopiti, in ombra, latenti o quasi del tutto spenti.
Ritornare a leggere il proprio territorio significa anche riscoprirne le potenzialità rispetto a un possibile progetto di vita e di lavoro. Questo è esattamente il fine della Scuola dei Mestieri e dell’Incubatore di Impresa di comunità, che si stanno costituendo a San Mauro Castelverde grazie ai fondi del bando borghi del PNRR Linea B, e che rispondono alla concezione di un’offerta formativa professionalizzante territorializzata, strettamente connessa alle risorse e alle prospettive di sviluppo del territorio per favorire la nascita e la crescita di una classe nuova e preparata di giovani imprenditori locali. Si guarda quindi prospetticamente a esperienze imprenditoriali che sappiano mettere al centro la comunità, le sue energie e competenze, e le risorse, i beni comuni materiali e immateriali del territorio: imprese di comunità o anche “imprese affettive” che ripristinano e ritessono il rapporto tra produttore/imprenditore e luogo di appartenenza.
Coerentemente con il metodo e gli obiettivi della SNAI – San Mauro ricade infatti nell’area SNAI Madonie – assumendone i principali presupposti teorici (sviluppo place based, di rete, inclusivo, con particolare attenzione alle categorie in posizione di fragilità culturale ed economica), e concorrendo al raggiungimento delle stesse finalità (l’estensione e il rafforzamento dei diritti di cittadinanza), si sta lavorando quindi sulle risorse endogene affidando alla comunità locale il ruolo di attivatore e conduttore del processo di rigenerazione locale.
Questo approccio intende però smarcarsi decisamente da ogni forma di localismo, riconosce anzi l’importanza di ciò e di chi proviene da fuori per mettere in moto processi di sviluppo soprattutto nelle aree interne, luoghi dove spesso è necessario proprio uno shock esterno per rompere o contaminare meccanismi sclerotizzati e trappole del sottosviluppo economico, sociale e culturale. Non sempre il paese è pronto per, e gli abitanti sono disposti a, consapevoli di, maturi per, ecc.; talvolta il metro del successo della propria azione è proprio il fatto che l’abitante locale non la capisce e accetta subito. Talvolta vi possono essere segnali di futuro tanto nell’empatia, nell’ascolto e nella partecipazione quanto nella distanza che si riceve.
Il problema, ancora una volta, si manifesta quando l’elemento esterno vive la relazione con il luogo e con chi lo popola secondo una normatività (anche densa di buone intenzioni) “ortopedica”. I rischi nel rapporto tra componente interna ed esterna sintetizzando sono due: a) l’agente esterno entra in un territorio per forzarlo verso un’immagine predefinita di sviluppo (come può accadere quando si standardizza la figura del “community manager”); b) l’agente esterno entra in un territorio e vi si adegua senza apportare alcuna energia di contrasto, alcuna forza di attrito. È necessaria quindi una terza via, costituita dall’agente esterno che offre alla comunità, con l’esempio e la pratica, un orizzonte nuovo di discorso e di azione; che agisce, apportando differenza e diversità, contro la sclerotizzazione interessata dei sistemi e degli ingranaggi locali.
D’altra parte, è necessario anche allontanarsi da quell’approccio proprio dei “professionisti” dello sviluppo locale per ribadire che i processi di cui stiamo discutendo difficilmente sono lineari. Vi sono iniziative che producono effetti positivi “loro malgrado”, andando spesso anche contro e oltre le proprie premesse e le proprie evidenze immediate. O altre iniziative, sulla carta di successo, che non trovano alcun radicamento nel contesto locale dato.
Nel modello che possiamo chiamare della causalità lineare dobbiamo affidare tutto ai professionisti perché solo loro conoscono e padroneggiano le cause necessarie per produrre gli effetti sperati, attesi. Eppure, le prassi che appaiono veramente liberanti e liberatrici, favorevoli a tutte le infinite forme di emancipazione e autodeterminazione non sempre catalogabili o leggibili secondo categorie fisse o binarie, sono quelle che rinunziano a essere normative, che accolgono una pluralità di termini e di azioni da misurare localmente, senza che vi sia in assoluto l’azione giusta e quella sbagliata, e che consentono a ogni termine e a ogni azione allo stesso tempo di limitare e accrescere l’altra in una combinazione da determinare e scoprire volta per volta, caso per caso, luogo per luogo.
