L’ultimo libro di Mauro Magatti, Oltre L’Infinito. Storia della Potenza dal Sacro alla Tecnica (Feltrinelli, 2018) ha per oggetto l’esistenza umana, nel suo aspetto di potenza. La potenza di cui qui parliamo non è la “forza”, ma, con accezione simile a quella aristotelica, la possibilità stessa di essere. L’uomo, nella sua apertura a essere, genera forme concrete, incarnazioni, di questa potenza. A cominciare dalla realizzazione di sé stesso in quanto individuo.
Il sacro, la politica e la tecnica sono le tre incarnazioni più importanti della potenza umana di cui questo libro si occupa, tracciandone la storia. Una storia per certi aspetti di continuità evolutiva. In un percorso quasi hegeliano di svolgimento. Magatti usa, cosa rara per un accademico, un approccio libero e radicale. Lui stesso dichiara lucidamente di essersi avventurato per una strada «ampia, impervia e ambiziosa». Ma di che strada si tratta?
Il sentiero che Magatti percorre si snoda come detto su tre coordinate fondamentali: in primo luogo una vera e propria filosofia dell’esistenza umana. Poi uno sguardo d’insieme sulle forme della potenza nella storia dell’umanità. E infine una lucida analisi della struttura dell’epoca tecno-economica in cui viviamo. Quest’analisi è, assieme all’indagine esistenziale, il culmine del percorso argomentativo del volume. E sicuramente uno degli aspetti più originali.
Il viaggio di Magatti si svolge, per sua stessa ammissione, sulle “spalle di giganti”: Sant’Agostino, San Tommaso, Jaspers, Heidegger, Severino, Agamben, Foucault, Hannah Arendt. Ma anche dei suoi amici sociologi, primo tra tutti Georg Simmel, assieme a Weber, Bauman, Elias e innumerevoli altri. Un lungo viaggio in ottima compagnia, dunque.
L’antropologia filosofica che Magatti mette alla radice del suo racconto descrive l’uomo come “eccentrico”, ossia sempre aperto e come sbilanciato verso un “oltre” di sé ed “eccedente”, e dunque impossibile da racchiudere in una forma compiuta e finita. Nessuna realizzazione di sé è mai quella vera, quella finale, quella assoluta. Ogni forma concreta, proprio nel momento in cui realizza la potenza dell’uomo, rimanda a una “mancanza a essere”. Per noi esseri umani, il segno positivo di questa eccentricità è l’eterna possibilità del nuovo, dell’ulteriore. Un dinamismo mai appagato, un’energia fondamentale che caratterizza l’umanità e le sue conquiste. Il segno negativo, invece, è la finitezza, il limite e dunque la precarietà di ogni realizzazione umana. La difficoltà, dentro cui Magatti ci accompagna, sta nel cogliere l’inscindibilità di questi due aspetti. Che sono, alla radice, la stessa cosa.
L’uomo è potenza vera solo nell’accettazione di quell’impotenza che si porta dentro da sempre, per costituzione. Un apparente paradosso. Come, in fondo, sono paradossali tutti i momenti più autentici della vita: l’amore che non possiede, la ricchezza che non compra, la bellezza che è precaria, la morte
Quando l’uomo “abita”, anche dolorosamente, questa sua situazione paradossale, allora incontra la trascendenza, incontra l’altro, incontra il sé stesso autentico e dunque realizza, vive la sua potenza più intima. Quando l’uomo invece nega il paradosso e cerca la potenza intesa come fatto, come realizzazione, come “potere”, allora cade nella superbia, nella negazione del limite, nel delirio di onnipotenza. Con tutte le violenze, interiori ed esteriori, che da questa caduta conseguono.
L’ambivalenza della potenza, possibilità di essere e al tempo stesso mancanza a essere, è il tratto più originale e profondo di questa visione dell’uomo. Un circolo dinamico di negativo e positivo, di pienezza e di vuoto, che ricorda non poco la visione taoista dello yin e yang. Questa riflessione è tanto più importante, quanto più lo spirito del nostro tempo, ipnotizzato dal sogno della potenza infinita, ignora il negativo, il vuoto, il silenzio, l’accoglienza.