La stessa partecipazione, pattern cui si ricorre a voce sempre più spesso, nei fatti continua a premiare i soggetti e le realtà più mature, quelle che già partecipano e che hanno un posto all’interno del sistema locale; continuano così a restare esclusi proprio coloro di cui invece si dovrebbe ricercare la partecipazione, ovvero coloro che non sono abituati e pronti alla partecipazione, i gruppi sociali ai margini (spesso i giovani, gli anziani, gli stranieri, quelli con un livello culturale più basso e con meno capitale sociale) [6].
Partecipare, purtroppo, sta sempre più diventando un’altra delle tante procedure. E invece “partecipare”, se ha senso, intende proprio identificare quello spazio di sospensione della procedura e del protocollo che implica che si possa anche non partecipare, che ci si possa defilare, che si possa entrare e uscire, vi è cioè insieme a un’assunzione di responsabilità anche una dimensione di negatività, di aleatorietà che il partecipare di oggi non contempla. Il partecipare di oggi assomiglia sempre più a una dimensione del funzionare. È sempre più un altro tecnicismo. Se si vuole veramente partecipare bisogna abbandonare il desiderio di controllo; i “processi partecipativi” di oggi se generano partecipazione è quasi sempre loro malgrado. Per partecipare è necessario avere fiducia anche in ciò che sfugge, confidare nello stato gassoso. Se partecipare è esperienza di libertà, una partecipazione “programmata” è soltanto l’ombra della partecipazione, il suo comodo succedaneo.
Per lavorare dunque sulla dimensione poietica abbiamo inteso procedere a San Mauro Castelverde in alcune direzioni fondamentali: oltre a quella già citata che riguarda l’Incubatore d’imprese di comunità e la Scuola dei Mestieri col doppio fine contestuale dell’accrescimento della compagine imprenditoriale locale e del rafforzamento del tessuto sociale tramite la stessa iniziativa imprenditoriale territorializzata, una si concretizzerà nella costituenda Casa della Poesia Paolo Prestigiacomo (importante scrittore maurino del secondo Novecento) che San Mauro Castelverde è nella condizione di realizzare grazie al prezioso fondo Paolo Prestigiacomo nella disponibilità del Comune e che avrà sede nel Collegio storico di San Mauro Castelverde ed è collegata al prestigioso Premio di poesia edita Paolo Prestigiacomo e al correlato e successivo Festival di Poesia, giunti rispettivamente alla X e alla III edizione.
I tanti poeti, scrittori, fotografi, artisti, che qui sono giunti negli ultimi anni, più di duecento, oltre a trarre ispirazione per le proprie opere da una vitalità che ancora segue ritmi propri, hanno contribuito al fondamentale rinnovamento dello sguardo dell’abitante locale facendo incontrare anche attraverso l’opera di Paolo Prestigiacomo visioni provenienti da fuori e visioni maturate nel luogo e a contatto con esso fungendo così da grimaldello per schiudere nuovi orizzonti radicati che solo la potenza dell’agire creativo ha saputo riportare alla luce.
Un’altra direttrice di lavoro riguarda la costruzione dell’Ecomuseo maurino che avverrà tramite la metodologia R.E.I.L (Registro delle Eredità Immateriali di Interesse Locale) e che intende valorizzare il patrimonio demo-etno-antropologico del borgo maurino individuando, censendo e interpretando il complesso delle risorse materiali e immateriali del paese senza trascurare le connessioni esistenti tra borgo storico e aree rurali e riscoprendo in particolare la tradizione dell’agro-economia locale; una terza, interverrà sulla riqualificazione delle aree boschive grazie alla definizione e alla realizzazione di un’articolata rete sentieristica pensata non solo per il turismo ma anche e soprattutto come vera e propria azione di ecologia del paesaggio volta a preservare gli ecosistemi naturali facilitandone la riproduzione; l’ultima, infine, si espleterà nella produzione di nuove narrazioni del luogo, a partire dalla realizzazione di un cortometraggio tratto dall’opera Karsa. Racconti di vita siciliana dello scrittore maurino Mauro Turrisi-Grifeo, narrazioni, quindi, di differenti tipologie intese come occasione per ridare diritto di parola all’abitante locale e per rimettere in moto processi di cura e di conoscenza del territorio prodotti dal basso, stimolo alla riappropriazione in forme nuove del proprio luogo di vita e lavoro.