Non stupisce dunque che le suggestioni più originali di questo testo siano quelle dedicate al limite, alla fragilità umana, alla nostra costitutiva impotenza. Tale indagine del fondamento si svolge con uguale profondità su quelli che Magatti chiama “i tre assi della potenza”: quello dell’individuo, per cui potenza significa “aumento delle capacità”, quello del “potere di domesticazione della realtà” che fa riferimento alla sfera collettiva e sociale, e, infine, quello della “realizzazione del possibile”, ossia del rapporto con i mezzi e con i fini. Dove i mezzi sono ciò che accresce la potenza, in vista del conseguimento dei fini che l’uomo si dà.
Magatti inizia da qui il suo viaggio nella storia dell’uomo. E ci descrive le tre forme che la potenza umana ha partorito, nella ricerca di un senso complessivo alla propria esperienza. La prima forma è quella della religione e del sacro, intesa qui come il modo che l’uomo sceglie per rapportarsi al trascendente. «Il senso religioso – scrive Magatti – deriva dalla potenza misteriosa che emana dal divino».
Il percorso, che ricorda per passione narrativa la Scienza Nuova di Giambattista Vico, si snoda dalla magia primitiva alla religione razionale e secolarizzata del ‘900. Una storia che si centra, in Occidente, sul grande paradosso cristiano di un Dio onnipotente, che salva gli uomini attraverso la rinuncia totale alla potenza: la Croce.
Ogni religione deve in qualche modo rapportarsi a questo paradosso di un’idea di “onnipotenza”, implicita nel divino, che dia però ragione di quel nulla che abita l’uomo e che, per certi aspetti, lo salva.
Quando le religioni fuggono verso l’affermazione di potenza, allora si hanno estremismi, crociate, jihad, violenza di setta e di confessione. Allora la religione cade in quella che potremmo descrivere come “violenza degli assoluti”. Incarnazioni in terra della potenza e del volere del Dio, comunque lo si chiami.
Se le religioni invece accettano quel nulla, quel “non ancora”, allora diventano messianiche, capaci di quella «disponibilità ad ammettere che, al di là di quel che già siamo e sappiamo, c’è qualcosa che ci aspetta e ci unisce». Non a caso per descrivere questa necessaria apertura Magatti usa le parole di Raimon Panikkar, il profeta del dialogo tra le religioni.
La conclusione di Magatti è che oggi c’è «bisogno di recuperare, a fianco della ragione che abbiamo così tanto sviluppato negli ultimi secoli, anche la via mistica come ricerca sincera, piena di stupore e di misericordia, di ciò che ci accomuna come essere umani straordinariamente potenti, grazie alla nostra intelligenza, ma anche costitutivamente impotenti, in quanto fragili e limitati».
La storia della forma religiosa della potenza è segnata dal progressivo emergere della forza della ragione umana, che finisce col secolarizzare l’idea stessa di Dio e del divino trasferendo “sulla terra” il senso ultimo delle cose. Questa forma immanente del senso è la politica, la sua “teologia” è l’ideologia. E la sua “onnipotenza” diventa la sovranità. La grande cesura sta alla fine del Medioevo, quando la “città di Dio”, punto di riferimento di tutto il pensiero politico e teologico medievale, scompare dall’orizzonte ormai secolarizzato della riflessione politica e alla tensione agostiniana tra città dell’uomo e città di Dio si sostituisce quella moderna tra Stato e cittadino.
Il gioco dell’eccentricità resta però lo stesso: si trasforma nella dialettica tutta terrena tra individuo e società, tra vita individuale e ideale politico. Il rischio della fuga nel “potere assoluto realizzato” prende qui la forma del totalitarismo, della sovranità illimitata dello Stato sul cittadino. In senso politico, dunque, abitare il paradosso diventa la possibilità di coniugare libertà individuale e istituzioni efficaci e storicamente “date”. L’apertura, l’eccedenza non sono dunque mai indeterminatezza. E la determinatezza storica e sociale non si trasforma mai in chiusura di orizzonti per l’individuo.
L’ultimo quadro del libro di Magatti illustra la crisi del paradigma politico come scenario ultimo di senso che arriva per mano della tecnica. Se la forza della ragione aveva progressivamente eroso il rimando alla trascendenza del divino come orizzonte di senso, ora la forza della tecnica, la forza dei «mezzi per realizzare la potenza», erode il rimando all’utopia. Scompare così la fiducia nel “non ancora” da costruire assieme nella polis. La tecnica sembra in grado di garantire che il senso, la potenza, si possono dispiegare tutte interamente qui ed ora. Un percorso prometeico. Affascinante e rischioso. Come ci ricorda Magatti, infatti, «il rischio è che oggi una tecnocrazia pretenda il monopolio della potenza. Cioè di assorbire integralmente la dinamica di apertura, slancio e ricerca che è il carattere distintivo della condizione umana».
L’autore costruisce a partire da questo rischio il racconto della potenza che la tecnica e il mondo tecno-economico eseguono e, ancor più, promettono per il futuro. Una potenza illimitata e perfettamente efficiente. Corpi migliori, sani e performanti, cervelli “aumentati” e potenziati, procedure algoritmiche “totali” e fluide, senza errori. Fino ai robot, che avverano il definitivo superamento dei limiti umani. E gli umani? In questo nuovo delirio di onnipotenza sembra perdersi il senso del limite, della caducità, della Croce. Eppure è proprio in questa promessa che viviamo.
Ma quanta realtà va persa in questo delirio? Il mondo vero che abbiamo di fronte non è solo quello delle macchine che si guidano da sole, dei frigoriferi che riordinano il latte quando è finito o delle App per trovare l’anima gemella (o anche solo il partner per una sera). È ancora il mondo delle guerre, delle disuguaglianze estreme, dei miliardi di persone denutrite e delle migliaia di bambini che ogni giorno non vedono il giorno successivo.
Magatti smonta lucidamente il “meccanismo” della società tecnica, ne mostra le astuzie e i costi umani. Individuali e collettivi. Ma non la condanna senza appello. Anzi. Ne legge in modo equilibrato le enormi (infinite!) opportunità. A patto però di non dimenticare il paradosso, di non arrivare ad «odiare quella mancanza a essere che l’essere umano è». La tecnica infatti «nel momento in cui tende a diventare idolatrica […] è potenzialmente tanto pericolosa quanto le forme che l’hanno preceduta. In nome della piena realizzazione dell’umano, la potenza monopolizzata – trasformandosi in delirio di onnipotenza – è sempre destinata a schiavizzare l’uomo».
La sfida che abbiamo davanti, come individui e come società ormai globale, è quella di lasciare aperta la nostra potenza e non forzare la realtà dentro il solo disegno tecnico ed economico. Qui si possono ritrovare anche il sacro e la politica. Entrambi spogliati delle loro pretese assolute, e rigenerati in componenti essenziali del senso dell’umano. Il sacro, rigenerato nel dialogo delle religioni come possibilità del trascendente. In un senso umano del non-qui e non-ora. Da condividere con l’umanità tutta.
E la politica a sua volta rigenerata nel senso della comunità e della società di ciò che ci è anche fisicamente “prossimo”. Una politica che incarni una sovranità partecipata e limitata, ma portatrice di legami di senso fisici e concreti con un territorio e una società, in una sana dialettica col virtuale e il digitale smaterializzati.
L’uomo infinitamente potente di Magatti può abitare davvero la sua infinita potenza se non dimentica di essere, appunto, in-finito. Non completo, non padrone del suo fondamento ma eccentrico ed eccedente.