Il racconto dunque intende essere innanzitutto un ulteriore strumento di auto-consapevolezza: la comunità racconta se stessa, la propria storia e il proprio rapporto con il territorio per ripristinare e recuperare un legame altrimenti sempre più debole. La narrazione è una delle dimensioni di quell’asset culturale attraverso cui oggi la comunità maurina sta piantando il seme del proprio futuro riattivando promettenti processi di condivisione di prospettive, strategie e obiettivi che infondono senso e contenuto concreto alla partecipazione della comunità nel processo di sviluppo locale alimentando cura, speranza, impegno.
In questo quadro, si intende prestare attenzione anche alla popolosa comunità di maurini all’estero, concentrata in modo particolare in Argentina. Oltre ad attingere al loro bagaglio di memorie per rimettere in circolo un vissuto che si faccia immediatamente strumento di lettura profonda del territorio, si intende sul piano concreto riavvicinare le due comunità – quella locale e quella estera – attivando uno sportello di servizio burocratico e amministrativo per incrociare le opportunità di sviluppo e di impresa offerte dal contesto locale con le possibilità di investimento e le competenze rintracciabili nelle comunità di maurini all’estero favorendo in questo modo eventuali rientri anche parziali.
Di particolare interesse ai fini del processo in corso appare l’applicazione della metodologia R.E.I.L: ideata dall’associazione I-World e depositata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in coerenza con l’Art. 2 della Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (17 ottobre 2003), nella metodologia R.E.I.L. si iscrivono prassi, rappresentazioni, conoscenze, know-how, strumenti, per il riconoscimento e la valorizzazione del patrimonio culturale locale. Una simile metodologia è strategica per la costruzione di un palinsesto di sviluppo sorretto da processi partecipativi e fondato sulla conoscenza e sulla riappropriazione da parte della comunità locale del proprio patrimonio materiale e immateriale in cui il territorio è assunto come spazio di investimento conoscitivo e affettivo oltre che economico e produttivo.
La metodologia R.E.I.L. descrive lo spazio di riscoperta e rigenerazione del “genius loci” che non è mai un dato finito, compiuto, statico – se lo diventa produce forme identitarie regressive, rancorose, escludenti come in certe derive conservatrici e reazionarie – ma chiede invece, tra custodia ed evoluzione, di essere continuamente interrogato, alimentato, riformulato, come peraltro evidenzia la Convenzione UNESCO citata quando, parlando del patrimonio culturale immateriale, analogamente afferma: «il patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana» [7].
Nel contesto dell’Ecomuseo un’attenzione particolare è riservata al recupero e alla riqualificazione delle botteghe artigiane storiche al cui interno spazi multimediali attrezzati intendono favorire forme nuove ed evolute di conoscenza e ripresa del patrimonio materiale e immateriale locale. Narrando gli ambienti storici del lavoro di un tempo, i cicli produttivi e le loro implicazioni socio-culturali ed economiche, divulgando la conoscenza della loro funzione, il contesto e la dimensione sociale del loro utilizzo, ogni bottega diviene spazio di relazione attiva alle tradizioni della civiltà contadina e dell’artigianato locale incrociando passato e futuro.
Anche per questa via si intende rimettere al centro del tessuto socio-economico locale le produzioni contadine e artigianali tipiche attraendo soprattutto i giovani nei processi di valorizzazione delle eredità materiali e immateriali del territorio. In tale sistema, la dimensione digitale non è concepita come panacea di tutti i mali ma come repertorio di strumenti e processi abilitanti all’interno di un ecosistema dell’innovazione che deve necessariamente integrare altri elementi come base indispensabile dei processi di sviluppo: saperi e saper fare ricostituiti e rinnovati; rete di servizi efficienti; riattivazione della coscienza di luogo.
Su una questione complessa come quella dello stato attuale delle aree interne non è possibile imputare le responsabilità solo alla Politica. Certamente nell’attuale stato di salute di ampia parte marginalizzata dell’Italia hanno avuto un peso determinante scelte e non scelte, attenzioni selettive e disattenzioni della politica, così come anche la configurazione del sistema dei poteri e delle influenze locali, molto spesso parassitario rispetto a logiche di governo del territorio decise altrove e in connessione spesso a “economie deformate” e a “sviluppo dipendente” o espressione immobile di un blocco di forze economiche e sociali che si riproduce pressoché immutato nel tempo, però è abbastanza chiaro che la parabola declinante di questi territori è da ascrivere innanzitutto a fenomeni e processi economici, culturali e sociali di carattere storico-epocale di cui la politica stessa è espressione. È importante sottolinearlo perché questo riscontro impone una condivisione di responsabilità tra attori della società civile e della politica, tra gruppi economici e formazioni sociali, tra corpi collettivi e individui, e sollecita la richiesta e l’esercizio di un protagonismo diffuso, capace di problematizzare e invertire processi che appaiono – e altrimenti sarebbero – irreversibili.
È tutto un complesso sistema economico, culturale e sociale che non lascia tempo e spazio a processi realmente e faticosamente (ri)generativi. Il rischio, pertanto, è che simili processi si trovino poi necessariamente “ridotti” a vantaggio ancora di quei pochi che già detengono quote rilevanti di capitale economico, culturale, politico. Siamo però convinti che ritornare sulla dimensione poietica, sulla riattivazione di nuovi immaginari radicati, sul rilancio della miriade di coscienze di luogo sepolte nei nostri territori, con tutto ciò che ne deriva sul piano materiale delle forme di vita e lavoro, sia impegno indispensabile e necessario per liberare i tanti possibili che una malattia da tempo diffusa oscura: la «lobotomia della mente locale» (La Cecla, 1988).
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Filippo Barbera, Domenico Cersosimo, Antonio De Rossi (a cura di), Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli Editore, Roma 2022.
[2] Una disamina onesta e imparziale del volume Contro i borghi non può esimersi dal sottolineare che l’opera, nonostante la riconoscibile unitarietà di intenti di coloro che vi hanno contribuito, contiene posizioni e punti di vista che non sempre sono integralmente sovrapponibili e che pertanto sembrano esporsi con gradi e intensità differenti al rischio che abbiamo evidenziato.
[3] Cornelius Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Ed. or. 1975.
[4] Alberto Magnaghi, Il Progetto locale. Verso una coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (pr. ed. 2000), e il più recente Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
[5] Osservazione di Giampiero Lupatelli all’interno di una discussione sulla piattaforma Academia, https://www.academia.edu/s/96a5269215.
[6] Si rinvia anche a Fabrizio Ferreri, “Quale rigenerazione culturale per le aree interne?” in AgCult, dossier “Coltivare Comunità” di Letture Lente a cura di Rossano Pazzagli, Filippo Tantillo, Giovanni Teneggi, Flavia Barca, https://www.agenziacult.it/letture-lente/coltivare-comunita/quale-rigenerazione-culturale-per-le-aree-interne/.
[7] https://ich.unesco.org/en/convention, traduzione in italiano su https://www.unesco.it/it.
Riferimenti bibliografici
F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi (a cura di), Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, Donzelli Editore, Roma 2022.
C. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Ed. or. 1975.
F. Ferreri, “Quale rigenerazione culturale per le aree interne?” in AgCult, dossier “Coltivare Comunità” di Letture Lente a cura di Rossano Pazzagli, Filippo Tantillo, Giovanni Teneggi, Flavia Barca, https://www.agenziacult.it/letture-lente/coltivare-comunita/quale-rigenerazione-culturale-per-le-aree-interne/.
F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1988.
A. Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
A. Magnaghi, Il Progetto locale. Verso una coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (pr. ed. 2000).
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Fabrizio Ferreri è assegnista di ricerca all’Università di Catania, dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Già dottore di ricerca in Filosofia, Università Statale di Milano, e in Sociologia sviluppo locale, Università Kore di Enna, è socio della Società dei Territorialisti, dell’Associazione Italiana di Sociologia e di Riabitare l’Italia. Fa parte della Rete Nazionale di Giovani Ricercatori per le Aree Interne promossa dal Politecnico di Milano. È autore di monografie, saggi, articoli scientifici e interventi più divulgativi sui temi dello sviluppo locale nelle aree interne, della rigenerazione culturale, dei nuovi immaginari e del rapporto tra digitale e capitalismo odierno. Tra le ultime pubblicazioni, “La Magna Via Francigena di Sicilia e i ‘Comitati di Accoglienza’ del pellegrino. Associazionismo e pubbliche amministrazioni per un nuovo patto di sviluppo nelle aree interne della Sicilia” in Collettivo PRiNT (a cura di), Aree Interne e Comunità, Pacini Editore, Pisa, e “Dalla sostenibilità all’auto-sostenibilità: considerazioni sulla proposta eco-territorialista” in Scienze del territorio, vol. 10 n. 2, Firenze University Press. È direttore artistico del Festival e del Premio di Poesia Paolo Prestigiacomo – San Mauro Castelverde (PA).
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